Negli ultimi anni, nonostante certe problematiche sulle quali non mi soffermo, si è cominciato a dare più attenzione alle conseguenze sociali del carcere, alla vita all’interno di questo, alle famiglie. Ma l’aspetto più pesante riguarda i bambini che subiscono inconsapevoli ed incolpevoli le sofferenze, gli errori, i colpi di destino dei genitori; il disagio che questi bimbi devono affrontare, il fatto di dover convivere con l’assenza di un genitore e non capirne nemmeno i motivi o quantomeno non essere in grado di comprendere la profondità dei meccanismi e dover accettare la doppia faccia della giustizia (per la collettività) con il suo risvolto di ingiustizia (personale per loro, i figli). Il problema è stato posto e qualcuno lo ha affrontato o lo sta facendo. Esiste una onlus, Associazione Bambini senza sbarre che si propone di fornire gli strumenti per affrontare una situazione così complessa. In primo luogo rendere possibile la comunicazione e la spiegazione del perché sta accadendo qualcosa che i bambini non capiscono. Poi consentire l’accesso; educare la collettività ad evitare la riprovazione sociale, l’emarginazione. Infine, aiutare quei bambini a superare il trauma, sostenerli, eliminare il loro complesso e la loro vergogna. Ho letto che ogni anno sono circa 100.000 l’anno i bambini che vivono questo dramma, fatto di attese, mancate spiegazioni, perquisizioni, ambienti estranei e ostili; l’associazione ha condotto una ricerca in 213 carceri italiane, evidenziando dati da cui risulta – pare – che non tutte le carceri hanno locali adeguati alle visite, che gli orari non sono compatibili con la scuola, che non sempre gli incontri non sono sempre consentiti di domenica e che spesso le telefonate sono vietate. L’anno scorso è stata avviata una raccolta fondi per finanziare la predisposizione di uno spazio d’accoglienza all’interno delle carceri, dove i bambini possano essere affiancati anche da psicologi ed educatori. Lo spazio giallo, così chiamato, è attivo in 3 carceri di Milano e il progetto continua nel resto d’Italia. Le iniziative dell’Associazione non si limitano a questa e coinvolgono anche interrogazioni parlamentari e una Risoluzione Europea che, al solito, in Italia non viene applicata, ma per una volta, pare, nemmeno in altri Stati.

Altre associazioni si stanno muovendo negli ultimi anni per sviluppare progetti aventi ad oggetto la vita e il lavoro all’interno del carcere, anche se non rivolte ai bambini dei detenuti ma ai carcerati stessi. Questi sono di solito finalizzati a sviluppare la abilità lavorative e in un certo qual modo promuovere il reinserimento dei detenuti in un contesto economico- sociale che consenta loro, in una fase successiva, di poter reintrodursi nel mercato del lavoro. Uno di questi progetti è “Made in carcere” ,sviluppato da una manager italiana che ha ideato 2 laboratori di sartoria per le detenute dove queste imparino a cucire e produrre borse, braccialetti, etc confezionati con materiali di recupero.
Un simile scopo è condiviso da un altro progetto, “Sapori reclusi” : i detenuti sono invitati a sperimentare le loro abilità in cucina con l’ausilio di chef che tengono delle lezioni.
Nel carcere di Volterra, invece, da qualche tempo esiste “Cene galeotte” , dove si cucina in carcere ma per avventori esterni, con l’assistenza di chi provvede a fornire le materie prime, alla retribuzione dei detenuti, all’assortimento dei vini abbinati.

Francesca Variola