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Io, donna nel tempo

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titolo
  
©coc

Con il patrocinio e il contributo

delle Commissioni per le Pari Opportunità

del Comune di Udine

e della Regione Friuli Venezia Giulia

 

 

 

 

Mauro Bullo  Paola Schiratti

 

 

Io, donna nel tempo

 

Il contributo politico, sociale ed economico

delle donne in Friuli da oggi al primo dopoguerra

 

 

Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon”

 Scuola Polo per l’insegnamento della storia

 


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Mauro Bullo - Paola Schiratti

Io, donna nel tempo

Il contributo politico, sociale ed economico delle donne in Friuli da oggi al primo dopoguerra

© 2005 - Arti Grafiche Friulane

 

Con la collaborazione delle insegnanti e delle classi:

Isanna Bonoris, Rosalia Sgubin, 5 A Igea - a. s. 2001/2002 e 5 A Linguistico - a. s. 2002/2003 dell’ITC “V. Manzini” di San Daniele del Friuli (UD)

Gianna Buda, Daniela Zilli e 5 B Erica - a. s. 2002/2003 dell’ITC “C. Deganutti” di Udine

Filomena Terrone e 5 A - a. s. 2002/2003 dell’ITC “M. Gortani” di Tolmezzo (UD)

Paola Venturini e 5 B Igea - a. s. 2002/2003 dell’ITC “L. Einaudi” di Palmanova (UD)

3 B Igea - a. s. 1999/2000 e 5 A Liceo - a. s. 2002/2003 dell’ITC “A. Zanon” di Udine

 

Con il contributo delle Istituzioni:

Commissione Pari opportunità del Comune di Udine

Commissione Pari opportunità della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia

Camera di Commercio di Udine

Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del Friuli Venezia Giulia

Università agli Studi di Udine - Dipartimento di Storia

Università agli Studi di Udine – Dipartimento di Giurisprudenza

 

Un ringraziamento particolare a quanti hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro:

Sabrina Bibi Agosto

Prof.ssa Ivana Bonelli

Ins. Pierangela Brenelli

Prof. ssa Liliana Cargnelutti

Ins. Elsa De Vecchi

Dott.ssa Cinzia Del Torre

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Dott. ssa Anna Di Giannantonio

Dott. ssa Valeria Fili

Dott. ssa Gloria Nemec

Dott. Mario Passon

Prof. Fulvio Salimbeni

Prof. ssa Pia Tamburlini

 

 

 

 

 

 

 

Marzo 2023, revisione della versione digitale del volume a cura di Alessandra Ksenija Jelen e Domenico Barbiera

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Enrico IV salì sul trono d’Inghilterra, con sua grande soddisfazione, nell’anno 1399.

Si deve supporre che Enrico fosse sposato, dal momento che sappiamo di certo che ebbe quattro figli,

ma non è in mio potere informare il lettore su chi fosse sua moglie.

 

 Jane Austen, “La storia d’Inghilterra dal regno di Enrico IV alla morte”

 

 

 

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Presentazione di Cinzia Del Torre

 

 

Tutti noi siamo soliti apprendere dai testi scolastici quella che, con termine di manzoniana memoria, viene definita la "grande storia", ossia ciò che concerne politica, economia, religione nonché ogni altro aspetto della vita che comporti conseguenze per intere popolazioni o comunque per grosse porzioni di territorio. Raramente viene data agli studenti la possibilità di analizzare la "piccola storia", cioè quella delle persone comuni, le cui abitudini quotidiane restano ignote ai più, dal momento che hanno importanza solo per una ristretta cerchia di soggetti.

Ancor meno di frequente poi si vedono attivati progetti che abbiano lo scopo di indagare la storia delle donne le quali, da sempre, sono state escluse dalla "grande storia" che, vista in un'ottica di genere, è indiscutibilmente e salvo rari casi, la storia degli uomini.

La Commissione Pari Opportunità del Comune di Udine, consapevole di come la storia non sia neutra bensì abbia un genere - basti pensare come lo stesso evento, venga vissuto in maniera anche molto diversa da individui appartenenti a generi diversi - ha ritenuto opportuno impegnarsi, grazie al coinvolgimento e al sostegno della Commissione Regionale Pari Opportunità, affinché questo volume fosse pubblicato e dunque il lavoro di ricerca in esso contenuto potesse essere meglio conosciuto.

Il valore di questa ricerca non attiene, certamente, alla scienza statistica, né vuole essere un censimento delle donne del Friuli Venezia Giulia, ma si estrinseca sul piano umano, e ciò sia perché mette in luce esperienze di vita vissuta, raccolte per mezzo di molteplici interviste, sia perché ha dato la possibilità agli studenti intervistatori di osservare la realtà da un'ottica di genere.

E' noto a tutti che le donne, nel corso del Novecento, hanno avuto sempre più la possibilità e sviluppato la volontà di elevare il livello di scolarizzazione, hanno dato maggiore importanza al lavoro fuori casa e hanno acquisito via via una più ampia indipendenza economica e psicologica dalla famiglia, ma tutto questo è avvenuto non senza fatiche, sofferenze, rinunce e soprattutto lunghi anni e lente trasformazioni sociali.

Sono questi ultimi i risvolti di carattere personale che la ricerca mette in luce, e lo fa riportando le parole di coloro le quali hanno vissuto direttamente ogni singolo stadio di questa evoluzione, qui ripercorsa da coloro i quali vivono, in prima persona, le conseguenze ultime di un tale percorso.

La ricerca svolta inoltre ci offre un'interessante occasione di riflessione poiché, anche dalle interviste alle donne della terza generazione, emerge una società nella quale si può affermare senza timore di smentita che non siano ancora state raggiunte reali pari opportunità tra uomini e donne

 

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Cinzia Del Torre
Presidente Commissione per le Pari Opportunità
Tra Uomo e Donna
Comune di Udine

 

 

 

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Presentazione di Emanuela Renda Musoni

 

 

Il laboratorio Io, donna nel tempo, da cui questa pubblicazione nasce, si è avviato nell’ambito della istituzione dei Poli di Storia, previsti dal Ministero della Pubblica Istruzione negli anni 1996 - 1997, finalizzati a incentivare e innovare l’insegnamento della Storia, in particolare quella del Novecento, per rendere questa disciplina, complessa e spesso ostica per gli adolescenti, più vicina all’interesse, alle facoltà e alle strutture mentali degli studenti delle scuole superiori d’oggi. I Poli, consesso di più scuole guidate da un capofila, hanno ricevuto sufficienti finanziamenti, per organizzare corsi di aggiornamento e formazione dei docenti, acquistare materiale, organizzare sperimentazioni didattiche. Quest’ultima è stata la scelta fondamentale del Polo degli Istituti Tecnici Commerciali della Provincia di Udine.

L’idea di organizzare un laboratorio di ricerca storica è partito da un gruppo di insegnanti dell’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon” di Udine per coinvolgere direttamente in un lavoro attivo gli studenti e le studentesse. Non poteva che trattarsi di storia del territorio per motivare gli studenti alla ricerca; così è stata scelta un’indagine di genere per l’interesse metodologico ed epistemologico che tale disciplina offre. Ci si è concentrati sul lavoro delle donne in un arco di tempo che percorre il Friuli dal 2000 al primo dopoguerra per l’attinenza con gli studi economico-commerciali dei nostri studenti.

L’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon”, capofila del Polo di storia, ha organizzato e coordinato l’attività cui hanno collaborato e partecipato gli Istituti Tecnici Commerciali “Cecilia Deganutti” di Udine, “Luigi Einaudi” di Palmanova, “Vincenzo Manzini” di San Daniele, “Michele Gortani” di Tolmezzo, a essi si sono aggregate la scuola Media “Via Petrarca” e l’Elementare “IV Novembre” di Udine.

Il rapporto tra scuole di diversa area geografica e contesto (la Carnia, il Sandanielese, la “Bassa friulana”) è stata un’utile esperienza finalizzata a costruire curricoli innovativi e trasversali. La collaborazione tra docenti ha permesso di discutere i diversi approcci da tentare tenendo conto delle diversità, per raggiungere alla fine  l’obiettivo di realizzare un risultato organico. I materiali elaborati sono comunque un apporto alla conoscenza di una tematica importante, quale il contributo dato dalle donne all’economia del territorio, non ancora sufficientemente analizzato.

Ma questo tipo di attività oltre ad aprire le scuole, i docenti e i discenti a contatti tra loro, ha favorito anche la collaborazione e lo scambio tra gli Istituti scolastici e le altre Istituzioni del territorio, Università, Comune di Udine, Regione, Camera di Commercio, radio, televisioni e stampa locali. Questi contatti hanno rappresentato per gli studenti opportunità nuove di conoscere personalità, di frequentare ambienti in molti casi mai sperimentati. Anche le interviste alle donne “importanti” sono state spesso occasioni di un confronto significativo, perché il contatto con persone di livello e capacità comprovate tocca e

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lascia il segno.

A tutti coloro che così gentilmente hanno collaborato va il mio sentito ringraziamento, in particolare alle Commissioni per le Pari Opportunità del Comune di Udine e della Regione Friuli Venezia Giulia che con il loro sostegno hanno permesso la pubblicazione di questo volume, con l’augurio che questo libro sia una tappa di studio e di ricerca su tematiche silenti, ancora non dibattute, che hanno coinvolto anche le donne friulane nel processo storico di sviluppo delle nostre terre.

 

Prof. Emanuela Renda Musoni

Dirigente Scolastico dell’ITC “Antonio Zanon” di Udine

 

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Io, donna nel tempo

 

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Prefazione di Fulvio Salimbeni

 

Nel n. 1 del 2005 di “Contemporanea” è stata pubblicata un’interessante discussione a più voci sulle Traiettorie della World History, all’interno della quale compariva pure un intervento di Ida Blom su Analisi di genere e “Global History”, che metteva in luce il rilievo assunto da tale nuovo filone di ricerca nell’odierna storiografia mondiale, in particolare da quando ha iniziato a essere svolto in chiave comparativa  su una serie di questioni specifiche di carattere economico, culturale, politico, religioso, giuridico, localizzate in peculiari contesti geostorici. Quello che un tempo sembrava un dato antropologico astorico, biologico, proprio del regno della Natura, del quale lo studioso di scienze sociali non aveva motivo alcuno per interessarsi, oggi si sta, invece, rivelando, grazie alla rivoluzione delle “Annales” di metà Novecento, che ha rinnovato e trasformato il modo di concepire e di praticare l’indagine storiografica, uno dei settori trainanti, e vincenti, d’essa.

Ormai non si contano più le opere di carattere generale sull’argomento, a partire dalla nota Storia delle donne in Occidente, coordinata da Georges Duby e Michelle Perrot, tradotta in italiano da Laterza, divenuta un imprescindibile testo di riferimento per chiunque s’occupi di tali argomenti, e le iniziative editoriali - dalle riviste alle monografie - in materia, tra le quali si può senz’altro annoverare il divulgativo ma rigoroso e informato volumetto di Claudio H. Martelli, La Bibbia e la donna, fresco di stampa per i tipi di Hammerle di Trieste (2005), senza trascurare l’attività della Società italiana delle storiche, fattesi, tra l’altro, editrici del semestrale “Genesis” - erede, in qualche misura, di “DWF” e di “Memoria” -, oltre che di numerose pubblicazioni, e promotrici di convegni, seminari, corsi d’aggiornamento (il tutto è reperibile nel sito www.societadellestoriche.it), mentre è recente l’avvio del periodico elettronico, ospitato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, “DEP - Deportate, esuli, profughe”. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile. Un riconoscimento, in certo qual modo, di tali nuovi orientamenti è venuto, del resto, dalla pubblicazione, curata da Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, dei tre volumi di Italiane, raccolta, peraltro assai discutibile per criteri di scelta e per metodologia dell’impianto, di biografie di donne “illustri” promossa, nel 2004, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità, che comunque attesta la nuova sensibilità in materia che si va affermando e che trova un puntuale riscontro pure nel mondo della scuola, dove le riforme dei programmi d’insegnamento della storia dell’ultimo ventennio non hanno mancato di richiamare l’opportunità di lavorare anche in tale campo d’indagine per le valenze sia teoretiche sia civili che esso offriva.

è in un tale contesto che si colloca Io, donna nel tempo. Il contributo politico, sociale ed economico delle donne in Friuli da oggi al primo dopoguerra, che, affiancandosi degnamente a similari progetti didattici a livello nazionale e locale, prova nella maniera più efficace quello che ancora il nostro sistema educativo è capace di dare allorché vi siano docenti motivati e preparati, che credono nella loro funzione e s’impegnano a sviluppare organiche forme di

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collaborazione con l’università, così da tenersi al passo con i risultati della più avanzata ricerca disciplinare. Da un paio d’anni, infatti, nell’ateneo di Udine è attivo il Laboratorio per la ricerca e la didattica della storia, ideato e avviato proprio come struttura di raccordo e collegamento permanente con gli insegnanti, che ha già organizzato incontri e colloqui anche sulla storia “al femminile” - ultimo tra i quali quello con Silvia Salvatici, dell’ateneo di Teramo, curatrice della sezione monografica di “Genesis”, III, 2, 2004, dedicata alle Profughe -, vista come una delle nuove frontiere epistemologiche, che consente, oltre tutto, d’attuare in concreto quella pluridisciplinarietà tanto decantata ma ben di rado praticata, che è decisiva per un’effettiva  ed efficace innovazione metodologica e per abbattere una volta per tutte i tradizionali steccati tra materie della stessa area umanistica.  I materiali raccolti in questo volume, curato da Mauro Bullo e Paola Schiratti, che è il brillante risultato d’un organico impegno collegiale, che ha visto coinvolti gli Istituti Tecnici Commerciali della provincia di Udine - avendo per capofila lo “Zanon” - in un articolato e organico progetto d’ampio respiro, già presentato e discusso in pubblico alla sua conclusione, in tal senso costituiscono un contributo significativo e prezioso per più versi.

Da un lato, infatti, va rilevata l’importanza dell’attivazione della comunicazione intergenerazionale in un momento in cui si lamenta, non a torto, la mancanza di dialogo tra padri, per non dire nonni, e figli e la solitudine dei giovani, che si sentono privi di radici e di connessioni con il passato, anche domestico, laddove in un tempo ancora non troppo remoto la famiglia era il primo luogo d’elaborazione sia d’un sentimento d’appartenenza a una storia sia di un’identità sociale, nonché di trasmissione di valori culturali. Aver, quindi, indirizzato gli studenti a ricercare un rapporto diverso con i propri congiunti, vedendoli come depositari d’un sapere non libresco, ma, per così dire, esistenziale, che apriva loro una dimensione storica “vissuta” e “quotidiana”, altra e diversa da quella abituale, manualistica, riattivando il flusso della memoria, è stato un merito non da poco. Certo, parlando di memoria, bisogna guardarsi dalla sua sopravvalutazione e acritica esaltazione, come troppo spesso avviene in ambienti che, per quanto della scienza cara a Clio poco o nulla intendano, pur presumendo di saperne e capirne più dei professionisti d’essa, la contrappongono alla storiografia, ma è indubbio che le memorie familiari possono riuscire una valida e stimolante introduzione alla curiosità storica e a una prima conoscenza dei tempi trascorsi.

Per un altro verso, poi, quest’inchiesta implicante sorelle, madri, nonne, che si fanno fonti, accostate secondo precise modalità euristiche, d’una “storia vivente”, per riprendere un’icastica espressione di Lucien Febvre, cofondatore, con Marc Bloch, delle “Annales”, mette a contatto i giovani con uno dei territori nuovi dell’indagine storica, quello dell’oralità, punto di forza, e nel contempo non privo di rischi, della contemporaneistica, rendendoli consapevoli dei molteplici e diversi modi tramite i quali s’esplica il mestiere dello storico, che è, o almeno dovrebbe essere, uno degli aspetti qualificanti dei nuovi programmi. Da questo punto di vista, inoltre, l’indagine in argomento ha il pregio, tutt’altro che secondario, di rovesciare la tradizionale impostazione didattica, partendo dall’oggi e dai suoi problemi attuali per andare a ritroso alla ricerca delle loro radici e premesse, seguendone  i complessi e travagliati percorsi, anche in

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questo riprendendo un’importante indicazione di metodo attorno alla quale ruota la classica e sempre insostituibile Apologia della storia del Bloch, che appunto sosteneva l’esigenza, e l’opportunità, euristica di muovere dal presente e dalle sue questioni aperte per proiettarsi nel passato, nel quale coglierne le ragioni di fondo, in questo modo offrendo  ai giovani una percezione della storia come disciplina umanissima, rispondente ai bisogni del proprio tempo, attrezzata per lumeggiare la dialettica che lo connota e le tensioni che lo agitano e animano, e che può essere compresa pure interrogandola “dal basso”, dando la parola non solamente ai cosiddetti “grandi” o eroi alla Carlyle (condottieri, statisti, pensatori), ma anche ai ceti subalterni, alle masse anonime, agli attori collettivi.

E certamente il tema dell’emancipazione femminile, ancor oggi affatto superato e consegnato agli archivi della memoria, ma più vivo che mai se non altro pensando agli odierni dibattiti sulla condizione della donna nel mondo arabo e islamico e alla vexata quaestio del velo per le immigrate in Europa, con i noti discussi risvolti friulani, si presta in maniera egregia a una simile operazione storica, come si può rilevare analizzando i risultati della ricerca confluita nelle pagine che seguono, che offrono una documentazione originale e d’estremo interesse su uno spaccato peculiare di storia regionale, ancora non molto frequentato dalla storiografia accademica, benché già Paola Drigo, scrittrice oggi quasi dimenticata, ma a suo tempo apprezzata da uno studioso quale Manara Valgimigli, nel racconto Maria Zef, pubblicato nel 1937 da un editore di rilievo come Treves, avesse denunciato senza pietismi e sentimentalismi il tragico quadro di miseria, depressione e squallore nel quale viveva la donna carnica ancora nel ventennio fascista. Ed è appunto l’affascinante trama del riscatto da tale condizione di subalternità e della conquista, faticata e contrastata da pregiudizi e opposizioni preconcette di natura etica e sociale, della piena parità di diritti, oltre che di doveri, dell’elemento femminile in Friuli, sia pure colta tramite campioni selezionati (ma è una campionatura piuttosto ampia e variegata), che si dipana grazie alle risposte raccolte dagli studenti, che lumeggiano un percorso collettivo che, partendo dall’inizio del Novecento, giunge ai giorni nostri, ponendo in evidenza diversi livelli e dimensioni di storia collettiva. Si va, infatti, dalla conquista dell’istruzione alla fuoruscita dall’ambiente domestico per inserirsi nel mondo del lavoro, con le conseguenti battaglie per la parità delle condizioni salariali e di trattamento in fabbrica, dall’ascesa sociale nel campo delle professioni un tempo riservate solo alla componente maschile alla militanza nelle organizzazioni femminili e femministe, fornendo una prospettiva “dal basso” di quella che è stata la modernizzazione in Friuli, in particolare dopo la seconda guerra mondiale e ancor più dopo la traumatica esperienza del terremoto del 1976.

Ricalcando il titolo d’un recente (2004) quanto notevole saggio autobiografico di Lisa Foa, è andata così, pubblicato dall’editrice palermitana Sellerio, che propone all’attenzione del lettore un’esperienza personale che, attraversando buona parte del XX secolo, consente di rivivere momenti e problemi  cruciali delle vicende nazionali, si potrebbe dire che, tramite questa nutrita serie d’interviste, “è andata così” pure per queste donne, certo non protagoniste

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della grande storia, quella con la S maiuscola, che hanno, invece, subìto, reagendovi e contrastandola con ammirevole dignità e fierezza, con la loro testimonianza esplicitando in ambito provinciale un processo di portata generale e ormai oggetto di specifica trattazione anche nei manuali di storia contemporanea e d’introduzione metodologica allo studio della storia. Quel che, del resto, si può ricavare da un intelligente e sagace uso di tale peculiare genere di fonte e ricorrendo, con le debite cautele critiche, alla memoria è comprovato altresì - per rimanere solo in ambito regionale e nel contesto scolastico - dai tre volumi: Riannodare il filo del ricordo. Racconti sul cotonificio, Piccolo dizionario ragionato del cotonificio e dintorni e Il Cotonificio Olcese Veneziano alle origini dell’industria pordenonese, a cura di Italo Corai e dei ragazzi del locale Liceo Scientifico “Grigoletti” (Pordenone 2004), nei quali è confluito il progetto “La storia, le storie” (presentato in dettaglio nel sito www.storiastoriepn.it) , che, grazie a interviste alle protagoniste, ha permesso di ricostruire in dettaglio l’epoca del tessile nella Manchester italiana - già oggetto, nelle sue premesse e origini, della fine e documentata analisi di Luigi Mio, Industria e società a Pordenone: dall’unità alla fine dell’Ottocento (Paideia, Brescia 1983) -, illustrata tramite il caso dei cotonifici che ne furono l’emblema e di coloro che ivi lavorarono, trovando poi pubblica rappresentazione nello spettacolo di Ascanio Celestini, Storie di cotone, rappresentato il 20 giugno scorso nei luoghi stessi che dei fatti narrati furono teatro.

Sono iniziative come queste che, nonostante tutto e contro tutto, fanno ancora sperare nel ruolo formativo e non solo professionalizzante della nostra scuola, che, là dove vi siano insegnanti validi - e non sono, per fortuna, rari -, sa ideare progetti d’ampio respiro, in grado di coinvolgere competenze diverse e di dare sangue e corpo alla ricerca storica, proponendola quale disciplina viva, sollecitatrice di curiosità e nel contempo idonea a rispondervi. Per persuadersene non resta che leggere le pagine di questo denso e utile testo, che travalica i limiti d’un compito scolastico, per quanto serio, per assumere dignità di vero e proprio contributo scientifico.

 

Prof. Fulvio Salimbeni

Docente di Storia contemporanea

Università degli Studi di Udine

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Avvertenza

La peculiarità di questo lavoro e il suo merito stanno nel numero di persone, di energie, di organismi che per realizzarlo si sono mobilitati. Sei insegnanti di cinque Istituti tecnici commerciali della provincia di Udine hanno diretto per tre anni scolastici in prima persona il lavoro, coadiuvati da altri quattro docenti , e  cinque insegnanti di scuola elementare e di scuola media hanno sviluppato un lavoro parallelo o collaborato settorialmente. Sono stati coinvolti nel lavoro centoventi studenti delle scuole superiori, venti della scuola media e circa quaranta della scuola elementare. Gli studenti superiori hanno realizzato centocinquantaquattro interviste, raccolto materiale iconografico, ricostruito quadri di storia locale e nazionale, raccolto dati istituzionali, scritto relazioni, costruito quadri e tavole sinottiche, realizzato un ipertesto multimediale, partecipato a conferenze, incontri, lezioni negli ambiti diversi di produzione di cultura del territorio, presentato in situazioni formali il loro lavoro. Il risultato di questo sforzo è ora raccolto in questa pubblicazione dove sono inserite  le relazioni delle classi, le interviste più significative, le appendici con diversi materiali elaborati da studenti e docenti. L’attività  nelle singole classi degli Istituti superiori è proceduta in parallelo, ma ognuna l’ ha elaborata autonomamente, secondo le diverse disponibilità di tempo e lo spazio previsto per questo lavoro nella programmazione dell’insegnamento della storia. I diversi risultati sono comunque coerenti e permettono di fare un quadro della vita delle donne, dell’economia e della società nel Friuli novecentesco visto da diversi punti di vista e dalle quattro aree che lo formano (Carnia, zona collinare, Friuli centrale, Bassa friulana). Pensiamo che questo lavoro scolastico possa essere utile sia come modello di attività didattica, sia come contributo di dati, raccolti con le interviste.

 

Mauro Bullo                          Paola Schiratti

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La metodologia e la ricerca

 

Introduzione

 

Una scrittrice inglese, ma anche lettrice di romanzi, come Jane Austen (1775-1817) si dichiarava terribilmente annoiata dallo studio della storia, dove le donne non compaiono mai, mentre nei romanzi, come nella vita reale ci sono. Ma perché le donne nella storia non compaiono se non marginalmente? Gli storici Davids (1976) e Thompson (1981) hanno notato che la storia si è interessata a lungo soltanto di ciò che viene recepito in mutamento. Ciò che appare stabile o suscettibile di modifiche lente appare soltanto sullo sfondo.

Se siamo interessati al divenire, il sesso femminile non viene considerato perché raramente si sono viste donne protagoniste nella vita politica, militare ed economica. Ma se siamo invece interessati alla struttura, allora dobbiamo interessarci delle donne. Così è successo che la storia si è interessata di certi fenomeni, altri sono stati demandati all’antropologia.

La storia ha sempre voluto sottolineare la dinamica del progresso che propone il modello occidentale come chiave del mutamento, mentre molti aspetti delle attività delle donne sono percepiti come immutabili.

Così ciò che non rientra nell’idea di progresso viene assegnato al campo di studi dell’antropologia. Ma nella storiografia moderna c’è stata convergenza tra storia e antropologia. Oggi gli storici si interessano del micro: di donne, contadini, artigiani, giovani, comunità isolate, del magico, del simbolico, perché ciò permette una più ampia conoscenza dei fenomeni e dei fatti.[1]

Lo scopo della storia di genere è quello di indagare la realtà storica facendo attenzione al punto di vista femminile, il che può significare cogliere gli aspetti informali e nascosti di una realtà che le donne controllano talvolta in misura superiore a quella superficialmente percepibile.

La storia diventa più interessante se si fa attenzione all’ottica femminile, allo spazio e al ruolo occupato dalle donne. Studiando la loro storia, i fatti e i fenomeni storici acquisiscono un più profondo significato. Studiare a esempio il comportamento delle donne durante una guerra permette di capire che cosa significhi quella guerra per la popolazione civile e non solo sui campi di battaglia o nei trattati. Studiare l’apporto economico delle donne in un’area geografica e in un determinato periodo storico, aiuta a capire come si viva in quel luogo e in quel tempo. Studiare gli stereotipi che riguardano il maschile e il femminile fa comprendere a fondo i modelli culturali di una data società: ad esempio il valore attribuito alla maternità da donne diverse per ceto sociale,

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provenienza geografica e cultura nell’Italia degli anni Cinquanta. Ciò ha permesso di ricostruire in modo ben più ricco e significativo una realtà storica.

La scelta del laboratorio è ricaduta su un’indagine basata sulla storiografia di genere perché si tratta di una metodologia innovativa, che si struttura tramite l’intervista intesa come racconto di vita, il documento privato (la lettera, il diario, la busta paga, il titolo di studio, il contratto), l’immagine fotografica e iconografica, il confronto tra questi documenti e i dati ufficiali. Abbiamo ritenuto più efficace questo tipo di approccio diretto, più affettivo e “caldo”, più vicino alla sensibilità dell’adolescente e alla fine coinvolgente. Ogni studente si è sentito protagonista del proprio lavoro come tassello fondamentale per la ricostruzione complessiva e la comprensione di una storia non solo particolare ma anche globale.

L’attività si è avviata inizialmente cercando di ricostruire il quadro storico ed economico del Friuli dall’oggi al primo dopoguerra, di approfondire l’epistemologia e la metodologia della storia di genere, focalizzando l’attenzione soprattutto sull’intervista, con il coinvolgimento di esperti. Ciò ha favorito i primi approcci tra insegnanti e studenti di scuole e realtà diverse e consolidato i rapporti. Ogni classe ha poi avviato il proprio lavoro: incontri regolari tra i docenti e più rari, ma comunque costanti, tra gli studenti hanno permesso di procedere in parallelo, malgrado le diversità delle situazioni (ore di lezione per classe, possibilità di fruire di ore dell’area di integrazione, facilità di accesso alle fonti, coinvolgimento di altri insegnanti del Consiglio di classe) e di arrivare comunque alla fine del triennio con un prodotto finale. Il primo lavoro è stato individuare i soggetti da cui partire e intervistarli. I questionari sono stati elaborati in classe in gruppi di lavoro. Abbiamo scelto, d’accordo con gli studenti, di intervistare donne nell’ambito della famiglia o delle conoscenze dirette di ognuno. Dal punto di vista didattico e affettivo la scelta ha sortito risultati positivi. Gli studenti attraverso l’intervista alle donne della loro famiglia, madri, nonne, zie, hanno ricostruito le loro vicende private e si sono coinvolti emotivamente. I dati delle interviste nel momento della sintesi e della valutazione finali si sono rivelati molto ricchi; confrontati tra loro hanno permesso di ricostruire un quadro omogeneo nell’ambito del territorio e in linea con i dati istituzionali.

L’attività ha permesso inoltre, durante il suo svolgimento, di ottenere alcune soddisfazioni anche esterne alla scuola: le due serie di trasmissioni radiofoniche registrate presso una radio locale, le interviste rilasciate alla stampa, gli incontri con gli esperti, hanno consentito ai giovani di sperimentare approcci con ambienti interessanti forse mai frequentati prima.

 

 

Storia, memoria, identità

 

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Osservandola dal punto di vista di un alunno di scuola superiore la storia è una materia ostica. I ragazzi hanno difficoltà ad affrontarla e ad amarla. Invece è materia che si studia per tredici anni, e, sino al precedente ordinamento, con la ripetizione di programmi e metodi per ben tre volte. Ma un’altra storia è possibile, o meglio, è possibile insegnare, immergersi nella storia, con altre metodologie. Per fare questo è necessario assumere un diverso punto di vista e specificare i contorni di ciò che intendiamo per storia.

La storia è intesa da noi come il recupero della memoria individuale e collettiva. La memoria individuale è l’acquisizione della coscienza di essere un individuo unico e irripetibile, inserito in una catena familiare e perciò emotiva, ma anche sociale e partecipe degli eventi del tempo.  Questa consapevolezza dovrebbe essere trasmessa agli studenti fin dal primo approccio con la materia e continuamente richiamata dagli insegnanti.

Per memoria collettiva, invece, intendiamo il senso profondo di ognuno di noi di essere caratterizzato come comunità o popolo, o nazione, il che è visibile quando si traduce in comportamenti e valutazioni condivisi.

Compito della storia è rispecchiare questa memoria facendola conoscere, in modo che ognuno sappia riconoscersi attraverso le vicende della comunità nella quale vive. Ad esempio il poeta Ungaretti nella poesia I fiumi dice:

 

Mi son disteso

in un’urna d’acqua…e

ho ripassato

le epoche

della mia vita

Questi sono

i miei fiumi

…il Serchio

al quale hanno attinto

duemil’anni forse

di gente mia campagnola

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L’adolescente è alla ricerca di una propria identità, è alla ricerca di modelli umani e di appartenenza sia individuali che sociali.Oggi i ragazzi possono scegliere in un mercato vastissimo di modelli, anche molto contraddittori: Manu Chao, Francesco Totti, i naziskin, i leader politici, Don Ciotti, Don Benzi, il Papa. Ciò, se da una parte è un vantaggio, dall’altra può causare disorientamento e insicurezza. Può intervenire la storia: in che modo? La storia isola ed evidenzia alcune figure e ne permette la ricostruzione nella loro interezza. Offre così una maggiore sicurezza.

Da un’intervista a una mamma:

Qual è stata l’esperienza che ti ricordi maggiormente, la più bella o la più spiacevole, nel campo lavorativo?

“… lì in un ambiente con tante persone cominci a riconoscere le persone stesse, cominci a capire chi ti frega, chi ha voglia di lavorare, chi non ha voglia di lavorare e ricordi per esempio il periodo degli scioperi dove magari gli operai erano tutti fuori invece gli impiegati erano tutti dentro…

….E poi una cosa che mi è rimasta impressa è che, quando mi ha fatto il colloquio di lavoro, il titolare, invece di chiedermi cosa sapevo fare, se sapevo scrivere a macchina, mi ha detto di scegliere qualcosa che sapevo fare e io ho parlato di come si lavora nell’orto, per dire, dalla vangatura, alla semina, alla nascita, al raccolto difatti lui era quello che voleva capire cioè partire da un niente per arrivare a un qualcosa.”

L’intervista ha permesso di conoscere la madre sotto un’altra luce e di arricchire di significato la sua vicenda personale.

La storia offre la possibilità di conoscere anche i comportamenti di un’intera comunità, ad esempio quella in cui si vive. Si può sapere come si è evoluta la situazione del Friuli nel tempo, in rapporto alle migrazioni di popoli e alla emigrazione dei friulani. Ciò favorisce la presa di coscienza di ciò che si è e apre la strada verso la comprensione di ciò che sono gli altri che, come noi, si sono formati attraverso percorsi.

Ciò fa sì che di fronte all’altro, diverso da noi, si superi la diffidenza che nasce dall’ignoranza. Dobbiamo sapere che è necessario essere informati su ciò che siamo stati e ciò che siamo.

Le possibilità di fare storia a scuola sono molte: c’è però un approccio che prevale sugli altri. Si tratta della storia che procede per elencazione successiva di avvenimenti importanti. Alcuni decenni fa per avvenimenti importanti si intendevano le vicende politiche ed economiche, con particolare attenzione alle questioni militari. Ciò è evidente dall’analisi dei manuali scolastici, che risentivano ancora del clima post unitario e risorgimentale, e che offrivano sostanzialmente la visione eurocentrica dei vincitori (ad esempio nazioni o classi sociali egemoni). Si vedrà poi nella Tavola sinottica riportata in appendice come altre strade siano possibili.

Gli studenti hanno autonomamente rilevato avvenimenti che riguardano diverse aree geopolitiche e diversi soggetti, come le donne. E d’altra parte gli

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studi storici più attuali hanno aperto nuove prospettive che anche a scuola vengono applicate. Dall’idea di storia complessiva si è passati alle storie. Per spiegarlo, proponiamo un percorso: proviamo a chiederci quali possano essere i dieci avvenimenti più importanti nella storia umana dall’antichità a oggi, con l’ottica di un europeo. L’elenco è il risultato di un lavoro didattico fatto con gli studenti:

·            Le pitture murali nelle grotte ad Altamura e Lescaux

·            Le migrazioni ebraiche e la costruzione del Tempio di Gerusalemme, che corrisponde  all’elaborazione della religione monoteista

·            La fondazione delle polis greche, primo modello di democrazia

·            Lo sviluppo dell’Impero romano, prima forma di imperialismo avanzato

·            Le migrazioni barbariche, che disgregano il mondo antico e fondano le nazionalità europee; il contemporaneo sviluppo del Cristianesimo

·            Lo sviluppo di un sistema precapitalistico a Venezia dal secolo XIII

·            La nascita del metodo scientifico da Leonardo, a Galileo, a Newton

·            La rivoluzione industriale e le rivoluzioni liberali, ad esempio la rivoluzione francese

·            Le guerre mondiali, che tracciano un solco con il passato per qualità e quantità degli effetti distruttivi. Auschwitz e Hiroshima

·            La rivoluzione femminile

·            La rivoluzione informatica

 

Sono nodi fondamentali che possono spiegare il cammino europeo, ma per gli studenti rimangono molto lontani sia dalla loro esperienza, sia spesso dalla loro sensibilità poiché escludono sentimenti, vicende private, storie personali, storie locali che sono altrettanto importanti ma anche più vicine alla dimensione dell’adolescente.

Al contrario, per loro esempi significativi di possibili argomenti di studio sono:

·         La storia della fabbrica friulana “Solari” e del suo fondatore

·            La storia delle donne

·            La corrispondenza di guerra

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·            L’intervista a un internato

·            La storia della distribuzione delle acque su un territorio

·            La storia di un processo alle streghe

·            La storia del maniscalco che ha fatto arrestare Luigi XVI

·            La storia del campo di concentramento di Gonars

 

Dice infatti Bertolt Brecht, in Domande di un lettore operaio:

 

Il giovane Alessandro conquistò l’India.

Da solo?

Cesare sconfisse i Galli.

Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Filippo II di Spagna pianse, quando la flotta

gli fu affondata. Nessun altro pianse?

Quante vicende,

tante domande.

 

Questa storia si comincia a trovare sui manuali recenti corredati da fascicoli monotematici.

Ma quali rapporti tra queste due storie? La macrostoria ci permette di conoscere gli eventi che hanno avuto importanti ricadute sulla coscienza individuale e collettiva e nei comportamenti per secoli. Sono gli avvenimenti definiti assiali in quanto perno di vicende umane in tempi e spazi ampi. È anche la storia di lungo periodo (Braudel, Febvre, Le Goff). La microstoria ci permette di entrare nei sentimenti e destini concreti degli uomini e delle donne che hanno fatto e subito la storia.

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Dal racconto del friulano Bruno Fabretti, internato come politico nei Lager nazisti:

La mattina del nove mi sono rifugiato sotto le frasche del bosco e sono rimasto lì tutta la giornata e tutta la notte; la mattina appena scoccata l’alba mi sono avviato verso il bosco e sono arrivato in una radura dove c’erano questi vecchi contadini che seminavano le patate. Ho aspettato due ore che finissero, poi, quando loro sono andati via, io piano piano come un gatto sono andato vicino a questi solchi di patate, ho cominciato a scavare e per me quello lì è stato il primo pranzo in libertà: patate piccoline avvolte nel letame, erano buonissime! [2]

Studiare la storia del lungo periodo è concettualmente arduo: bisogna astrarre e applicare concetti, modelli, schemi elaborati dagli storici di professione, per gli studenti è difficile capirne la lunga portata perché il loro vissuto è di tempo breve. Sono portati a vivere l’oggi.Chiediamo però a loro questo sforzo intellettuale e alcuni arrivano a capire il sistema e il suo valore.

La microstoria e la storia di genere coinvolgono invece più direttamente gli adolescenti perché uomini e donne appaiono e partecipano con il loro vissuto (sentimenti, questioni materiali, vita quotidiana, atteggiamenti).

Gli studenti hanno necessità di conoscere non soltanto la storia fredda dei dati ma anche di immergersi in una dimensione narrativa. Con la storia di genere e la microstoria è più facile che gli studenti diventino parte attiva, possano, con gli strumenti che hanno a disposizione, ricostruire un’esperienza. Ricostruendo appunto la storia di genere, ricercando e rielaborando i dati sul contesto storico-economico del territorio friulano, abbiamo aiutato i giovani studenti a sentirsi inseriti in una realtà sociale e a elaborare una propria Weltanschaung. Tutte e due le storie, quindi, dovrebbero essere insegnate.

 

 

Genere, scuola, lavoro

 

Abbiamo indagato il lavoro delle donne in Friuli a ritroso nel tempo attraverso interviste messe in relazione a dati istituzionali. Avendo suddiviso il territorio in aree corrispondenti alla collocazione geografica delle scuole impegnate nel progetto, con l’uso degli strumenti metodologici della storia di genere, abbiamo fatto ricerca sul campo.  Senza voler anticipare i risultati della ricerca si può affermare ad esempio che nel versante della scolarità ma anche dell’economia, specie per quanto riguarda l’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro, il campione di donne da noi intervistate risulta corrispondente ai dati istituzionali regionali e nazionali. Il confronto tra il nostro campione di dati, comunque significativo perché abbiamo raccolto circa

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centocinquanta interviste, e i dati ufficiali ci ha dimostrato che essi sono coerenti; questo risultato ha valorizzato i racconti delle nostre testimoni, le loro storie di vita che possono essere considerate come commento e spiegazione di ciò che il freddo dato dice.

Abbiamo registrato un diffuso e progressivo aumento del tasso di scolarità negli anni da noi presi in esame. Dalle più anziane che a stento raggiungevano la licenza elementare alle più giovani che possono vantare diplomi e lauree.

I dati Istat da noi considerati indicano che nella nostra regione l’avanzata delle donne a scuola si snoda ancora entro percorsi tradizionali: le ragazze continuano a iscriversi sempre numerose negli istituti scolastici a orientamento commerciale, il 39,9% della popolazione studentesca femminile totale, dimostrando che la figura professionale di riferimento rimane ancora quella della segretaria; le ragazze frequentano l’Istituto Magistrale con un’incidenza del 12,6%, ma anche il gruppo liceale assorbe molte studentesse pari al 35,5% del totale (dati relativi all’anno scolastico 1996 - 1997). Per le ragazze il processo di scolarizzazione appare riconducibile a un processo di crescita, di arricchimento culturale e personale e di ricerca di una propria identità.

La situazione relativa ai percorsi universitari riflette in parte quanto si era già potuto notare per le scuole superiori: cresce in misura significativa la presenza di studentesse, ma in realtà si tratta di una crescita sbilanciata verso settori che non vanno incontro ai fabbisogni professionali evidenziati dal mercato del lavoro locale e quindi l’investimento in formazione fatto dalle giovani donne rischia di presentarsi sul mercato del lavoro come bene poco spendibile e scarsamente competitivo.

Questo processo di scolarizzazione ha avuto comunque l’esito significativo di motivare le donne a esercitare una sempre maggiore pressione per entrare nel mercato del lavoro, modificando pertanto il loro ruolo nell’economia complessiva del territorio.

Un importante indicatore che dà l’idea del cambiamento nell’offerta di lavoro femminile è rappresentato dal tasso di attività (occupati dello stesso sesso di età compresa tra i quindici e i settant’anni), il cui valore giunge oggi quasi a pareggiare quello dei maschi. Infatti l’indicatore di attività di genere femminile risulta fortemente in crescita negli ultimi anni, portandosi dal 38,8% del 1993 al 41,1% sul totale degli occupati del 1998. Il forte incremento e la tendenza a una maggiore stabilità della presenza delle donne tra la popolazione attiva può essere considerata una delle trasformazioni più significative che hanno interessato l’economia e il mercato del lavoro regionale negli anni Ottanta e Novanta, in linea con i dati nazionali.

In Friuli Venezia Giulia, si può notare come la forza lavoro femminile sul mercato del lavoro evidenzi una tendenza nettamente positiva, di crescita. L’offerta del lavoro delle donne, infatti, è andata aumentando con ritmi sostenuti fino al 1996, anno in cui, raggiunte le 208.000 unità, si è riscontrata un’inversione di tendenza che si è conclusa nel 1998 con 203.000 femmine attive presenti nel mercato del lavoro.

Un altro dato importante da sottolineare sul versante femminile dell’offerta lavorativa si registra a partire dagli anni Ottanta, cioè la permanenza al

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lavoro di donne comprese tra i venticinque e i trentanove anni. Una presenza questa che rappresenta senza dubbio un importante segnale di cambiamento non solo economico, ma anche culturale. Le donne hanno maturato la consapevolezza dell’importanza, non solo economica, di svolgere un lavoro extradomestico retribuito. È un fenomeno nuovo, registrato anche dai dati da noi raccolti.

Nel periodo 1993 - 1998 l’andamento dell’occupazione in Friuli Venezia Giulia fa registrare un saldo positivo. Il numero degli occupati passa, infatti, da 455.000 unità del 1993 a 467.000 nel 1998. È interessante vedere come l’incremento del numero di persone occupate è in buona parte dovuto alla crescita della componente femminile che fa ovunque registrare in regione variazioni percentuali positive.

Analizzando la distribuzione delle donne nei vari settori economici relativamente al 1998, fatto pari a 100 il totale delle donne occupate, circa 62 hanno un impiego nel comparto terziario, 23 lavorano nell’industria, 18 nel commercio, mentre appena 4 sono occupate in agricoltura. La distribuzione conferma così la forte femminilizzazione del terziario, un settore che appare trainante sia per il sistema economico, sia per le opportunità di inserimento che offre alla forza lavoro femminile.

Passando a considerare gli occupati per posizione nella professione, si può osservare che, per quanto riguarda il tipo di ruolo ricoperto dai due generi, sia per le forme di lavoro autonomo che per il lavoro dipendente, la discrepanza rimane decisamente elevata. I lavori cosiddetti “nobili” rimangono infatti appannaggio della componente maschile. Nel 1998 gli imprenditori o liberi professionisti in regione erano 33.000, di cui solo 8.000 di sesso femminile. Gli altri lavoratori in proprio erano 63.000, il numero delle donne arrivava in questo caso appena a 18.000. La categoria dei “coadiuvanti” è l’unica che fa registrare una presenza della componente femminile migliore rispetto a quella maschile.

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Le relazioni delle classi

 

 

Relazione della classe 5 A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

Insegnante  Prof.ssa Paola Schiratti

 

 

1.  Interviste alle donne della prima generazione

 

Le donne della prima generazione da noi intervistate appartengono all’età delle nostre nonne, sono nate tra gli anni 1917 e il 1934. Sono qui tra noi e vivono il nostro tempo, ci hanno raccontato i fatti della loro infanzia e gioventù e sembra appartengano a un mondo così lontano, così diverso dal nostro, ma anche da quello che emerge dalle testimonianze delle ragazze e delle donne delle generazioni successive. Il loro Friuli era contadino, povero, segnato dal lavoro minorile e dall’emigrazione, dilaniato dalla guerra, basato sulla famiglia patriarcale, con la vita esposta a molti rischi. Ma poi sono state proprio loro a vivere da protagoniste il passaggio all’industrializzazione che ha comportato il boom economico degli anni Sessanta. Con il loro lavoro spesso non considerato, ma fondamentale, poiché provvedevano, con la coltivazione degli orti, dei campicelli, con l’allevamento delle bestie da stalla e da cortile, da sole al sostentamento della famiglia, hanno creato le peculiari condizioni economiche che hanno permesso in Friuli lo sviluppo della tipica economia basata sulla piccola e media industria. Dopo tale data gli standard economici e sociali si sono evoluti in tempi rapidissimi e la vita delle persone, come è emerso dalle interviste delle generazioni successive, non è stata più la stessa.

 

 

1.1  Il percorso scolastico e formativo

 

Abbiamo intervistato sedici donne nate in questo arco di tempo. Il loro percorso scolastico si può riassumere in questa tabella:

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Anni scolarità

Numero Persone

3

1

4

7

5

7

8

1

Una delle nostre testimoni a nove anni aveva già completato il ciclo di studi e iniziato a lavorare, ma alle altre ciò è accaduto uno o due anni dopo. (Eugenia, anni 72: A scuola sono andata davvero poco, non potevo andare sempre perché mi facevano lavorare, ho fatto quello che ho potuto. Sono andata a scuola fino alla terza, quarta elementare, ma a quel tempo era normale quando i genitori ti dicevano “tu oggi vai a lavorare” non c’era niente da fare, dovevi lasciare la scuola e trovarti un lavoro). Solo una delle intervistate ha potuto frequentare la scuola fino al completamento della terza media, ma anche lei non ha potuto studiare oltre, per di più ha dovuto ridurre il monte ore scolastico perché alcuni insegnamenti erano direttamente a carico delle famiglie. Da più di qualche testimonianza ci risulta che esisteva ed era molto diffusa la scuola per corrispondenza, ma erano i maschi a fruirne.

La frequenza scolastica era finalizzata all’alfabetizzazione, gli stessi genitori, in particolare nel caso delle bambine per il futuro che le aspettava, non ritenevano utile lo studio, quanto piuttosto imparare un mestiere e soprattutto collaborare in casa. Ma i limiti dipendevano soprattutto dalle difficoltà economiche delle famiglie, le bambine già dall’infanzia dovevano badare al proprio sostentamento e non gravare sui magri bilanci familiari. La scuola delle nostre nonne era impostata su un’educazione rigida, condivisa dagli adulti, le scolaresche erano numerose, i rapporti tra famiglie e insegnanti non erano frequenti se non in casi gravi, si limitavano normalmente allo scambio delle pagelle trimestrali che i genitori restituivano firmate. (Nerina, anni 81: Il maestro aveva una bacchetta e dava sulle mani o perché alcuni bambini non erano tranquilli o perché non studiavano. Nessuno protestava perché i genitori davano ragione agli insegnanti). L’orario scolastico prevedeva sei ore di lezione senza mensa. Perciò i bambini dovevano ben quattro volte al giorno percorrere spesso a piedi, per la scarsità di qualsiasi mezzo di trasporto, il tragitto da casa a scuola e viceversa. Si trattava anche di percorsi molto lunghi, dato che le scuole erano concentrate nei paesi più importanti perché scarseggiavano gli edifici e le strutture. Lo stato interveniva con aiuti ai bambini meno abbienti, provvedeva ad assegnare gratuitamente testi e quaderni.

La maestra unica insegnava principalmente le basi della lingua italiana, del calcolo, alcune nozioni di storia e geografia, la religione che era ritenuta

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una materia molto importante. L’obbligo scolastico di quattro anni venne elevato a cinque anni nel 1937. Eppure questa scuola così scarsa di mezzi, così faticosa da raggiungere, spesso repressiva e punitiva rappresentava comunque un momento positivo, un’apertura verso un sapere che poi sarebbe stato subito negato a queste bambine (Nives, anni 76: Concludendo il discorso sulla scuola, posso affermare che è stata un’esperienza davvero positiva, con l’unico rammarico di non aver potuto continuare in una cosa in cui ero davvero portata).  A causa delle condizioni economiche e della mentalità, un titolo di studio anche di medio termine era difficilmente ottenibile. Tuttavia in queste condizioni di vita alcune bambine elaboravano progetti e desideri per il loro futuro: tre avrebbero voluto diventare maestre, una infermiera, quattro hanno dichiarato che avrebbero voluto continuare gli studi, in primo luogo perché erano interessate al sapere, alla cultura, ad allargare i loro orizzonti e le loro conoscenze, poi perché lo studio avrebbe garantito comunque un futuro migliore. (Teresina, anni 78Le mie ambizioni erano quelle di proseguire gli studi. Mi sarebbe piaciuto studiare di più per allargare le mie conoscenze e la mia cultura. Studiare e conoscere: queste erano le mie aspirazioni).  Purtroppo nessuna di queste ragazzine ha potuto coronare il suo sogno, le altre non si permettevano neppure di sognare. (Iole, anni 80: Non avevo delle ambizioni andava bene tutto quello che volevano i genitori. Non ho mai avuto l’intenzione di imparare un mestiere, che mestiere dovevo imparare? Mia sorella Cesarina aveva l’intenzione di diventare sarta e ha imparato il mestiere, ma noi altre andavamo solo a lavorare come cameriere o domestiche, e alla fine mia madre ritirava tutto il denaro guadagnato).

 

 

1.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

Verso l’età di dieci - undici anni al massimo, terminata la frequenza della scuola elementare, le bambine iniziavano la loro attività lavorativa andando a prestare la propria opera in cambio del vitto, dell’alloggio e di qualche soldino collocandosi come domestiche presso qualche famiglia benestante, oppure come apprendiste presso qualche sarta o collaborando in casa, ed era la maggioranza, se l’economia familiare si basava sull’agricoltura. Molte di queste giovani per trovare lavoro dovevano occuparsi lontano da casa, spesso nelle regioni più ricche d’Italia o all’estero. È significativo notare come queste ragazze cambiassero spesso attività: da braccianti agricole a domestiche, a operaie negli essiccatoi e nelle filande, per riprendere magari il lavoro lasciato in precedenza. Si trattava evidentemente di impieghi precari, stagionali, scarsamente retribuiti in nero, la guerra con i suoi pericoli rendeva tutto più incerto e instabile.

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Molte delle nostre testimoni si sono impiegate come domestiche anche molto lontano da casa, fino a Roma e Milano a partire dai tredici - quindici anni per provvedere al proprio sostentamento. (Liliana, anni 68: Ho iniziato a lavorare all’età di tredici anni, poiché mia mamma tramite una signora benestante del paese, mi ha trovato lavoro a Roma, come domestica, presso la casa di un monsignore. Il lavoro era molto duro, facevamo anche undici - dodici ore giornaliere, c’erano sempre molti ospiti e quindi bisognava tenere sempre tutto molto in ordine e molto pulito, inoltre venivano preparati parecchi pasti e quindi c’erano sempre molti piatti e molte pentole da lavar. Nonostante il lavoro fosse faticoso i rapporti erano buoni, lavoravo con altre due domestiche molto più grandi di me che mi consideravano un po’ come la loro figlia e quando potevano cercavano di aiutarmi). Le adolescenti si collocavano molto spesso in queste famiglie tramite l’intermediazione di qualche parente o conoscente paesana che già lavorava presso la stessa famiglia o una famiglia amica. Si creava così una rete di sostegno affettivo e di tutela nei confronti di un ambiente estraneo e lontano che avrebbe potuto celare anche insidie per ragazzine così giovani. Ma le nostre testimoni hanno dichiarato di essersi trovate bene e in un certo senso di essere state perfino accudite presso queste famiglie. Qualcuna ha sentito questa esperienza come un’apertura verso il mondo, la possibilità di uscire dai limiti ristretti e soffocanti del paese e della famiglia d’origine, l’opportunità di imparare qualcosa di nuovo, di incontrare persone e frequentare ambienti di livello superiore (Nives, anni 76: Divenuta quindicenne seppi da una mia amica che a Milano una famiglia di sua conoscenza cercava una commessa per il loro panificio. Non mi feci scappare l’occasione, ero una ragazza curiosa di scoprire, la vita di paese era piatta). Qualcuna invece ha sofferto per la solitudine così precoce; quelle che potevano essere impiegate come sarte o magliaie vicino casa si ritenevano fortunate.

La maggioranza di queste ragazze in qualsiasi ambiente di lavoro ha cominciato a percepire una paga verso i diciassette - diciotto anni, tutti gli scarsi guadagni ottenuti dovevano essere consegnati alla madre o al padre, che li utilizzavano per rimpinguare il reddito familiare complessivo. Il lavoro svolto era per la maggior parte un lavoro di genere: erano magliaie, sarte, cameriere, braccianti agricole, domestiche.

Alcune avevano trovato impiego anche come operaie in settori dove la mano d’opera era soprattutto femminile come le filande, gli essiccatoi di tabacco, le industrie belliche, dove il lavoro spesso si pagava con la vita. (Albina, anni 80: Quando lavoravo alla Manzarotto nei magazzini delle bombe era molto pericoloso. Quando scoppiò la camera 141 io ero a casa. Ma uno di Variano, il paese vicino, è rimasto ucciso come tanti. Dopo c’è stato uno scoppio alla camera 149, io ero in una piccola saletta circondata da terra con solo una piccola finestrella, eravamo in sette lì dentro, ed era pericoloso, infatti chi doveva entrare doveva bussare.Io passando accanto a una scatola mi sono provocata una sbucciatura, e per fortuna sono dovuta andare a casa, se non mi fossi provocata quella ferita sarei morta. In cambio quell’insignificante ferita mi causò il tetano. Ma i miei colleghi rimasti a lavorare sono morti tutti, erano in

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sette: 5 uomini e 2 donne di cui una era incinta di quattro mesi. È morta. Se io non fossi stata a casa con il tetano sarei morta anch’io). Il ruolo delle lavoratrici era subalterno, mentre i maschi svolgevano compiti di controllo. Tutto ciò era aggravato dal clima che si respirava durante gli anni del regime fascista, quando era necessario non parlare, non esprimersi, badare esclusivamente ai fatti propri se non si voleva correre rischi per la propria incolumità, come ha testimoniato Nada. Le paghe erano in tutti i settori talmente basse, inferiori comunque a quelle percepite dagli uomini, così come era stabilito dalla legge, che era necessario svolgere diversi lavori contemporaneamente per accumulare un minimo gruzzolo alla fine del mese.

In ogni ambito le condizioni di lavoro erano faticose, con orario prolungato fino a dodici ore giornaliere, senza alcuna tutela, né per gli infortuni, né per la salute; per le donne era molto faticoso tutto l’insieme perché malgrado le dure fatiche erano anche discriminate e non considerate, così come emerge dai loro racconti. Durante la guerra le condizioni di vita e di lavoro erano ulteriormente peggiorate, questa catastrofe per le giovani aveva comportato il lavoro coatto e livellato verso il basso ogni classe sociale. (Albina, anni 80: Si doveva lavorare con i tedeschi e noi siamo state anche fino a Gonars a fare i buchi per loro, erano lì con il mitra; prendevano nel paese con il carro e con il cavallo, si formavano due carri da tante che eravamo, prendevano su quelli che erano rimasti a casa dalla guerra, c’era persino la mia padroncina che mi diceva: “Guarda Albina che mani che ho!” e io le dicevo che non era abituata a lavorare e a sporcarsi le mani con il badile a scavare buchi per loro). Queste condizioni così precarie e difficili durarono anche nel dopoguerra, il Friuli aveva sopportato una situazione pesantissima, alcune delle nostre testimoni, appena sposate, scelsero con il marito di emigrare.

 

 

1.3  La gestione della famiglia

 

Le famiglie di queste donne erano molto numerose, di tipo patriarcale, più nuclei erano riuniti sotto lo stesso tetto per collaborare nella gestione dell’economia familiare, in quanto un nucleo formato dai genitori e dai loro figli non aveva la possibilità di produrre risorse sufficienti a garantire la vita, così era necessario condividere con i parenti prossimi un’unica casa, un unico focolare, tutti i beni (Albina, anni 80in casa si era in 17 o 18, si mangiava tutta roba di casa, verdure dell’orto … non si comprava niente, solo la pasta. Il formaggio si faceva in latteria…il burro bisognava venderlo ai più ricchi, si andava a Palmanova a vendere il burro).  Le famiglie di Nerina e Ines erano le uniche mononucleari, la prima si basava sul reddito ottenuto dal padre geometra e la seconda sul reddito di un’attività artigianale e commerciale: la gestione di un panificio. In queste strutture le donne dopo il lavoro fuori casa dovevano

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collaborare con le altre nell’attività domestica e nel lavoro dei campi. Era una vita di grande sacrificio, di operosità infaticabile, vissuta con una dedizione alla famiglia e una disponibilità  totali. In grado di cavarsela anche da sole nelle condizioni più difficili, come Nives rimasta vedova in Francia con due bambini piccoli, o Lucia il cui marito fu prigioniero in Abissinia per ben tre anni, queste donne erano un pilastro sicuro sul quale i loro uomini sapevano di poter contare. Loro erano consapevoli di essere importanti nell’ambito della famiglia, malgrado le decisioni spettassero agli uomini.

Queste condizioni di vita tanto difficili, la convivenza, la scarsità di mezzi portavano necessariamente le persone ad assumere atteggiamenti molte volte freddi e distaccati, mancavano le energie, il tempo e gli spazi adatti a scambiare comportamenti affettuosi, a esternare i sentimenti che esistevano, anche tra coniugi e tra genitori e figli. (Iole, anni 80: Nella mia famiglia non ci sono mai stati grandi rapporti affettivi neanche dopo sposata, mia suocera comandava tutto e tutti, era come essere a lavorare sotto le dipendenze di qualcuno. Io non potevo controbattere o esprimere un mio parere su qualcosa perché era lei che comandava). Possiamo solo immaginare che cosa potesse significare per una madre vedere partire la propria bambina in cerca di lavoro nelle città tanto lontane, bisognava per forza rinforzare il proprio carattere per poter sopportare. Tutte le testimoni comunque hanno dichiarato di aver goduto di rispetto nell’ambito della famiglia e a loro volta di essere state molto rispettose con gli altri, anche con il marito, ma oltre questo rispetto dalle parole di molte trapelano i sentimenti di amore che caratterizzano questo legame.

Circa la metà delle intervistate ha dichiarato di essersi sposata molto presto, dai diciotto ai ventuno anni, l’altra metà (soprattutto a causa delle difficoltà create dalla guerra) comunque entro i ventinove, età all’epoca ritenuta molto tarda. Il matrimonio non ha significato un cambiamento di status perché tutte queste ragazze, tranne Nerina, si sono trasferite in casa dei suoceri dove hanno comunque dovuto continuare a lavorare per contribuire al sostentamento della nuova famiglia; quasi tutte le intervistate si sono sposate tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in periodo bellico o nel primo dopoguerra, quando l’Italia versava in una grave crisi economica. In Friuli, come emerge dalle testimonianze, l’economia era ancora più arretrata che altrove. A ciò vanno aggiunti tutti i danni causati dalla Seconda Guerra Mondiale che nel territorio della nostra regione sono stati particolarmente gravi e distruttivi. Intorno agli anni Sessanta, quando il Friuli e l’Italia hanno cominciato a vivere il boom economico e a industrializzarsi, la vita delle nostre testimoni ha potuto migliorare decisamente, sette hanno potuto formarsi una famiglia propria grazie al miglioramento delle condizioni economiche o in seguito all’emigrazione (quattro casi).

 

 

35

1.4  Conclusioni

 

Emerge, dal nostro lavoro, il quadro di un Friuli tra gli anni 1920 e 1950 caratterizzato da un’agricoltura arretrata e da uno sviluppo ancora preindustriale, che potevano offrire ben poco: la vita era molto faticosa per tutti, adulti, bambini, donne uomini. Nello studio del Consiglio e dell’Ufficio Provinciale dell’Economia di Udine, La provincia di Udine e la sua economia, del 1931, si sottolinea che, malgrado la scarsa fertilità dei suoli, l’agricoltura prevale sull’industria (i dati non sono indicati): “una scarsa produttività che solo la costante e paziente opera dell’agricoltore friulano, mirabile esempio di tenacia, ha saputo rendere di gran lunga superiore alle risorse naturali”. Nella zona di collina l’azienda era di piccola e media proprietà, in pianura ai grandi possedimenti si succedevano proprietà frazionate, prevalevano la conduzione diretta e l’affitto misto.[3] Dallo stesso studio emerge che gli addetti all’industria e all’artigianato erano 53.706 (16.2% sul totale) (di cui 15.119 appartenenti al Comune di Pordenone, che non era Provincia a sé) e 22.647 gli addetti al commercio su un totale di popolazione censita al 31 dicembre 1928 di 872.652 abitanti. Il censimento del 1911 accertava che ben 90.853 abitanti della provincia si trovavano all’estero; “Nel biennio 1927 - 1928 la popolazione dell’intera provincia risultava diminuita di 4.908 abitanti. Ciò era dovuto essenzialmente al fenomeno migratorio. Le correnti migratorie ripresero e accentuarono la loro intensità non appena l’assestamento postbellico permise di rivalicare i confini e riattraversare gli oceani.”[4] Il regime fascista, malgrado la retorica e l’enfasi, con le sue durezze e discriminazioni rendeva la vita difficile e pesante. La Seconda Guerra Mondiale aveva in Friuli ferito e coinvolto con particolare durezza la popolazione civile (il 48% dei morti durante la guerra erano civili). Le donne pagavano duramente il prezzo di questa situazione, avevano sulle spalle un peso enorme in quanto erano costrette a lavorare in condizioni pessime, con retribuzioni inferiori agli uomini, che erano spesso lontani a causa della guerra, avevano a carico la responsabilità totale della crescita e dell’educazione dei figli, oltre alla gestione della famiglia e della casa. Appena finito il conflitto si avvia la ripresa, ma sarebbe stato necessario un decennio per uscire dalla crisi postbellica. Un’indagine della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Udine del 1949 indica un aumento della popolazione dal 1936 al 1947 del 12,2% (in confronto all’11,1% del dato nazionale) da 721.000 a 810.000 abitanti. Di questa popolazione risulta attiva un’alta percentuale: il 47,2%. L’agricoltura ancora impiega il 54,2 % della popolazione attiva, l’industria il 31,7%,  il commercio il 6,3%.[5]

 

36

 

2.  Interviste alle donne della seconda generazione

 

 

2.1  Il percorso scolastico e formativo

 

Confrontando i dati dell’intervista alla nostre madri o conoscenti nate tra gli anni Cinquanta - Sessantasei abbiamo elaborato alcune considerazioni.

Abbiamo iniziato col determinare il titolo di studio delle venti intervistate e lo abbiamo confrontato con quello dei rispettivi mariti.

 

Titolo di studio

femmine

maschi

Laurea

1

1

Diploma quinquennale

5

7

Diploma triennale

11

4

Diploma di scuola media

2

1

Licenza elementare

1

1

 

Abbiamo potuto notare che i maschi hanno avuto maggiori opportunità, anche perché tre di loro hanno lasciato incompiuti gli studi universitari che avevano potuto intraprendere.

La maggioranza delle femmine ha seguito un percorso di studio a breve-medio termine di alcuni anni più breve delle ragazze della terza generazione, ma notevolmente più lungo rispetto a quello delle loro madri; l’opportunità di frequentare le scuole superiori dipendeva principalmente dalle condizioni economiche familiari e in subordine dalle  aspirazioni individuali. Due intervistate non hanno potuto frequentare la scuola superiore per favorire un fratello maschio, Roberta per aiutare una sorella malata, qualche ragazza residente in aree distanti dal capoluogo perché le spese del collegio erano troppo elevate

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per la famiglia. Ma le scelte erano limitate anche dall’esigenza di uniformare in famiglia il trattamento di tre sorelle, così la terzogenita Giuseppina ha dovuto scegliere lo stesso percorso scolastico delle sorelle maggiori. Più opportunità ha avuto Anna, una figlia unica che ha potuto conseguire il diploma magistrale, malgrado la famiglia non fosse agiata. Manuela ha preferito cercare un lavoro dopo la terza media in quanto voleva essere autonoma dalla famiglia, malgrado suo fratello maggiore si fosse laureato e costituisse per lei un modello e i genitori le proponessero la stessa opportunità.

Tabulando i dati ci risulta che le donne della seconda generazione hanno scelto la loro scuola per i seguenti motivi:

 

Imposizione del padre

1

Motivi economici

6

Uniformità di trattamento tra le figlie

2

Precedenza concessa a un fratello maschio

2

Difficoltà causate dal terremoto e distanza dalla scuola

1

Desiderio di inserirsi immediatamente in campo lavorativo

2

Desiderio d’indipendenza

1

Adeguatezza del titolo con la professione ambita

5

 

Se poi vogliamo verificare quali specializzazioni abbiano conseguito le sedici diplomate abbiamo:

 

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Estetiste

2

Ragioniere

2

Maestra d’asilo

1

Maestra di casa

1

Diplomate magistrali

2

Altro

2

Segretarie d’azienda

6

 

 

 

Sono titoli finalizzati ad attività dipendenti indirizzati a un lavoro di genere (tranne i ragionieri). Evidentemente negli anni presi in considerazione era ancora molto marcata la differenza tra i sessi in ambito scolastico e lavorativo (Lucia, anni 50: I miei genitori avevano una mentalità per cui alla donna non era necessario studiare). Molte di queste ragazze hanno frequentato il corso di segretaria d’azienda; era facile trovare lavoro con questo titolo soprattutto nelle imprese di piccole e medie dimensioni che allora si stavano diffondendo in Friuli, ma la segretaria era anche un modello femminile dominante, diffuso dai mass media, le stesse famiglie indirizzavano le figlie verso questo tipo di studi non eccessivamente costosi, che allo stesso tempo assicuravano un futuro lavorativo di discreto livello, più avanzato dello status della famiglia d’origine stessa. (Giulia, anni 45: Al termine della scuola media mi sarebbe piaciuto frequentare l’istituto tecnico per ragionieri, ma purtroppo per motivi economici la mia famiglia avrebbe potuto mantenermi soltanto per la durata di un corso di studi più breve anche perché io avevo un fratello più piccolo di quattro anni. Mi sono così iscritta all’istituto professionale per segretarie d’azienda).

Dina è figlia di un friulano emigrato in Venezuela che ha sposato una ragazza del luogo. Quando lei frequentava le scuole elementari, i suoi genitori avevano deciso che da lì a qualche anno sarebbero venuti a vivere in Italia. Sapevano che i titoli di studio conseguiti all’estero non erano riconosciuti, pertanto hanno deciso di far frequentare la figlia fino alla sesta elementare, poi lei si è iscritta a un corso di sarta. Una volta venuta in Italia Dina ha trovato facilmente lavoro in un’azienda artigianale di abbigliamento.

Questa difficoltà a inserirsi a un più alto livello lavorativo è comune a tutte le donne straniere che sono venute a vivere in Italia anche da paesi europei, perché i titoli di studio conseguiti all’estero non sono riconosciuti nel nostro paese.

 

 

2.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

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Queste testimoni negli anni 1970 - 1980 iniziavano a lavorare presto, rispetto alle ragazze della generazione successiva, ma ben più tardi di quelle della generazione precedente, circa intorno ai sedici anni. Il lavoro non richiedeva un titolo di studio tanto alto, dobbiamo tenere conto che la tecnologia informatica non era ancora introdotta nel mondo del lavoro friulano, né era richiesta la conoscenza delle lingue straniere. Possiamo affermare che l’ambiente di lavoro non era né globalizzato né informatizzato, in queste condizioni la maggioranza delle intervistate ha avuto la possibilità di sfruttare il titolo di studio conseguito. (Manuela, anni 50: Una volta anche le assicurazioni, come dappertutto, assumevano ragazzi giovani, perché avevano bisogno di dipendenti e non era richiesto saper usare il computer o parlare lingue straniere. In questo modo i giovani della mia età che non continuavano gli studi erano avvantaggiati in confronto ai ragazzi di oggi che se smettono di studiare possono lavorare solo come operai o comunque svolgere lavori manuali).

Abbiamo evidenziato tre casi di testimoni che in un primo momento non hanno avuto un lavoro adeguato al titolo di studio, poi invece si sono impiegate a livello appropriato; tre casi in cui non sono state svolte attività adeguate; sei casi con lavoro adeguato al titolo di studio; due casi hanno frequentato una scuola che non soddisfaceva i loro desideri e poi hanno fatto un lavoro che a loro piaceva.

Delle nostre intervistate, dieci hanno trovato impiego in piccole aziende, soprattutto a carattere artigianale dove il lavoro non era tutelato, infatti in sei casi la nascita di un figlio ha comportato il licenziamento, due testimoni hanno smesso di lavorare addirittura al momento del matrimonio in previsione della futura maternità, non tutte hanno usufruito della Legge 1204 del 1971 sulla tutela della lavoratrice madre. Queste donne, dal percorso lavorativo non lineare, sono uscite in maggioranza presto dal mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia, continuando a incrementarne il reddito nei modi più svariati, come ad esempio la coltura dell’orto o l’allevamento di animali da cortile; è significativo che  nel 1979 il 76% delle famiglie friulane aveva il freezer, ma solo il 7% possedeva la lavastoviglie. Quando i figli sono cresciuti, molte donne hanno cercato poi di rientrare al lavoro, ma non sempre è stato possibile. Anna dopo il matrimonio ha abbandonato il lavoro fisso, ma aiutato il marito nella sua attività. Giuseppina si è licenziata al momento della nascita dei figli; dopo un periodo completamente dedicato alla famiglia, si è reinserita nel mondo del lavoro all’inizio degli anni Novanta, anche se è stato molto difficile e ha dovuto adattarsi a un lavoro di livello più basso del precedente.

Diverso è il caso delle donne con diploma quinquennale, della laureata e di quelle inserite in aziende industriali o del terziario avanzato: hanno usufruito della Legge 1204, senza perdere il posto di lavoro, hanno continuato a svolgere la loro attività professionale stabilmente dopo il matrimonio e la maternità.

Possiamo dunque valutare che le donne nel lavoro sono state condizionate soprattutto dalla scelta di sposarsi e di diventare madri, ruolo fondamentale

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in cui si sono identificate. Alcune hanno dichiarato di non essersi potute giovare di servizi come asili nido o aiuti familiari o di contratti di lavoro flessibili come il part-time che negli anni Settanta non erano previsti (dagli anni Ottanta ne hanno usufruito cinque testimoni). La scelta di lavorare alla fine degli studi era giustificata dal desiderio di indipendenza, però rispetto al matrimonio e ai figli quest’indipendenza non è più stata prioritaria.

Il diffondersi di una nuova cultura e il titolo di studio conseguito hanno comportato anche scelte diverse, alcune testimoni hanno cercato di realizzarsi, di esprimere la propria individualità e capacità anche attraverso il lavoro, di avviare un processo di emancipazione; si tratta dei primi comportamenti sintomo di una nuova mentalità femminile che avrebbe trovato pieno sviluppo nelle donne della generazione successiva (Marisa, anni 49: Già prima di laurearmi mi ero creata un posto, lavorando gratuitamente presso un laboratorio di analisi a Padova; quindi dopo laureata ho continuato a lavorare nello stesso laboratorio). D’altra parte questi sono gli anni nei quali in Friuli, soprattutto nelle città, ma anche nei paesi, si organizzano gruppi di donne sulla scia dei movimenti femminili e femministi diffusi in tutti i paesi occidentali, sono gli anni in cui in Italia è approvato il nuovo diritto di famiglia, il divorzio e l’aborto sono riconosciuti dalla legge, anche le donne friulane sono impegnate, organizzano gruppi di varia natura e tendenza, la sindacalizzazione si diffonde nelle aziende più grosse. Significativa ed emblematica di questi anni è la vicenda di Lorella che da operaia è riuscita a diventare impiegata nell’industria conciaria dove lavorava, si è interessata alle vicende della lunga fase della crisi economica e del fallimento dell’azienda, è stata eletta delegata di fabbrica e ha fatto parte del direttivo provinciale della categoria dei lavoratori chimici. Dopo la cassa integrazione e la mobilità si è ritrovata senza lavoro come tutti i suoi colleghi. È stata poi assunta dal sindacato come impiegata, tuttora presta questa attività. (Lorella, anni 40: Dopo la disoccupazione ai tempi della conceria arrivò il tempo del sindacato. Mentre lavoravo alla conceria oltre all’incarico di delegata avevo assunto anche quello di componente del direttivo provinciale della categoria dei chimici e fu per questo mio impegno che mi chiesero di entrare a lavorare nel sindacato, dove ancora adesso svolgo la professione di impiegata. Oggi lavoro per cinque categorie, conosco i vari contratti di lavoro in tutte le varianti, controllo le buste paga e le liquidazioni, seguo le vertenze individuali e tutti gli altri aspetti collegati al rispetto dei diritti dei lavoratori. Inoltre questo lavoro mi piace e il rapporto con le persone è la parte più gratificante, quella che mi consente di migliorare sia sul piano umano che su quello professionale).

È un caso che s’inserisce nell’evoluzione dell’economia friulana che negli anni Ottanta del Novecento è stata caratterizzata dalla crisi delle grandi aziende, lo sviluppo delle piccole e medie imprese, del settore terziario, del trasferimento nei paesi del Terzo mondo delle industrie inquinanti con lavorazione di materiali poveri e a bassa tecnologia. L’esperienza di Lorella è dunque emblematica di una situazione diffusa in Friuli e allo stesso tempo globale, il suo vantaggio è stato di essersi interessata a ciò che succedeva intorno a lei, di essersi informata, di aver partecipato attivamente alla vicenda della sua fabbrica,

41

con questo bagaglio di conoscenze ed esperienze si è collocata poi a lavorare nel sindacato, a un livello culturalmente e qualitativamente più alto.

Negli ambienti di lavoro, negli anni presi in considerazione, la divisione dei ruoli tra maschi e femmine era abbastanza evidente; dodici intervistate hanno dichiarato che l’ambiente era prettamente femminile, cinque hanno prestato attività lavorative in ambienti misti (cioè composti da maschi e femmine in ugual numero), due hanno svolto funzioni impiegatizie in ambiente a prevalenza maschile. Tutte hanno dichiarato di non essersi sentite discriminate nell’ambiente di lavoro. Ma da tutti i racconti poi invece è evidente quanto le donne fossero ovunque collocate in basso.  Adriana, impiegata in banca, ha testimoniato che tutte le donne assunte dal suo istituto svolgevano la propria attività in sede centrale ed erano addette esclusivamente allo smistamento della corrispondenza interna. Lo staff manageriale era ovunque quasi esclusivamente composto da uomini. (Manuela, anni 46: Nei miei anni passati in ambienti lavorativi, mi è sempre balzato all’occhio il fatto di come mai delle donne non ricoprissero mai cariche di maggior prestigio rispetto all’operaia semplice, anche incarichi meno faticosi e più remunerativi spettavano sempre e comunque a persone di sesso maschile; ma questa caratteristica era semplicemente dovuta al fatto che la società, e quindi la mentalità di allora e che fino allora aveva dominato, era improntata esclusivamente sulla figura maschile come capo, o come colui che aveva più capacità, fisiche e mentali).  Le uniche donne con funzioni dirigenziali erano parenti dei titolari. Marisa quando ha iniziato la sua carriera d’insegnante nella scuola media si è trovata tra colleghi maschi,  poi negli anni l’ambiente si è femminilizzato.

Gli stipendi percepiti dalle donne erano inferiori alla media del PIL, comunque, per le loro esigenze, così hanno dichiarato, erano sufficienti, in quanto considerati un arrotondamento della paga principale, cioè quella del marito.

Era molto diffuso il lavoro in nero che non veniva denunciato per paura del licenziamento, inoltre nelle fabbriche non venivano effettuati controlli per la sicurezza e la salute.

 

 

2.3  La gestione della famiglia

 

La scelta di abbandonare il lavoro alla nascita di un figlio è dipesa anche dalla carenza di servizi, dalla mancanza di appoggi familiari, ma soprattutto le nostre testimoni hanno sentito la maternità come fondamentale nella loro vita. La scelta di seguire la crescita dei bambini soprattutto da piccoli e dedicarsi alla loro educazione e formazione è stata effettuata con la consapevolezza di partecipare a un’esperienza importantissima e gratificante. Le donne di questa

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generazione hanno:

 

- seguito il modello generale: accudire i figli e abbandonare il lavoro

14

- abbandonato il lavoro per un figlio per poi impiegarsi nell’azienda familiare

2

- usufruito della legge di tutela della maternità e continuato a esercitare la professione

4

 

Molte, in conclusione, alla nascita dei figli hanno deciso di cambiare vita: da lavoratrici a casalinghe. È una costante di queste testimoni ritenere il lavoro un aspetto secondario e cercare di ritagliarsi una propria specifica dimensione soprattutto nell’ambiente domestico, in particolare nella cura dei bambini piccoli. (Roberta, anni 43: Con il secondo figlio ho deciso di dedicarmi completamente alla famiglia senza alcun rimpianto, perché sapevo che andando al lavoro avrei procurato delle sofferenze ai bambini). Questa scelta condivisa da un’intera generazione di donne è stata da loro stesse definita spontanea, naturale, poche si sono sentite limitate nella realizzazione personale e avrebbero voluto potersi dedicare anche a un’attività extradomestica. Alcune, quando i figli sono cresciuti, hanno cercato di reinserirsi nel lavoro, ma non è stato facile, oggi hanno qualche rimpianto perché si sentono non abbastanza sicure e tutelate, ad esempio non percepiranno la pensione. (Luciana, anni 50: La nascita di tre figli mi ha fatta star fuori dal “giro” del lavoro. Avrei voluto riprendere a lavorare, ma nel frattempo gli uffici si sono modernizzati e il computer ha preso il sopravvento. Io non avevo nessuna esperienza in questo campo, infatti, pur essendo stata iscritta per alcuni anni all’ufficio di collocamento, non ho mai ricevuto nessuna proposta di lavoro).  Le poche che hanno continuato a lavorare dopo la nascita dei bambini si sono potute giovare del supporto dei parenti per conciliare il lavoro con la gestione familiare, data l’assoluta insufficienza di servizi pubblici. Il supporto del marito è risultato insufficiente, comunque i loro uomini hanno iniziato per primi, anche se non in forma autonoma, a prendersi una parziale cura dei figli. (Adriana, anni 50:  Mio marito non si è mai opposto, visto che lavorare era stata una mia scelta. Io penso che si sarebbe opposto solamente se non avessi più avuto l’aiuto fondamentale dei miei e dei suoi genitori nell’accudire i figli  e nella cura della casa, ma penso che me ne sarei accorta anche io).

 

 

43

2.4   Conclusioni

 

Emerge da questi racconti un quadro preciso anche dell’economia e della società friulane negli anni 1965 – 1980; si evince una certa facilità per le giovani ad accedere al mondo del lavoro, in imprese soprattutto di piccole e medie dimensioni, o in studi professionali in qualità di impiegate o operaie, ma si trattava di restarci per uscirne appena gli impegni familiari si ponevano. Sarebbero state necessarie una maggiore flessibilità della struttura lavorativa e una società più dinamica. Era evidentemente un’economia che si basava fondamentalmente e per gli impieghi di lungo periodo sulla forza lavoro maschile (il tasso di attività femminile nel 1971 era del 20%).

Invece le giovani donne erano un bacino di forza lavoro utilizzabile all’occasione, che si poteva facilmente espellere in caso di necessità, che di fatto veniva espulsa o addirittura si autoescludeva, non appena l’impegno lavorativo richiedeva una conciliazione con le vicende della vita. Si trattava ancora della struttura rigida di un’economia che comincerà a decollare  in Friuli proprio a partire dai primi anni Settanta.

Questo avvio stentato dell’economia friulana si può comprendere prendendo in esame i dati del PIL pro capite, che nella Provincia di Udine nel 1971 era inferiore del 9% alla media nazionale. Esso si attestava sul valore di 1.124.000 lire (corrispondente al valore attuale di 14.500.000 lire). Solo nel 1981 ci sarebbe stato il superamento del 7% della media nazionale.

 

 

PIL pro capite negli anni 1951-1981

PIL rapportato al valore della lira del 2000

 

 

Udine

Italia

Udine

Italia

 

1951

152.000

233.846

3.867.000

5.949.231

 

1961

403.500

498.148

7.800.000

9.629.630

 

1971

1.124.000

1.235.165

14.500.000

15.934.066

 

1981

8.300.000

7.719.000

25.500.000

23.715.000

 

 

44

In questi anni le donne rappresentavano la componente non specializzata della manodopera, facilmente sostituibile con personale non esperto, espulsa con facilità dal mercato del lavoro, con rapporti improntati alla dipendenza totale dal proprietario (sintomatica la paura diffusa di chiedere l’applicazione della legge di tutela della maternità).

Nelle grandi imprese era impiegato un minor numero delle intervistate, in linea comunque con i dati regionali. La crisi che ha investito numerose aziende industriali friulane a partire dagli anni Ottanta non ha significato per queste lavoratrici la fuoriuscita dal lavoro, perché molta manodopera industriale è stata assorbita dal settore terziario in forte espansione.

Confrontando i dati statistici del 1986 - 1987 (riguardanti la scolarità in Friuli) con i nostri, precedentemente riportati, notiamo che corrispondono: i maschi si diplomano e si laureano molto più delle donne.

 

Lauree

Maschi

Femmine

 

Donne che frequentano scuole superiori

(in percentuale sul totale)

Ingegneria

25%

3%

 

Corso ragionieri 

29%

Biologia

10%

6%

 

Liceo scientifico

13%

Filosofia

8,05%

18,6%

 

Tecnico industriale

1,4%

Economia

18%

13,2%

 

 

 

 

 

 

3.  Interviste alle donne della terza generazione

 

Sulla base delle interviste alle venti donne tra i venti e i trenta anni abbiamo elaborato una serie di considerazioni sulla terza generazione di donne da noi studiata. Abbiamo impostato il lavoro iniziando dall’analisi dei dati della scolarità, il secondo gruppo di domande riguarda l’accesso al mondo del lavoro e i problemi legati all’ambiente lavorativo, il terzo gruppo inquadra la situazione familiare e la sua gestione.

45

 

 

3.1  Il percorso scolastico e formativo

 

Dalla prima serie di risposte al questionario sottoposto, possiamo evidenziare un innalzamento notevole del livello di studio delle giovani rispetto a quanto è accaduto alle donne delle generazioni precedenti.

Mettiamo a confronto i titoli di studio di queste tre generazioni con i dati istituzionali riferiti al Friuli Venezia Giulia nel periodo 1951 - 1998.

 


Titoli di studio

prima
 generazione

seconda
generazione

terza
generazione

Laurea

0

1

4

 

Corsi post diploma di specializzazione

0

0

5

 

Diplomi quinquennali

0

5

10

 

Diploma triennale             

0

11

0

 

Licenza di scuola media

1

2

1

 

Elementari (quadriennale o quinquennale)

15

1

0

 

Nessun titolo

1

0

0

 

 

(Dati desunti da diciassette interviste alle nonne; venti alle mamme; venti alle ragazze)

Popolazione femminile in possesso di titolo di studio in Friuli Venezia Giulia (Fonte Istat)

 

46

 

1951

1961

1971

1981

1991

1998

Laurea

1.622

2.709

4.935

10.216

16.554

27.000

Diploma

20.398

24.182

36.810

66.798

114.210

145.000

Licenza media

48.787

73.202

104.270

159.557

186.841

183.000

Licenza elementare

476.233

459.011

427.005

369.318

280.187

258.000

 

È evidente un aumento della scolarità soprattutto a livello di scuola secondaria superiore e universitario; in merito alle scelte specifiche di indirizzo per la scuola superiore, sarà utile confrontare i dati regionali nel decennio 1986 - 1996, con quanto hanno scelto le nostre testimoni. Oltre alle ragazze che si sono iscritte all’università, cinque, dopo il diploma quinquennale, hanno frequentato corsi di formazione post diploma per specializzarsi e proporsi al mercato del lavoro con competenze idonee.

 

Distribuzione degli iscritti negli istituti negli anni scolastici 1986/1987 e 1996/1997

 

Femmine

Maschi

Anni Scolastici

86/87

 

96/97

 

Anni Scolastici

86/87

 

96/97

 

Istituto d’arte

1.796

1.655

Istituto d’arte

489

471

Istituto Magistrale

3.132

2.949

Istituto Magistrale

300

270

Liceo Scientifico

7.529

9.797

Liceo Scientifico

4.018

4.877

Liceo Classico

3.468

3.314

Liceo Classico

1.216

1.007

Liceo Linguistico

604

456

Liceo Linguistico

115

160

Ist. Tec. Periti Az.

2.324

1.132

Ist. Tec. Periti Az.

277

156

Ist. Tec. Commerciale

12.280

7.604

Ist. Tec. Commerciale

4.786

3.044

Ist. Prof. Commerciale

4.440

3.314

Ist. Prof. Commerciale

494

500

Geometri

2.746

2.204

Geometri

2.258

1.751

Istituto Tecnico Industriale

6.936

5.212

Ist. Tec. Industriale

6.584

4.968

 

 

 

Ist. Prof. Industriale

6.066

4.539

47

 

Tra le giovani testimoni da noi interpellate abbiamo potuto contare:

 

Diplomi conseguiti

 

Lauree conseguite

 

Perito agrario

1

Agraria

1

Ragioniere

4

Conservazione dei beni culturali

1

Maturità classica, artistica, scientifica

3

Medicina

1

Magistrale

1

Scienze della comunicazione

1

Maestro d’arte

1

 

 

Segretaria d’azienda

1

 

 

Licenza media

1

 

 

È una situazione coerente anche con quanto succede in tutta Italia e in altri paesi industrializzati, ove si registra un aumento progressivo e costante della scolarità femminile. L’incremento sta a significare un modo peculiare delle donne di stare con successo a scuola e di continuare a cogliere le opportunità formative ovunque si presentino, anche a scuola finita. L’incremento più cospicuo della presenza femminile è avvenuto a livello secondario che rappresenta l’85% della scolarità aggiuntiva. Le donne inoltre richiedono più formazione post diploma. Al fondo di entrambi i fenomeni c’è la trasformazione dell’identità femminile.

L’orientamento scolastico, hanno dichiarato le nostre testimoni, è stato libero da condizionamenti e inteso come strumento di affermazione di sé.

Le scelte scolastiche risultano molto diversificate; quasi certamente, le nate dagli anni Settanta agli anni Ottanta sono state libere nelle opzioni dei loro percorsi scolastici che sono dipese dai loro interessi e dall’apertura culturale che hanno ormai conquistato. Il dato corrisponde all’elaborazione prodotta da Anna Maria Ajello (Orientare dentro e fuori la scuola, Milano, 2000): Attualmente i dati sulle immatricolazioni universitarie mostrano una prevalenza in tutte le facoltà delle ragazze, a eccezione di quelle di ingegneria”.  V.Aebischer (“Le donne e le scienze”, Comunicazione presentata al convegno “Pari opportunità nell’istruzione”, Parma, 1991) in una ricerca volta a esplorare l’immaginario scientifico delle ragazze e la percezione sulla tecnica da parte delle donne che

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svolgono attività in campi tradizionalmente maschili dimostra che per la scelta di percorsi scientifici le ragazze hanno bisogno di un numero ben più consistente di successi rispetto ai maschi.

La scuola è percepita dalle nostre testimoni come lo strumento che permette di affermarsi e facilita l’introduzione al mondo del lavoro a livello qualificato e consono alle proprie esigenze anche in sbocchi professionali considerati un tempo maschili. I condizionamenti dei vecchi modelli, quali la segretaria, la maestra o l’impiegata, dominanti presso la precedente generazione, non vengono più seguiti. (Elisa, anni 20: Sono perito agrario specializzato in viticoltura ed enologia, ho scelto questo ramo perché ero affascinata dal settore del vino e mi dava la possibilità di un futuro lavoro molto dinamico, che non mi tenesse tutto il giorno seduta davanti a una scrivania. Questo titolo di studio apre le porte solitamente a un pubblico strettamente maschile, ma io ci ho voluto provare ugualmente e ce l’ho fatta. Mi sono diplomata quest’anno dopo sei lunghi anni con ottimi voti, infatti ho raggiunto un punteggio di 95/100. Sono molto orgogliosa di me stessa, ho superato anche molti uomini e ho dimostrato di essere migliore di loro).

Le giovani intervistate hanno dichiarato che la scuola è stata importante per la loro formazione intellettuale e umana, perciò si sono impegnate per raggiungere l’obiettivo dei buoni risultati scolastici con la consapevolezza che il loro riscatto sociale ed economico dipende anche dal grado d’istruzione e di cultura raggiunti. Ciò ha permesso di trovare occupazione nel mondo del lavoro anche in settori tradizionalmente maschili e a livelli più alti; si è dato così l’avvio a un processo di emancipazione rispetto alla condizione delle donne delle generazioni precedenti (Marina, anni 27: Quando si ha passione per determinati argomenti li si segue con grande attenzione e concentrazione, e si ottengono buoni risultati e grandi soddisfazioni).

Lo stesso mondo del lavoro oggi richiede capacità complesse, caratterizzate da duttilità mentale, buona cultura e allo stesso tempo competenze mirate e professionali, per cui è una caratteristica di questa generazione seguire corsi di specializzazione anche molto diversificati e per tempi lunghi una volta ottenuto il diploma quinquennale o anche dopo la laurea.

Traendo le somme, possiamo dire che le ragazze si sono proiettate ognuna in una determinata professione, hanno anche potuto fruire del servizio di psicologia dei vari centri di orientamento, che le hanno aiutate e sostenute nella scelta di un percorso adatto alle loro attitudini e ai loro interessi. Inoltre le opportunità proposte dalla scuola negli anni Settanta - Ottanta in Italia sono state ampliate: da allora si può scegliere tra molte più opzioni, corsi sperimentali (di approfondimento di certe discipline) e specializzanti (in lingue straniere, in informatica). Ora le offerte formative sono più varie e più consone alla continua evoluzione del mercato del lavoro, così probabilmente il modello dominante imposto dalla società e dalle famiglie non è molto vincolante com’era trent’anni fa.

Sono cambiate anche le disponibilità economiche: oggi in Friuli le famiglie possono concedere alle figlie un adeguato appoggio per finanziare i loro studi,

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almeno fino alla scuola superiore.

 

 

3.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

Per accedere al mondo del lavoro le donne della terza generazione hanno dichiarato di aver seguito corsi professionalizzanti e di specializzazione in quanto dovevano corrispondere a richieste e competenze altamente qualificate e mirate.

            Queste giovani si trovano a vivere una condizione abbastanza complessa, il loro impegno è molto sostenuto, spesso continuano a studiare e lavorano contemporaneamente, sono disposte a sacrificare il loro tempo libero, rinunciando perfino al divertimento che in questa società è un forte richiamo; c’è un interesse altissimo rispetto alla generazione precedente alla realizzazione personale di sé sia negli studi che nel campo lavorativo. (Caterina, anni 21: Io trovo che sia molto cambiata la concezione della donna, perché comunque oggi come oggi le donne hanno il loro spazio e riescono a inserirsi allo stesso modo degli uomini nel mondo del lavoro, perché è stata rivalutata proprio la figura della donna alla pari dell’uomo). Abbiamo notato che, conclusi i cicli di studio, otto ragazze che lavorano svolgono contemporaneamente più attività. Questo impegno viene giustificato con l’esigenza di arrotondare lo stipendio, con la ricerca di lavori che possano dare una sicurezza (in caso di perdita di un lavoro ne rimane un altro), o perché si tratta di un impiego piacevole. Comunque emerge che il mercato del lavoro non dà sicurezza e che gli stipendi richiedono un arrotondamento per mantenere un livello di vita soddisfacente, così questa generazione di donne deve essere molto duttile. Sette ragazze svolgono un’unica attività lavorativa, si tratta in questo caso di impieghi a tempo indeterminato con stipendio adeguato. Tutte hanno affermato che trovare lavoro è stato molto facile. (Ilenia, anni 30:L’accesso nel mondo del lavoro è arrivato nel 1991, puntuale, appena terminati gli studi superiori, in concomitanza con lo svolgimento dei corsi di specializzazione. All’inizio univo la frequenza dei corsi di specializzazione ad attività lavorative part-time, dopodiché ho iniziato a lavorare a tempo pieno).

Escluse le quattro studentesse universitarie, delle altre intervistate cinque svolgono un’attività non corrispondente al titolo di studio (due operaie, di cui una saldatrice, due commesse), le altre, invece, svolgono un lavoro adeguato alla qualifica.

Il lavoro di genere sta venendo meno, queste ragazze s’impiegano in settori che un tempo erano tipicamente maschili, forse perché gli strumenti di lavoro non richiedono più l’uso della forza fisica e perché non ci sono più tabù di questo tipo. (Eleonora, anni 25: Ho svolto due lavori: prima come cameriera in un ristorante nel quale ho lavorato pochi mesi, poi me ne sono andata perché ho trovato un impiego più comodo, come saldatrice, in una piccola fabbrica

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qui in zona.)

            Il rapporto di lavoro in questi ultimissimi anni è stato modificato, si è molto diffuso il lavoro part-time, soprattutto nel settore terziario, sono previste anche nuove forme di contratto di lavoro come i Contratti di Collaborazione Continuativa, la flessibilità, ma si tratta di forme che non danno una garanzia e sicurezza per il futuro. Purtroppo è ancora diffuso il lavoro in nero.

Da questi dati possiamo dedurre che il mercato del lavoro è molto dinamico, i giovani hanno molte opportunità, soprattutto nel settore terziario, ma lavorano in condizioni d’insicurezza e il tempo da dedicare al lavoro è molto lungo. Queste giovani donne però risultano ancora escluse in numero notevole dai più alti livelli dirigenziali e manageriali, in tutti i settori lavorativi, pubblici e privati anche se, a questi livelli - i dati lo dimostrano - le donne si stanno pian piano facendo strada con successo. (Alessandra, anni 27: La donna è ancora molto svantaggiata: il più delle volte viene posta in secondo grado rispetto all’uomo e in molti ambienti di lavoro si pensa ancora alla donna come casalinga con il grembiule che lava, pulisce, cresce i figli e prepara il pranzo per il marito). Va comunque sottolineato che, per poter accedere a questi livelli più alti le donne devono dimostrare di possedere doti superiori ai maschi (Maria Teresa Tonutti: È superato il problema che in certi ambiti la donna non ci lavora, la donna oggi fa la camionista, la dirigente…Forse la diffidenza più grande rimane sul sapere se ce la farà o non ce la farà, così la donna deve dimostrare di essere brava, lo deve dimostrare tante più volte rispetto all’uomo). Talvolta nemmeno la dimostrata bravura basta. È il così detto “tetto di cristallo” di cui ha parlato Margherita Hack: invisibile, respinge le donne che vogliono occupare ambiti decisionali e di responsabilità. (Ilenia, anni 30: Agli inizi della mia carriera lavorativa, ho spesso riscontrato discriminazioni nell’atteggiamento degli uomini nei confronti delle colleghe donne. Questo succedeva quando lavoravo in ambienti prettamente maschili. Ma anche a scuola fu la differenza tra i sessi che mi fece optare per un istituto commerciale,  piuttosto che per un istituto industriale, scuola strettamente maschile. L’atteggiamento discriminatorio fa sì che la donna debba lavorare molto di più per raggiungere livelli più alti dell’uomo per quanto riguarda la carriera. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, sono uscita dalle discriminazioni dimostrando le mie capacità e lavorando sodo).

 

 

3.3  La gestione della famiglia

 

Delle quindici intervistate, quattro sono sposate (di cui tre hanno un unico figlio), sei vivono con la famiglia di origine, due convivono con altre ragazze, tre vivono da sole.

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Le ragazze di questa generazione, nella loro maggioranza, rimandano la scelta di formarsi una propria famiglia e di avere dei figli oltre i trent’anni, hanno dichiarato di dedicare per adesso le loro energie alla realizzazione personale e alla ricerca di un lavoro che le renda autonome economicamente e che le gratifichi (Elena, anni 30: Il lavoro mi ha dato la grande possibilità di essere indipendente sotto il punto di vista economico senza dover dipendere direttamente dalla mia famiglia). La carriera lavorativa ha un valore prioritario perché le donne non accettano più di dover dipendere dai padri o dai compagni, intendono potersi realizzare e autoaffermarsi in un ambito nuovo rispetto alle donne delle precedenti generazioni. Le donne più giovani oggi possono scegliere diversi percorsi di vita, sono consapevoli che l’educazione, la crescita dei figli comportino impegno e rinunce, e allora il problema viene rimandato, almeno fino alla conquista dell’autonomia economica. A questo punto abbiamo constato e considerato che il desiderio di maternità dipende dalla situazione economica e culturale, dal contesto sociale in cui una donna vive.

Le tre giovani che hanno un figlio, dopo aver fruito dei vantaggi offerti dalla legge per la tutela della maternità, hanno ripreso l’attività lavorativa. La loro vita è diventata più difficile perché devono conciliare il tempo del lavoro con quello da dedicare alla crescita e all’educazione del bambino. L’impegno nella professione ha dovuto essere garantito a un costante livello perché le richieste permangono alte e il livello delle prestazioni deve essere mantenuto. Ma allo stesso tempo queste giovani vogliono svolgere al meglio il proprio ruolo nella sfera domestica. La dicotomia tra vita familiare e lavorativa determina una forte dispersione di energie da parte della donna e trovare un equilibrio non sempre è facile. Il persistere di un’ineguale divisione dei compiti tra i coniugi non facilita la situazione. In queste condizioni è comunque giocoforza che i compagni si dedichino alla cura dei bambini e della casa, in collaborazione con la donna(Alessandra, anni 27: Quest’anno Thomas ha iniziato l’asilo, ma dato che è ancora piccolo lo porto io al mattino prima di andare al lavoro, perché ho un orario flessibile, a mezzogiorno, dopo il pranzo, va mio marito a prenderlo e lo porta a casa dove passa il pomeriggio con una babysitter). Un aiuto notevole è offerto in questa situazione dal supporto offerto dalle famiglie di origine. Ciò che ancora manca è un grado maggiore di sensibilizzazione della società, della cultura verso i nuovi bisogni legati alla presenza delle donne nel mercato del lavoro, anche offerta e disponibilità di servizi.

 

 

3.4  Conclusioni

 

Due fatti fondamentali, il terremoto del 1976 e la caduta del muro di Berlino nel 1989, hanno segnato il Friuli dell’ultimo decennio del 1900. Il primo tragico evento dopo i lutti, il dolore, la distruzione, ha comportato uno sforzo notevole di ricostruzione innanzi tutto dell’apparato produttivo: le aziende

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danneggiate e distrutte, ma anche altre a ridosso degli anni Ottanta hanno rinnovato, grazie anche ai finanziamenti concessi dallo Stato, l’apparato tecnologico, quello produttivo, le strutture. Le imprese si sono dotate di tecnologie d’avanguardia che le hanno rese competitive. La caduta del muro di Berlino ha trasformato il Friuli da regione di frontiera a crocevia di scambio con i paesi del Nord e dell’Est Europa. Si spiega anche con questi fatti, insieme al quadro economico mondiale positivo, la crescita dell’economia registrata in Friuli in questo periodo, il cui PIL dal 1981 supera per la prima volta la media nazionale del 7% con un valore annuo di 25.500.000 lire. Se nel 1991 la crescita resta quasi costante, il grande salto avviene nel 1999, anno in cui il PIL supera del 17% la media nazionale. Nello stesso periodo cresce anche il tasso medio di attività (rapporto tra forza lavoro e popolazione compresa tra i quindici e i settant’anni) delle donne in provincia di Udine che passa dal 41,7% del 1993 al 45,5% del 1998, mentre i maschi dal 70,6 del 1993 scendono al 68,6 nel 1998. In questo contesto si collocano i racconti delle nostre interviste che qualificano i dati quantitativi.

 

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Relazione della classe 3 B Igea - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 1999/2000

Insegnante Prof. Mauro Bullo

 

 

1.  Interviste alle donne della seconda generazione

 

Nella legislazione italiana moderna la donna trova affermata la sua uguaglianza con l’uomo nell’art. 3 della Costituzione che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso”. Essa tutela la donna nel campo del lavoro nell’art. 37, il quale dispone che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore maschio” e che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Noi, classe 3 B Igea dell’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Zanon” di Udine, stiamo collaborando con altre sei scuole rispettivamente delle città di Udine, Palmanova, Tolmezzo e San Daniele a un progetto che ci porterà a conoscenza del ruolo sociale, politico ed economico delle donne friulane dagli anni Venti a oggi. Il nostro strumento essenziale di lavoro sono le interviste, infatti durante il primo quadrimestre di quest’anno scolastico, assieme al nostro docente di Storia, abbiamo costruito una traccia con una dozzina di quesiti da porre alle rispettive madri, che hanno un età compresa fra i quarant’anni e i sessanta, e che ci possono dare informazioni riguardanti gli anni che vanno dal 1980 a oggi per poter tracciare un quadro del ruolo che queste donne hanno avuto nei processi di lavoro in Friuli. Nei prossimi due anni andremo a ritroso nel tempo fino ad arrivare al 1920. In questa avventura, siamo sostenuti dalla Commissione Regionale delle Pari opportunità e siamo stati intervistati anche dal giornalista Paolo Mosanghini del Messaggero Veneto per far conoscere a tutti il nostro progetto.

Dopo aver raccolto tutte le interviste poste alle nostri madri, abbiamo confrontato i dati ottenuti, ricavandone notevoli sorprese. Abbiamo un totale di tredici intervistate di cui quattro risiedono in comune di Udine e le rimanenti nove risiedono fuori comune; sono tutte coniugate tranne un caso di separazione e, calcolando la media del numero dei componenti delle rispettive famiglie, abbiamo ottenuto un valore del 4,4 che è superiore alla media nazionale; da questo possiamo dedurre che in quegli anni il tasso di natalità era più elevato dell’attuale.

 

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1.1  Il percorso scolastico e formativo

 

Raccolti i dati riguardo al titolo di studio, rileviamo che le nostre madri hanno tutte un titolo di studio superiore ai loro genitori. Troviamo un caso di conseguimento della sola licenza elementare, nove casi in cui si è raggiunta la licenza media e tre casi di diploma quinquennale. Tra questi una madre ha deciso, condizionata dalla prospettiva di lavoro futuro, di continuare gli studi prendendo un indirizzo tecnico, mentre altre due madri hanno scelto liberamente di continuare il loro percorso scolastico una al liceo classico e una al liceo scientifico. Non ci sono casi di diploma triennale e tanto meno di laurea.

Confrontando questi dati con il titolo di studio dei nostri padri, capiamo che questi ultimi sono stati privilegiati, dal momento che le famiglie di origine si sono preoccupate che raggiungessero un alto livello culturale; infatti troviamo un caso di laurea, ben sei di diploma quinquennale, tre di triennale, uno di licenza media e due soli casi di licenza elementare.

Ricapitolando, il percorso scolastico delle femmine, comunque inferiore ai maschi, è stato per quasi tutte lineare, anche nella prosecuzione delle esperienze: otto delle nostre madri hanno trovato immediato impiego dopo la terza media e una ha addirittura abbandonato precocemente la scuola, sempre per andare a lavorare. Sappiamo che in quegli anni c’era una notevole richiesta di manodopera, che il lavoro si trovava facilmente senza dover avere conoscenze specializzate e ciò potrebbe indurci a ritenere l’immediato ingresso nel mondo del lavoro come un successo senza particolari implicazioni. Invece chi ha raggiunto la licenza media senza altre qualifiche – e sono la quasi totalità del campione da noi intervistato - deve poi pagarne lo scotto. (Loredana, anni 46: Andare a lavorare in fabbrica è stato uno sbalzo tremendo. Sempre in fabbrica, ma con lo spirito di trovare qualcosa di meglio, ho cercato di fare un corso per aprire un negozio di mercerie e giornali ma probabilmente la fortuna non è mai stata dalla mia parte. Quando avevo quasi finito il corso ho scoperto che la licenza che mi spettava era stata data a qualcuno più anziano di me, che offriva di più, così dopo molti sacrifici, visto che dovevo sempre cambiare turno per avere la possibilità di seguire il corso che si svolgeva solo la sera, tutto è svanito in poco tempo).

Poche sono le possibilità di scelta, potremmo dire che si istituisce quasi un percorso obbligato, una regola che determina in modo automatico il passaggio scuola-lavoro. (Silvia, anni 42: Quando andavo a scuola io, a parte che il mio desiderio non era quello di studiare, oltretutto non è che mi piaceva, nella mia mente neanche passava l’idea di continuare gli studi, c’era proprio quasi la regola: scuola - licenza media - lavoro. Era di norma così e si andava a lavorare).

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Da queste testimonianze ricaviamo che le giovani donne di allora non consideravano necessario avere un’elevata cultura; in parte, come abbiamo già detto, perché la richiesta di manodopera, che il mercato del lavoro offriva con relativa facilità, dava immediati sbocchi di realizzazione personale, in parte per l’influsso dell’educazione familiare ricevuta, per la quale esse trovavano naturale essere destinate all’aiuto domestico. Questa situazione cambia nel momento in cui l’istruzione è riconosciuta come un importante valore, ma ciò avviene solo negli anni della maturità personale (Mara, anni 39: No, il titolo di studio non mi è servito, anche perché avevo solo la licenza media e a quei tempi il lavoro in fabbrica non richiedeva diplomi. Certo è che ho sempre rimpianto di non aver potuto e voluto studiare, ero un adolescente con tanta voglia di indipendenza e di certo non avrei mai pensato che poi il diploma mi sarebbe stato utile e mi avrebbe potuto aiutare dandomi una vita migliore). (Adriana, anni 43: Eh, sì! Sì, perché io, tuttora, sento che non so parlare bene, quando sento le cose, talvolta, devo farmele spiegare da chi ne sa più di me, e mi sento svantaggiata; adesso capisco che se forse mi impegnavo di più nello studio avrei fatto un lavoro che mi sarebbe piaciuto maggiormente. Però l’ho capito dopo).

 

 

1.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

Per le ragioni sopra menzionate, l’accesso al lavoro è avvenuto con molta facilità ed è stata rispettata la regola scuola – lavoro, anzi molto frequentemente le giovani ragazze, quasi bambine, hanno alternato periodi estivi di lavoro alla scuola (Adriana, anni 43: La prima esperienza lavorativa l’ho avuta da bambina, a nove o dieci anni. Andavo ad aiutare mio padre che aveva un lavaggio per automobili; sì, non era un lavoro, andavo ad aiutarlo, mi davano le mance, ma per me era un lavoro. Poi, quando ho finito la terza media, sono andata subito a lavorare. Ho avuto un’esperienza di quindici giorni in un negozio di dischi).

Nella maggior parte dei casi il lavoro si trova per conoscenza e solo due madri hanno trovato lavoro attraverso gli annunci sul giornale o tramite i concorsi pubblici. In nessun caso si sono rivolte agli uffici di collocamento.

Il tutto poi avviene prevalentemente al di fuori delle elementari regole contrattuali (Gianna, anni 59: La mia prima esperienza lavorativa cominciò quando avevo quattordici anni. Finite le scuole commerciali sono andata a lavorare presso un parente che aveva un’impresa edile però senza paga e senza le assicurazioni. Poi dopo un anno sono stata presa sempre da un parente in uno studio di commercialista e anche lì né assicurazione né soldi. Finalmente

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quando avevo diciotto anni, stanca di questa situazione perché la mia famiglia viveva in ristrettezze, sono stata assunta da un sindacato, la “Coltivatori Diretti”, però anche lì dopo un mese e mezzo di lavoro non mi avevano ancora assicurata né mi avevano chiesto di presentare il libretto di lavoro). Va pertanto ricordato che le donne risultano essere messe in regola in ritardo e abbiamo registrato ben cinque casi di lavoro in nero, che non sono pochi rispetto a un campione di tredici intervistate. Ma vale la pena di registrare quanto dice una donna (Silvia,  di anni 42) ricordando il suo particolare colloquio di lavoro: “Una cosa che mi è rimasta impressa è che quando mi ha fatto il colloquio di lavoro il titolare, invece di chiedermi cosa sapevo fare, se sapevo scrivere a macchina, mi ha detto di scegliere qualcosa che sapevo fare e io ho parlato di come si lavora nell’orto, per dire, dalla vangatura, alla semina, alla nascita, al raccolto; difatti lui era quello che voleva capire, cioè partire da un niente per arrivare a un qualcosa”.

Questa dimensione di precarietà diffusa e tutto sommato inconsapevole costringe le donne a una presa di coscienza tardiva del reale valore di emancipazione che il lavoro ha in sé (Iris: Negli anni Ottanta lavoravo nel bar, ma comunque non era un lavoro con degli orari da rispettare, per me, perché ci andavo solo se c’era una necessità d’aiuto e se avevo tempo e voglia di farlo. Nel 1981 ho lavorato tre mesi in fabbrica, perché avevo la necessità di avere un lavoro che fosse tale e non per fare un piacere ai miei genitori). Forse a un più consapevole senso della propria collocazione come soggetto sociale, contribuiscono fattori esterni, apparentemente non legati direttamente al mondo produttivo, in particolare il terremoto del 1976 che ha colpito vaste aree del Friuli  (Iris: Sicuramente il terremoto ha dato una spinta, ci ha fatto svegliare ecco. Di lavoro ce n’era anche prima del terremoto, non è mai mancato, ma la necessità di ricostruire il Friuli ha creato sicuramente nuovi posti di lavoro. Se il Friuli poteva essere, prima del terremoto, una terra di emigranti, dopo non lo era più).

Ciò comporta, come è ovvio, vantaggi e svantaggi. Accanto all’indubbio vantaggio costituito dalla semplicità nel trovare una occupazione, va detto che non sempre il lavoro, o l’ambiente di lavoro, fosse favorevole (Mara, anni 39: Il mio lavoro consiste nel fare vasche, contenitori, oppure, come sull’ultima nave in cui ho lavorato, ponti, curve, insenature, ecc. non è un lavoro facile, ma è l’unico che abbia trovato vicino a casa e che mi permette una certa libertà, nel senso che così posso concordare gli orari di scuola e delle altre attività con il lavoro. È faticoso più che altro perché vengo a contatto ogni giorno con sostanze chimiche anche tossiche…certo è che se trovassi un altro lavoro che mi garantisse le stesse libertà, lo cambierei a colpo).

La durezza dei rapporti sociali nell’ambiente di lavoro l’abbiamo riscontrata in diversi dei racconti di vita (Mara, anni 39: Per quanto riguarda il lavoro, invece, i problemi, più che con il padrone, sorgevano con certi colleghi che magari per un aumento di stipendio o anche solo per rendersi bravi e simpatici agli occhi del capo facevano di tutto. Alle volte ci ripenso e ci rido anche su. È stato duro solo l’inizio quando ho dovuto abbandonare i libri e le mie compagne per tornire, passare ore e ore su una macchina per fare dei pezzi, alzare scatoloni e pesi di vario genere). (Silvia, anni 42: Vedevo che i nuovi assunti quasi

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avevano meno resistenza di noi, che eravamo già vecchietti; se facevano un’osservazione a noi, cercavamo di migliorare, invece ci sono stati degli anni successivi in cui i ragazzi, i giovani, quando venivano assunti, sembrava che non riuscissero a sopportare i rimproveri e c’era un ricambio di ragazzi anche nell’ambiente degli operai, continuo, invece gli assunti della mia età hanno percorso tanti anni insieme).

Frequenti quindi sono stati i cambi di occupazione e non solo per i maschi. In ogni caso i ricambi hanno quasi sempre costretto le donne a repentini adattamenti. Soprattutto in questi ultimi anni l’ambiente di lavoro si è informatizzato e cinque madri hanno dovuto frequentare dei corsi di informatica per usare regolarmente il computer nel loro impiego.

Non abbiamo registrato molti casi acclarati di discriminazione sul luogo di lavoro, solo due, anche se l’impressione ricavata è che le madri preferiscano non parlare a fondo di questo aspetto. (Mara, anni 39: L’essere donna non mi ha causato discriminazioni, piuttosto alcuni problemi sul lavoro, come ad esempio in questo mio lavoro la maggior parte degli operai sono maschi, figuriamoci, in un cantiere, insomma i fischi o le paroline non mancano ma poi tutto si risolve perché intervengono i capo-reparto che calmano le acque). Alcune anzi hanno dichiarato di aver ottenuto dei vantaggi dal fatto di essere donna in quanto nei lavori più pesanti gli uomini offrivano il loro aiuto.

 

 

1.3  La gestione della famiglia

 

Ciò che è stato conquistato inizialmente con facilità e poi mantenuto, magari con fatica, repentinamente può cambiare se si modificano altre variabili comunque legate alla vita di una persona e in particolare di una donna: ci riferiamo all’importanza costituita dai rapporti personali quando questi si intrecciano con i rapporti lavorativi. La vita di una donna cambia radicalmente con il matrimonio, in quanto questo implica maggiori impegni e ciò può creare qualche difficoltà nel dedicarsi con eguale vigore alla cura della gestione familiare e alla resa lavorativa.

Ma i problemi potrebbero essere risolti se tutto dipendesse dalla sola volontà della lavoratrice; in realtà anche l’ambiente di lavoro, anzi il datore di lavoro interviene direttamente nel destino delle nostre donne. Troviamo infatti quattro casi di abbandono del lavoro a causa del matrimonio: due volontari e due a seguito del licenziamento operato dal principale. In precedenza avevamo sostenuto che la scarsa scolarizzazione di alcune donne comporta una scarsa consapevolezza del valore del lavoro e quindi una difficoltà ad apprezzarlo e ciò è condizione indispensabile per difenderlo; tutto questo trova conferma nel fatto che le donne che lasciano il lavoro presentano per la maggior parte un titolo di studio limitato, la terza media, mentre le donne con un livello maggiore

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tendono a continuare la loro carriera.

Anche la nascita di un figlio incide sul futuro lavorativo della madre, raccogliamo infatti cinque ulteriori casi di abbandono del lavoro, due per costrizione e tre in seguito a una loro scelta; è una percentuale molto elevata su tredici casi. Al di là dei casi di costrizione (Loredana, anni 46: Volendo arrivare ai versamenti pensionistici minimi ho dovuto trovare una baby-sitter per accudire la prima figlia, poi ho chiesto il part-time che non mi hanno concesso né la prima né la seconda volta, così ho dovuto prendere la decisione di lasciare il lavoro). Ciò che colpisce è la chiarezza e la consapevolezza delle scelte fatte dalle future madri: si preferisce abbandonare il lavoro a favore dei figli. (Graziella, anni 48: Io ho smesso di lavorare appena rimasta incinta. Mi piaceva e preferivo crescere i figli. Avevo paura di essere impreparata a fare la madre. Non potevo pensare di affidare la bambina ad altri e io essere al lavoro). Nel caso le donne continuino a lavorare, la stessa consapevolezza, che la maternità comunque finisca per rappresentare un ostacolo alla carriera, è riscontrabile quando esse sono chiamate a farne un bilancio, come successo in occasione delle interviste. (Gianna, anni 59: Ritengo senz’altro che i figli possano essere un ostacolo alla carriera lavorativa. La donna che lavora non ha la disponibilità di tempo che ha un uomo, ad esempio è difficile per una donna andare alle riunioni serali, invece un lavoratore maschio può tranquillamente assentarsi da casa oltre l’orario di lavoro o la sera per fare carriera).

Ciò non produce però nelle donne che lavorano a cavallo degli anni Ottanta comportamenti innovativi o più consapevoli rispetto alla tutela personale. È dal 1972 che nel nostro ordinamento giuridico compare la legge sulla maternità che afferma che la donna ha diritto a sei mesi di astensione dal lavoro per accudire il suo bambino e non può essere licenziata per questo motivo. Negli ultimi anni la legge, modificata, è divenuta più flessibile in quanto è la donna che decide il periodo in cui rimanere a casa. Però solo quattro delle intervistate hanno usufruito di questa legge.

Pur tra varie difficoltà, i figli più grandi contribuiscono comunque all’organizzazione familiare, aiutando la madre nei lavori domestici. Grazie al nostro campione abbiamo calcolato circa due ore giornaliere di aiuto durante l’estate mentre solo una durante il periodo invernale.

È chiaro che, a queste condizioni, visti i tanti impegni che hanno, poche donne (solo cinque) hanno potuto dedicarsi ad attività “sociali” come il volontariato o la partecipazione sindacale o politica. Per la politica probabilmente pesa il pregiudizio che in questa attività gli uomini erano e tuttora sono privilegiati. In generale ancora una volta abbiamo la sensazione di una certa reticenza a raccontare questi fatti di natura personale, quasi le donne avessero pudore a dichiarare anche a se stesse il desiderio di qualche forma di evasione dagli impegni istituzionali e familiari della loro vita; anzi, quando lo fanno, questi racconti si ammantano di una triste ironia. Dice Mara, di anni 39: “Come hai potuto notare anche tu, non ho molto tempo da dedicare ad altre attività, però quando ad esempio voi siete da vostro padre o io sono libera, vado in ospedale a fare la notte...”

 

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Relazione della classe 5 A Igea - ITC “V. Mancini” di San Daniele - a.s. 2001/2002

Insegnante Prof.ssa Isanna Bonoris

 

 

1.  Intervista alle lavoratrici sandanielesi

 

 

1.1  La scelta di campo per le interviste

 

“L’inserimento nel lavoro produttivo e nella lotta operaia produce nelle donne una rapida e diffusa maturazione di coscienza politica e civile e una chiara consapevolezza di nuove contraddizioni e nuove esigenze che emergono nella condizione femminile. La conquista di un posto di lavoro è pagata dalla lavoratrice con il pesante prezzo del ‘doppio lavoro’, nella attività produttiva e nella famiglia”. Questa affermazione di Camilla Ravera sembra più valida per la seconda parte che per la prima nel caso del territorio sandanielese, in cui il lavoro delle donne, che ha caratterizzato alcuni settori produttivi (un tempo le filande, ora particolarmente prosciuttifici e calzaturifici, ma anche bigiotteria) è avvolto dal silenzio, quasi da un complesso di inferiorità. Infatti il lavoro di fabbrica comporta un cumulo di fatiche scarsamente apprezzate, anche se socialmente preziose, in parte ripagate dal benessere, o almeno dal fatto che alleviano disagi e ristrettezze di molte famiglie. E il ripiegamento sulla famiglia è la caratteristica non solo della difficoltà a impegnarsi nella vita politica, ma anche la soluzione nei casi di crisi economica, come avviene di questi tempi, in cui l’abbandono del lavoro caratterizza soprattutto la manodopera femminile. Quale settore meglio di quello calzaturiero testimonia meglio questa situazione in cui economia macro e micro si confrontano nella storia locale del secolo scorso? I profondi mutamenti della globalizzazione sono rappresentati  dalla parabola che ha visto nascere, crescere e tramontare un’attività tipica del Friuli quale quella della produzione di scarpets, e di calzature in genere. Abbiamo voluto dar voce a queste lavoratrici che ne sono testimoni, perché insieme al loro lavoro non scompaia anche l’esempio del loro impegno e delle loro fatiche.

Ovviamente, fra di esse non vi è alcuna donna manager, ma abbiamo ravvisato analogie nella situazione di partenza, nel radicamento sul territorio e nel forte legame con la famiglia per il caso della signora Livia Sina, titolare della Sina Carri di Spilimbergo: con un percorso diverso, e con esiti brillanti, ha

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saputo coniugare lavoro e famiglia, realizzando pienamente la sua personalità.

 

 

1.2  Identikit delle intervistate

 

L’età delle nostre intervistate varia dai trentotto ai settantacinque anni. Le più giovani sono Teresa e Barbara (trentotto anni), seguono Sandra (quarantasei), Daniela ed Elide (cinquanta) e infine, nella classe delle più anziane, Lina (cinquantotto) e Alma,  la più avanzata in età (settantacinque anni).

Sandra e Barbara sono nate a San Daniele, Daniela a San Martino al Tagliamento (PN), Alma a Meduna di Livenza (TV) e, pur con vicissitudini legate alla guerra (Alma. Anni 75: I soldati durante un rastrellamento rapirono me e la mia famiglia, portandoci in Jugoslavia. Riuscimmo a scappare quasi per miracolo e così ci trasferimmo definitivamente qui a San Daniele), sono sempre vissute nella zona collinare o in regione; da famiglia di emigranti provengono invece Teresa, che è nata in Francia e vi è rimasta sei anni, ed Elide, nata a Castel di Casio (Emilia Romagna).

È originaria di Tramonti (PN) Lina, che ha vissuto lì fino a sedici anni, per poi trasferirsi a Spilimbergo, dove tuttora risiede.

 

 

1.3  La gestione della famiglia

 

La famiglia di provenienza delle intervistate è stata generalmente numerosa, ma anche allargata, cioè composta non solo da padre, madre, fratelli e sorelle, ma anche da altri parenti (Daniela, anni 50: La nostra famiglia era abbastanza numerosa, oltre  ai miei genitori, i miei due fratelli e me, vivevano con noi anche mia nonna, i miei zii e i miei cugini). Nelle generazioni più anziane l’infanzia era dura e caratterizzata dall’impegno di badare ai fratelli più piccoli e di aiutare la madre nelle faccende domestiche (Alma, anni 75: Eravamo in otto. Tre sorelle e tre fratelli più mia madre e mio padre; andavamo tutti molto d’accordo e ci sostenevamo l’uno con l’altro in caso che qualcuno combinasse qualche marachella. I soldi in casa mancavano e fu soprattutto per il benessere della mia famiglia che mi affacciai molto presto sul mondo del lavoro. Giocavo, badavo ai miei fratelli più piccoli, sbrigavo le faccende di casa. Quando cominciai a lavorare, di tempo libero me ne rimase ben poco e quindi per lo più riuscivo ad aiutare mia madre a pulire la casa o a cucinare per tutta

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la famiglia).

Attualmente le famiglie delle nostre sei intervistate sono in media composte da quattro persone: oltre che ai rispettivi mariti, Daniela ha tre figli, Sandra, Barbara e Teresa ne hanno due ed Elide uno. Rispetto alla famiglia di origine il numero dei figli è drasticamente diminuito, e questo fatto coincide con i dati generali del calo delle nascite in Friuli.

I compiti ai quali assolvere nell’ambito familiare consistono nei lavori domestici (lavare, stirare, preparare da mangiare, pulire, fare la spesa, curare l’orto e per chi ha parenti anziani, assisterli nelle loro necessità). A seguire i figli sono esclusivamente le donne: sono loro che li aiutano nelle incombenze scolastiche e negli impegni extrascolastici (come catechismo, nuoto e calcio); la situazione si ripete coi nipoti, quando diventano nonne: spetta a loro accudire ai nipotini se i figli sono impossibilitati (Daniela, anni 50: Qualche volta devo anche accudire il nipotino, ma per me è più un piacere che un peso).

Lo stesso è successo a loro quando lavoravano: durante l’infanzia dei figli i nonni e altri parenti si sono occupati dei bambini piccoli. Nel caso che questo non sia avvenuto, sono stati gli stessi genitori a dividersi i compiti nel prendersi cura in ogni momento della propria prole, magari organizzando dei turni e cercando di conciliarli con il lavoro.

Non manca chi (Barbara) rimpiange di non aver potuto godersi la prima infanzia della figlia e di averla portata all’asilo nido: è per questo motivo che si è licenziata alla nascita del secondo figlio.

Un tempo, poi, il congedo per maternità non era così lungo come adesso e non manca anche chi ha avuto seri problemi di salute e perciò ha dovuto affrontare situazioni difficili, per fortuna con la collaborazione del marito (Alma: In quei tempi per la maternità ti davano solo un mese di ferie, quindi ho lavorato fino agli otto mesi di gravidanza. Devo ammettere che fu veramente dura lavorare in quel periodo e quando nacque il bambino fu ancora peggio, ma grazie a Dio c’era mio marito che mi aiutava, soprattutto nelle faccende di casa).

I mariti delle intervistate svolgono o hanno svolto le professioni più varie: agricoltore, operaio in fabbrica calzaturiera, artigiano edile, pensionato ex infermiere e pensionato ex ferroviere; quello che ha il titolo di studio più elevato, geometra, è direttore di prosciuttificio; il fatto che lavorino entrambi i coniugi li ha costretti a condividere, dove possibile, la responsabilità degli impegni della gestione della casa e dei figli.

Si nota la collaborazione tra i coniugi anche nell’amministrazione del bilancio familiare: sono rare ormai le famiglie nelle quali è solo il marito a decidere degli investimenti da compiere, nella maggior parte dei casi entrambi i coniugi se ne occupano, magari dividendosi i compiti da svolgere.

Anche nel modello di famiglia tradizionale, quello di Alma, la più anziana, il marito si assume varie responsabilità, pur riservandosi la cura del bilancio familiare; nella famiglia moderna, tutti e due gestiscono la casa e il bilancio di comune accordo; non mancano i mariti che fanno anche le pulizie e da

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mangiare (Daniela, anni 50: Quando torno a pranzo trovo già pronto perché per fortuna mio marito mi dà una mano e durante la mattinata riordina anche le camere).

Il tempo libero è poco, si riduce al sabato sera (un caso) e alla domenica, trascorsa con i nipotini, o a far visita ai propri genitori, con amici, a cena, a ballare o al cinema. Talvolta si approfitta per fare shopping; in un solo caso si segnala come hobby la lettura, sia pure solo di riviste, il che conferma la ricaduta dei propri interessi nell’esclusivo ambito familiare e poca motivazione all’arricchimento individuale.

 

1.4  Il percorso scolastico e formativo

 

Per quanto riguarda gli studi, possiamo dire che tutte le donne che abbiamo intervistato non hanno un bel ricordo della scuola: anche se piaceva, gli insegnanti delle generazioni più anziane erano particolarmente severi (Alma, anni 75: Più di una volta mi sono presa delle belle strigliate d’orecchie a volte anche ingiustamente, magari solo per prendere le difese di un compagno) e ad alcune giovani non piaceva proprio studiare. Le nostre intervistate comunque hanno ricevuto l’istruzione di base dell’obbligo, ai loro tempi, ma non sono state incentivate dalla famiglia a proseguire gli studi (Elide, anni 50: Se avessi continuato la scuola sarei stata sicuramente valorizzata in modo diverso, ma il problema fondamentale a quei tempi era la mancanza di denaro per continuare gli studi); solo in un caso è stato conseguito un titolo di studio professionale, che però è stato accantonato. Infatti Alma, Lina, Daniela ed Elide hanno frequentato le scuole elementari, Sandra ha frequentato le elementari e le medie; Barbara, dopo le medie ha frequentato un anno di scuola per puericultrice a Udine; Teresa invece ha conseguito la qualifica professionale di segretaria d’azienda, all’I.P. “B.Stringher” di Majano, ma si è accontentata di un lavoro meno qualificato rispetto al titolo di studio.

Prima del lavoro nel calzaturificio o del pensionamento quasi tutte le intervistate hanno avuto altre esperienze lavorative, ma nessuna ha seguito corsi di formazione particolare, hanno tutte imparato “sul campo”.

Alma ha fatto due anni di apprendistato presso un artigiano e poi ha trovato lavoro in una fabbrica di scarpe. In seguito ha sempre lavorato nelle fabbriche calzaturiere, infatti ne ha cambiate ben tre.

Barbara, nel periodo in cui studiava per puericultrice, lavorava all’ONMI a Udine, poi nel 1975 – 1976 è tornata a San Daniele per lavorare in una fabbrica di scarpe, la Zapas, e infine ha lavorato per otto anni alla Ferca 81. In questo periodo la situazione è cambiata rispetto ai tempi dell’intervista e si è manifestata una crisi del settore, è stata messa perciò in cassa integrazione; allora si è licenziata. Ha deciso quindi di riprendere a studiare, sfruttando il titolo

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di puericultrice e sta frequentando un corso di formazione per operatore tecnico all’assistenza (OTA), che le permetterà di realizzare l’aspirazione iniziale di lavorare negli ospedali come infermiera.

Daniela all’inizio lavorava in un mobilificio, in seguito in una fabbrica di biciclette a San Martino e poi in un calzaturificio; attualmente è cuoca in un asilo. Elide ha sempre lavorato nell’ambito calzaturiero come Sandra, mentre Teresa prima di arrivare in uno scarpettificio, la Floria, ha lavorato come cameriera e poi come negoziante, ma ora si limita a fare la casalinga.

L’unica a identificarsi subito con l’azienda di famiglia è stata Lina, che ha iniziato a collaborare coi fratelli a diciassette anni.

 

 

1.5  L’accesso al mondo del lavoro

 

Tutte le intervistate riconoscono di esser state condizionate nella scelta da amiche e dalle famiglie; i due terzi riconoscono come fattore decisivo le necessità finanziarie familiari, un terzo la scarsa attitudine allo studio. Certamente un’ampia domanda di manodopera poco specializzata, oltre che l’aiuto in famiglia e l’immediata disponibilità economica hanno fornito la spinta necessaria a intraprendere l’attività lavorativa nel settore calzaturiero.

In particolare, le donne più giovani (Barbara e Teresa, anni 38), dichiarano che sono entrate nel mondo del lavoro non per immediata necessità, bensì perché loro o la famiglia non ritenevano opportuno il proseguimento degli studi; diverso è il caso delle più anziane, che hanno abbandonato gli studi per un indispensabile contributo al sostentamento familiare.

Chi invece ha dimostrato meno passività nella scelta lavorativa è stata Lina, che si è adattata a svolgere mansioni non solitamente femminili, la vendita dei pezzi di ricambio delle auto, nell’officina familiare. È divenuta una donna manager: per questo ha attirato la nostra attenzione e abbiamo deciso di intervistarla, anche se non ha a che fare col settore calzaturiero.

Nessuna intervistata si è lamentata della retribuzione, considerando però che il salario al momento dell’assunzione era ritenuto piuttosto elevato, per una donna. Ad esempio Alma, la donna più anziana, percepiva mediamente 24.000 lire al mese negli anni Cinquanta: non bisogna dimenticare che in quegli anni il potere d’acquisto della moneta era più elevato rispetto a oggi, che lo stipendio era commisurato in base all’esperienza e alle mansioni svolte e che, rispetto ad altri settori industriali, la somma percepita dagli operai dei calzaturifici era inferiore. Infatti alcune delle donne intervistate hanno svolto altri lavori e possono confermare che i salari ricevuti mensilmente nelle altre fabbriche erano maggiori. Ma la semplicità delle mansioni e la vicinanza del posto di

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lavoro, nonché i buoni rapporti coi colleghi sono stati fattori decisivi per l’impiego nel settore.

La totalità delle intervistate non ha sostenuto un colloquio di lavoro, ma al contrario ha intrapreso la carriera lavorativa direttamente, presentata all’azienda da familiari o da amiche; è stata assunta dopo un breve periodo di apprendistato: l’assenza del colloquio è dovuta al fatto che la richiesta occupazionale era piuttosto elevata (Alma, anni 75: Ho cominciato a lavorare a quattordici anni in un mobilificio a Domanins, un paese vicino al mio; le difficoltà che ho incontrato sono state per lo più legate al fatto che ero una ragazzina in mezzo a tanti adulti, e quindi non potevo discutere e confrontarmi con loro perché avevano molta più esperienza di me ed erano più maturi. Per questo lavoro non ho dovuto sostenere alcun colloquio ma mi sono recata nell’ufficio del direttore, il posto era libero e quindi ho iniziato a lavorare. Bisogna precisare che non avevo un contratto perché ero troppo giovane, lavoravo in nero e quando passavano per il controllo noi ragazzi dovevamo nasconderci nei gabinetti o negli spogliatoi). Eventuali difficoltà sono legate alla giovane età delle donne nel momento in cui hanno intrapreso l’attività lavorativa, all’inesperienza in ambito calzaturiero; inoltre si segnalano difficoltà di conciliare lavoro e impegni familiari, o problemi di salute (Elide, anni 50: Ho avuto dei problemi alla vista, ma non so se è stato determinato dal lavoro, anche se all’epoca veniva usato il benzolo che era un collante molto tossico. Comunque, è già diverso tempo che è stato tolto). Quanto alla presenza di discriminazioni, Alma e Daniela affermano che le donne erano più controllate rispetto ai colleghi maschi; Sandra, Elide, Barbara, e Teresa rilevano che, essendo il lavoro tipicamente femminile, non ci sono state discriminazioni. Neanche Lina ha avuto problemi.

Per la quasi totalità delle intervistate i rapporti con i datori di lavoro sono buoni, forse un po’ paternalistici: ad esempio, i proprietari talvolta offrivano ai lavoratori delle bibite o dei dolcetti durante la pausa o in occasione delle festività (Alma, anni 75: Mi ricordo che qualche volta dovevamo rimanere a lavorare anche fino alle dieci, e quando avevamo finito i padroni ci offrivano delle paste e da bere. Inoltre c’erano sempre delle ricompense per i lavori extra). Si riscontrano però due casi in cui i rapporti con i datori di lavoro risultano difficili a causa della severità o dell’eccessiva intransigenza di questi ultimi (Alma, anni 75: Ho iniziato in un calzaturificio dove si facevano pantofole e stivaletti. Lì i padroni ci maltrattavano spesso, ci sgridavano perché non lavoravamo abbastanza in fretta, ci stavano sempre col fiato sul collo urlandoci: “Muovetevi, fate più svelti!”, pensate che contavano persino quante volte andavamo in bagno!).

I rapporti con i colleghi sono giudicati buoni, eccetto qualche discordanza con i più anziani, che essendo più esperti si ritengono superiori, e questo loro comportamento rappresenta un ostacolo soprattutto quando si è appena assunti. Teresa in particolare si lamenta dei suoi superiori. Per molte il fatto di essere alle prime armi risulta oggetto di più facili critiche. (Teresa, anni 38: Con i superiori “buongiorno e buonasera e dire di sì!”, basta! Non c’era quel gran dialogo, anche perché il titolare, ehm, non sbilanciamoci troppo! No, è una persona onestissima, però aveva le sue lune e se capitavi nella luna sbagliata

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erano problemi tuoi. Essendoci solo lui come titolare, non riusciva a seguire tutto e doveva affidarsi ai vari “capi”. Noi avevamo una “bastarda” con la B maiuscola di capo reparto che non la auguro a nessuno. Io non so se aveva una tangente su quello che facevamo, su quanto producevamo, o cosa: ma ti faceva scoppiare. È riuscita a far piangere donne di cinquanta anni; capisco le ragazzine di quindici, ma non so se mi spiego).

Le fasi del lavoro nei calzaturifici e le relative competenze si dividono in questo modo: tomaista (cucire le tomaie), scarnitura (ridurre lo spessore della pelle nella tomaia e nella zeppa), rifinitura (togliere la forma e controllare che non ci siano difetti), confezionamento (inscatolare le scarpe), magazzino (controllo finale e spedizione).

La crisi che adesso attraversa il settore calzaturiero appare ancor più evidenziata da alcuni particolari, che ci vengono delineati dalle intervistate: Teresa ci fa presente che il suo licenziamento è connesso con la chiusura della fabbrica , avvenuta alla fine degli anni Ottanta; Elide ci racconta che la fabbrica al momento della sua assunzione (boom economico degli anni Sessanta) aveva grande capacità di assorbire manodopera, anche se non le risulta che allora parte del lavoro fosse dato a domicilio, ma ci dice che al momento del suo pensionamento il personale ammontava a diciotto persone, da trenta che erano qualche anno prima. Risale a questi giorni (estate 2002) il licenziamento di Barbara, che, vista la crisi e il rischio di un fallimento dell’azienda, ha pensato bene di abbandonare il lavoro per non perdere i diritti economici acquisiti. Accenni di problemi interni alla fabbrica già in precedenza si rilevano da alcune sue osservazioni ( Barbara, anni 38: Sì, è successo l’anno scorso, per un chiodino in una scarpa, hanno rispedito indietro settemila paia di scarpe e le hanno fatte ricontrollare tutte quante: abbiamo passato un sabato e una domenica a ricontrollarle tutte. Su settemila paia di scarpe c’era solo una scarpa con un chiodino, ma a causa della svista di una ragazza che non aveva controllato tutte le scarpe abbiamo passato dei brutti momenti. Per fortuna non abbiamo perso il cliente, ma ci è servito di regola!).

Quasi tutte le nostre intervistate avrebbero voluto fare un altro lavoro, ma non ne hanno avuto la possibilità. Ad Alma sarebbe piaciuto fare la sarta, a Daniela sarebbe piaciuto diventare infermiera in sala operatoria, Teresa avrebbe fatto volentieri la negoziante. Le uniche abbastanza soddisfatte della loro situazione attuale sono Sandra ed Elide, che però avrebbe voluto seguire corsi di avviamento professionale. Barbara, che si è licenziata, ora frequenta un corso per lavorare in ospedale e realizzare finalmente il suo sogno di fare la puericultrice.

Tutte le intervistate sono però contente di aver svolto l’esperienza lavorativa e ritengono che la donna possa così ottenere un suo posto nella società.

Un caso particolare è costituito da Lina, orgogliosa, giustamente, del ruolo leader da lei assunto all’interno dell’azienda; il che conferma quanto si è detto anche a proposito della nascita del settore calzaturiero nel Sandanielese, che l’unione e la collaborazione familiare nel contesto collinare e

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pedemontano è stata la carta vincente per la riuscita delle iniziative economiche.

 

 

1.6  Conclusioni

 

Il settore delle calzature nel Sandanielese, dopo un exploit tra gli anni Sessanta e Settanta, risente della globalizzazione e della crisi che negli anni Ottanta ha colpito tutti i settori industriali della regione, crisi ritardata, per un certo periodo, dagli aiuti regionali post terremoto. Molte aziende si sono riconvertite, dalla confezione semiartigianale di calzature tipiche o stagionali, sono passate a prodotti più rifiniti e di maggior qualità, lavorando per conto terzi (le grandi ditte come Sanagens o Valleverde); qualcuno si è lanciato sul mercato estero dei paesi ex socialisti, con risultati disastrosi, poiché la produzione, una volta confezionata e partita, è stata rimandata indietro, forse con una manovra internazionale che voleva mettere fuori gioco qualsiasi concorrenza. E così è stato. Ora le aziende che producono calzature nella zona sono poco più di una decina, sulla carta. Alcune di esse risultano avere la stessa sede e quindi sono sdoppiamento di un’iniziale stessa azienda. Si avvertono avvisaglie di crisi e forti ridimensionamenti del personale.

Ma c’è chi, in questa difficile congiuntura, è ritornato alle radici e, dopo una battaglia giudiziaria per il riconoscimento del brevetto del nome, ha riscoperto gli antichi scarpets, puntando sulla qualità, sulla firma, sul prodotto prestigioso e di classe. È nata così la linea “Scarpets a porter”: ancora una volta una donna, Deda Meriggi, già titolare della Calzoleria Lombarda di via Canciani a Udine, è stata la prima a credere nelle potenzialità commerciali dell’antica calzatura delle donne carniche; la produzione si diversifica ogni anno, ed è pubblicizzata anche attraverso un sito Internet. Ora gli scarpets sono distribuiti da Samoda, di Lucio Lesa, e in questi giorni sono presenti alla mostra “Il tessile tra arte, moda e tecnologia”, a Torino.

Agli scarpets è stata dedicata da Luigi Maieron anche una poesia, nella raccolta “Oreprisint” edita dalla Comunità Montana della Carnia:

 

 

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I scarpets

 

 

Mans

a cusin

a pontin

un scarpèt

di sere

dopo

la lûs e il lavôr

dopo

i fîs e prime da l’amôr

un par volte

 

par ducj

j domandavi

tros ch’a ‘n veve

fats e dropâts jei

che a ere famèe

femine e mascjo

s’a coventave

“a contâju” mi diseve

"no ti vanzares timp

par durmî”

 

 

I scarpets

Mani/cuciono/confezionano/uno scarpèt/di sera/dopo/la luce e il lavoro/dopo/i figli e prima dell’amore/uno alla volta/per tutti/gli chiedevo/quanti ne avesse/fatti e adoperati lei/che era famiglia/ donna e uomo/se serviva/ “a contarli” mi rispondeva/”non ti resterebbe tempo/per dormire”.

Luigi Maieron

 

Forse una nuova strada si apre davanti alla rivisitazione delle umili calzature carniche, anche se è una strada tutta in salita.[6]

 

 

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Relazione della classe 5 B Erica - ITC “C. Deganutti” di Udine - a.s. 2000/2003

Insegnante Prof.ssa Gianna Buda

 

 

1.  Interviste alle donne di seconda e terza generazione

 

La nostra classe, nel corso del triennio, ha analizzato e approfondito la tematica della posizione della donna friulana nella società contemporanea.

Nelle nostre discussioni, sempre vivaci e talvolta addirittura burrascose, abbiamo affrontato il non facile tema del necessario inserimento della donna nel mondo lavorativo e le conseguenze di questo sul piano familiare e sociale. Come strumento base di conoscenza abbiamo usato le interviste, che abbiamo proposto in tempi diversi a donne di quaranta - cinquanta anni (generalmente le nostre madri), a giovani di venti - trenta (amiche e conoscenti) e in numero minore, con donne di sessanta - settanta (le nostre nonne).

Il primo lavoro, non da poco, è stato quello di stendere una griglia di domande semplici ma sufficientemente ampie da farci comprendere sia le problematiche individuali, sia il rapporto fra le donne e il mondo che le circonda. Pensando all’importanza che avvenimenti della storia friulana hanno avuto sulla vita affettiva, ma anche, e fortemente, su quella economica della nostra regione, abbiamo ritenuto interessante interrogare le donne, che in pratica hanno generalmente in mano il bilancio della gestione familiare, sull’incidenza prodotta dal terremoto sulla vita economica del Friuli. Stranamente poche sono state le risposte approfondite, e abbiamo comunque notato un certo disinteresse e una diffusa disinformazione sui risvolti economici. Un discorso analogo può essere fatto per problemi più ampi come la caduta delle frontiere, che pur incidono molto sulla vita lavorativa ed economica di un paese dalla locazione geografica tanto particolare come il nostro. Possiamo perciò concludere che la vita familiare assorbe completamente l’attenzione della donna, soprattutto se contemporaneamente madre e lavoratrice, e non le lascia molto spazio per percepire in modo ottimale il mondo che le circonda. In questa attività ci siamo confrontati anche con gli allievi delle altre scuole che hanno attuato un’indagine analoga alla nostra. Abbiamo però lasciato una certa autonomia ai singoli intervistatori perché ci siamo resi conto che intervistare non è semplice, soprattutto perché non sempre le persone si sentono a proprio agio nel raccontare le proprie esperienze. Abbiamo riscontrato difficoltà prevalentemente con le donne più anziane e a proposito di argomenti complessi come la situazione friulana durante e dopo il terremoto.

 

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1.1  Il percorso scolastico e formativo

 

È apparso evidente dalla nostra analisi il progressivo aumento della scolarizzazione femminile nell’ultima parte del nostro secolo. Pochissime sono le nonne che hanno superato la soglia delle scuole elementari, più numerose le madri, molte delle quali hanno raggiunto un diploma di scuola superiore. Fra le giovani, invece, rare sono quelle che si sono fermate al diploma triennale, mentre quasi tutte hanno conseguito la maturità. Non risulta invece molto seguita la strada dell’università anche fra le giovani; il diploma di maturità è visto prevalentemente in funzione di un’immediata collocazione nel mondo del lavoro e sembra poco diffusa l’idea della necessità di un’impostazione culturale di base seguita da una laurea o diploma universitario di specializzazione.

Va ribadito comunque che a limitare la tendenza alla scolarizzazione nelle generazioni femminili del passato c’era la relativa facilità di trovare lavoro in fabbrica, o comunque anche di cambiarlo con una certa frequenza. Le donne tuttavia non dimostrano volontà di scegliere lavori importanti o nei quali poter “realizzarsi”. Vedono nell’impegno lavorativo esclusivamente una possibilità di far quadrare il bilancio familiare.

 

 

1.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

Abbiamo rilevato dunque come all’epoca delle nostre madri l’accesso al lavoro sia stato piuttosto semplice e tutto avvenisse attraverso conoscenze o tramite risposte a inserzioni sul giornale. Non si sono notati casi di discriminazione selettiva dipendenti dal sesso. Però va evidenziato che il tipo di lavoro ottenuto è sempre subordinato e mantenuto ai livelli più bassi. Quando si tratta di salari invece si segnalano differenze di retribuzione tra maschi e femmine nel settore privato. (Catherine, anni 41: Con i colleghi no, ma con i superiori ho avuto dei piccoli contrasti perché loro non sempre ti considerano come gli uomini, ti sottovalutano. Ad esempio nel mio primo lavoro ho avuto delle divergenze con un mio superiore per avere un livello superiore di qualifica, come il mio collega maschio). Molte fra le madri lavoratrici hanno optato però per la funzione casalinga dopo la nascita del primo figlio o soprattutto del secondo. Quelle fra di loro che hanno pensato di potersi concedere una pausa lavorativa, per poi riprendere una volta cresciuti i figli, si sono però trovate spiazzate. La velocissima evoluzione tecnologica e le nuove difficoltà del mercato hanno di fatto impedito un reinserimento. (Luciana, anni 50: Le cose erano cambiate di molto, si faceva attenzione a scegliere ragazze giovani senza problemi di figli, esperte di computer, capaci di parlare più lingue, il tutto agevolato dal potere

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di assumere con un contratto formativo che era conveniente al datore di lavoro oppure con i contratti a tempo determinato che favoriscono la possibilità ai giovani di lavorare, i quali non hanno il peso di una famiglia da mantenere e quindi possono essere più mobili, ma penalizzano chi, invece, vorrebbe riacquistare un lavoro e una fonte di reddito). Quindi moltissime donne sono rimaste in pratica tagliate fuori dal mondo lavorativo.

Le nuove generazioni hanno ovviamente maggiore difficoltà nell’accesso al lavoro anche per la più diffusa scolarizzazione. I metodi di assunzione non sono molto cambiati: conoscenze, inserzione sul giornale, invio di curriculum.

Si nota tuttavia anche nelle giovani una tendenza ad “accontentarsi” ad accettare qualsiasi lavoro, anche non corrispondente alle proprie aspirazioni, o al proprio livello di preparazione, nella speranza di un cambiamento futuro. Poi nella gran parte prevale l’adattamento e la sicurezza determinata dal lavoro fisso e stabile, anche se non di grande soddisfazione.

 

 

1.3  La gestione della famiglia

 

Ma la grande difficoltà delle donne rimane la famiglia. Per molte delle madri intervistate non si è neppure posto il problema della scelta lavorativa; hanno preferito dedicarsi da subito alla casa e alla famiglia. (Stefania, anni 30: Sono stata cuoca presso un centro turistico per due anni per poi diventare anche chef. Il contratto che avevo firmato era a tempo indeterminato. Era un lavoro molto bello ma purtroppo troppo impegnativo per una donna che vuole formarsi una famiglia ed è per questo che sono stata costretta ad abbandonare, ma non lo rimpiango in quanto la mia bambina è splendida). Per quelle che hanno optato per il lavoro i problemi sono incominciati con la nascita dei figli, non tanto con il primo, grazie all’aiuto di nonni o parenti, ma soprattutto con il secondo o con il terzo. Per quanto abbiamo potuto notare poche sono state quelle in grado di continuare la loro attività, generalmente hanno preferito, dov’era possibile finanziariamente, rientrare in famiglia. Le interviste alle giovani generazioni ci hanno fatto incontrare donne non ancora alle prese con questi problemi (l’età della maternità si è di gran lunga posticipata) ma già ben consapevoli delle difficoltà da affrontare.

È evidente per alcune che certe attività di quaranta o più ore, non pesanti fino a quando non ci sono figli, non possono essere svolte quando si attua la scelta di allargare la famiglia. “Importante sarebbe cambiare la mentalità degli uomini” affermano alcune delle intervistate, ma in realtà abbiamo notato che i giovani d’oggi tendono a dividersi in maniera più equa le incombenze familiari. Le risposte che abbiamo analizzato danno ormai per scontato che anche i

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maschi collaborino all’ organizzazione e alla gestione familiare, quindi, almeno all’interno della famiglia, le donne dimostrano di aver raggiunto una posizione di quasi parità.

Diverso rimane invece ancora il rapporto con il mondo circostante, le istituzioni, gli eventi internazionali, la politica e l’economia.

Quando abbiamo interrogato le mamme su fenomeni quali le connessioni fra economia e terremoto o le problematiche aperte dalla caduta del muro di Berlino, abbiamo notato un rifiuto quasi generazionale a preoccuparsi di argomenti non strettamente riguardanti l’ambito del proprio nucleo familiare, che sembra quasi da tutelarsi da tutto quello che è esterno. Altrettanto appare quando le domande cercano di far luce su un possibile coinvolgimento politico o sindacale. La maggioranza delle intervistate nega con enfasi e convinzione qualsiasi possibile rapporto con l’esterno, quasi a considerarlo una perdita di tempo o comunque un furto per l’economia della propria famiglia.

Anche le giovani, pur apparentemente più informate su quanto avvenuto in epoche nelle quali magari non erano ancora nate (come il terremoto del 1976) non sembrano mostrare interesse per la vita sociale: famiglia e lavoro sono tutto il loro mondo, ed è già molto.

 

 

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Relazione delle classi 3 – 4 B Igea - ITC “L. Einaudi” di Palmanova - a.s. 2001/2003

Insegnante Prof.ssa Paola Venturini

 

 

Donna

Dire donna,

danno, demonio,

dominio

del desiderio.

Dire donna,

dedizione,

dolcezza,

diafana docilità.

Dialettica

della duplicità,

 

Dioscuri del

doppio discorso,

dramma della

divergenza.

Dorato dono

degli dei,

donna del dubbio,

dolorosamente

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divisa.

 

di Gabriella Burba , 1997

 

 

1.  Interviste alle donne di terza generazione

 

Le interviste svolte dagli allievi di 3B Igea dell’ITC “L. Einaudi” di Palmanova, durante l’anno 2000 - 2001, hanno evidenziato alcune scelte di vita lavorativa delle donne in quest’ultimo ventennio di secolo. Si nota in primo luogo che le donne con bassa scolarizzazione hanno preferito lasciare l’attività extra-domestica, per seguire la famiglia, mentre le donne con un grado di istruzione superiore hanno continuato l’attività lavorativa nonostante le incombenze familiari e dalle interviste rilasciate da due ex studentesse diplomatesi nell’anno scolastico 1998 - 1999, si ricava il desiderio di poter coniugare in futuro le attività lavorative con gli impegni domestici.

A un’analisi più approfondita si rileva che nel decennio 1980 - 1990 su undici donne intervistate, che allora avevano dai venti ai trent’anni, quattro lavoravano e sette svolgevano l’attività di casalinga: infatti ben nove delle undici donne intervistate erano sposate e avevano già figli, solo una delle undici intervistate era in possesso di un diploma di scuola superiore.

Negli anni 1990 - 1999 le donne da noi intervistate che in quel periodo avevano dai venti ai trent’anni sono otto; di queste una sola possiede un titolo d’istruzione superiore, sette sono coniugate e due sole lavorano nel settore terziario, mentre le altre sei sono casalinghe.

Nell’anno 2000 le donne dai venti ai trent’anni sono cinque, di cui tre frequentano l’università, una sola è sposata con un figlio, una donna è occupata nel settore terziario e una svolge l’attività di casalinga.

Riportiamo un esempio di evoluzione individuale di una di queste donne nella progressione del tempo.

 

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Anno

Età

Stato civile

Titolo di studio

Occupazione

Altre attività

1980

22

nubile

diploma di abilitazione magistrale

studente di pedagogia; lavoratore precario nella scuola

impegno in associazioni culturali e di volontariato

1990

32

coniugata con figli

laurea in pedagogia

insegnante di scuola superiore

impegno sociale e in associazioni culturali e di volontariato

2000

 42

coniugata con figli

laurea in pedagogia

insegnante di scuola superiore

impegno sociale e in associazioni culturali e di volontariato

 

Le interviste svolte dalla 4 B Igea, durante l’anno scolastico 2001 - 2002, non sono molte, ma sono significative. Riguardano cinque persone delle quali ci è parso utile presentare una tabella riassuntiva che, omettendo i loro nomi, ne fotografa le caratteristiche del grado di scolarizzazione raggiunto e del conseguente inserimento nel mondo del lavoro.

 

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Anno di nascita

1940

1947

1928

1927

1924

Diploma

 

5° elementare

5° elementare

5° elementare

4° elementare

5° elementare

Lavoro

in fabbrica 1965

commessa in un negozio di liquori 1973

 

baby sitter 1960

operaia in una filanda

sarta in una fabbrica

addetta a pascolare oche

Lavoro dopo il matrimonio

commessa, poi dopo la nascita del secondo figlio, casalinga.

 

ha smesso di lavorare, trasferita in Friuli dal Veneto nel 1955

casalinga

no

Pensione

no

si, minima

no

no

 

Le intervistate ricordano spesso momenti difficili, dovuti alle precarie condizioni economiche del primo e del secondo dopo guerra, il secondo conflitto mondiale e quindi la ripresa economica degli anni sessanta.

In base ai loro ricordi e alle ricerche e agli studi effettuati durante l’anno, siamo in grado di ricostruire, anche se in modo sommario, alcune delle fasi che hanno caratterizzato la nostra storia locale. Andando a ritroso nel tempo, possiamo ricordare la legislazione fascista che si costruisce esplicitamente sulla

77

disuguaglianza fra i sessi, sulla subordinazione della donna all’uomo, limitando, in generale, la presenza delle donne negli impieghi pubblici e riducendo al tempo stesso i loro salari. Ma, nonostante un’ideologia dichiaratamente contraria all’emancipazione e all’autonomia femminile, c’è un elemento di modernizzazione: infatti a partire dal 1927 vengono dimezzati per decreto i salari femminili e c’è una pressione per escludere le donne dal mondo del lavoro qualificato, ma proprio il basso costo del lavoro femminile fa aumentare l’occupazione delle donne e, quindi, la loro presenza fuori casa.

Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Quello stesso regime che aveva cercato di relegare le donne fra le pareti domestiche, adesso approva un disegno di legge per consentire la sostituzione del personale maschile con quello femminile nell’amministrazione pubblica. Moltissime cominciano a lavorare, spesso per la prima volta e con il salario arriva anche il “ diritto” per la donna di uscire da sola.

D’altra parte, con due milioni di richiamati alle armi, sempre più spesso le donne devono assumersi la responsabilità del capofamiglia. Come nella Prima Guerra Mondiale quando c’era stato il grande contributo offerto dalle portatrici carniche, che si erano ritrovate nelle trincee, in prima linea, assieme ai soldati a combattere un drammatico conflitto, anche questa volta la donna partecipa direttamente alle azioni militari della resistenza e alle semplici, ma pericolose , attività di sostegno ai vari gruppi partigiani, visto e considerato che il Reich il 1 ottobre 1943 istituiva l’Adriatisches Kustenland col quale annetteva le province di Lubiana, Trieste, Gorizia, Udine e Fiume alla Germania e vi imponeva il governatore F. Reiner.

Al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica i dati nazionali parlano di una partecipazione femminile dell’89%, quasi identica a quella degli uomini. Ben diverso è stato da subito lo spazio della rappresentanza femminile. All’Assemblea Costituente viene candidato il 7% di donne e se ne elegge circa la metà, 21 su 556 membri. Alle elezioni politiche del 1948 le parlamentari sono in tutto 49 cioè il 4,6%.

 

 

1.1  Donne di oggi impegnate nella cultura, nelle istituzioni e nell’ imprenditoria

 

Il lavoro, a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, subisce a livello nazionale cambiamenti positivi straordinari. Anche nella Bassa friulana vi è un notevole impulso economico, difatti sale l’occupazione femminile in modo considerevole, ma è la qualità stessa del lavoro che cambia. La possibilità di occuparsi cresce proporzionalmente al titolo di studio e raggiunge il massimo livello fra le laureate. In tutto questo periodo l’occupazione si concentra nel terziario. Comincia a lavorare un esercito di commesse e di impiegate di banca, ma anche di addette alla pubblica amministrazione, agli enti locali, alle USL,

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ai nuovi servizi sociali.

La classe 5B Igea in quest’ultimo anno scolastico ha intervistato quattro donne che ricoprono ruoli importanti nelle istituzioni, nella cultura e nell’ambito economico.

È stata intervistata la professoressa Maria Fanin, rappresentante del mondo culturale, che vive a San Giorgio di Nogaro. Nel 1961 aderisce alla “Scuele libare furlane”: fa parte de “La Cjarànde” dal 1966. Ha pubblicato testi in Friulano, nelle varietà della Val Pesarina e della Bassa. È presente con poesie, racconti, traduzioni in riviste e numeri unici di associazioni culturali, sempre in lingua friulana; racconta favole, che, secondo lei, sono la veste più adatta per esprimere anche le cose più difficili e terribili.

Sono state intervistate come rappresentanti delle istituzioni le due donne che guidano il comune di Porpetto: il Sindaco Cecilia Schiff e il segretario comunale Francesca Finco.

La professoressa Schiff dal 1999 ricopre la carica di primo sindaco donna del comune di Porpetto, eletta direttamente dai cittadini, secondo la nuova riforma. La campagna elettorale è iniziata non molto tempo prima, verso il Natale dell’anno precedente, risultando caratterizzata da un programma sostanzioso ma realizzabile, che ha puntato soprattutto sul rispetto della persona.

La dottoressa Finco, in quello stesso periodo, aveva inviato il suo curriculum in quei comuni in cui c’era un posto vacante e venne scelta dal Sindaco Schiff di Porpetto. Il suo mandato terminerà nel 2004 quando verrà eletto il nuovo sindaco. Il segretario, al giorno d’oggi, si trova al vertice amministrativo e coordina l’intera attività del comune; funge inoltre da tramite tra gli Uffici, la Giunta e il Sindaco. La dottoressa Finco ha voluto sottolineare che negli ultimi dieci anni si è trovata più volte nelle condizioni di dover scegliere nuovi percorsi lavorativi, pertanto, vista la sua personale esperienza, reputa positivamente la mobilità che l’ha arricchita professionalmente.

Infine gli allievi della 5B Igea hanno intervistato la dottoressa Rosa Ricciardi, che oggi ricopre il ruolo di dottore commercialista revisore dei conti degli Enti Locali, la quale ha illustrato le varie scelte lavorative da lei compiute: da dipendente di azienda e poi di banca a docente nella scuola pubblica per giungere infine al lavoro autonomo di commercialista con l’attuale specializzazione di revisore. La dottoressa ha evidenziato la necessità di possedere un bagaglio di conoscenze che permetta la futura flessibilità lavorativa.

 

 

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Relazione della classe 5 A - ITC “M. Gortani” di Tolmezzo - a.s. 2002/2003

Insegnante Prof.ssa Filomena Terrone

 

 

1.  Premessa

 

La classe 5 A dell’ITC “M. Gortani” di Tolmezzo, seguendo il progetto coordinato dall’ITC “A. Zanon” di Udine, ha lavorato per riassumere l’influenza che la donna ha e ha avuto nell’economia della Carnia. Attraverso l’analisi della scolarizzazione e dell’occupazione, con l’aiuto di grafici, fotografie e interviste sia alle mamme e nonne sia a donne carniche resesi particolarmente  importanti e riconosciute anche a livello internazionale, sebbene abbiano operato in un ambiente apparentemente non ricco di risorse, abbiamo potuto ricostruire un piccolo spaccato dell’evoluzione sociale ed economica del nostro territorio.

 

 

1.1  Il percorso scolastico e formativo

 

Riportiamo di seguito una tabella riassuntiva che si riferisce alla scolarizzazione femminile nell’area della Carnia, con dati risalenti al censimento del 1991, che ci sono stati forniti dalla Camera di Commercio di Udine.

 

Titolo di studio

N. assoluti

%

Laurea

286

1

Diploma

3.040

14

Licenza Media

5.281

25

Licenza Elementare

10.091

49

Senza di titolo di studio

2.413

1

Totale

21.111

100

80

         (Fonte: Istat )

 

Dall’analisi risulta che in Carnia su un totale di 21.111 donne solo 286 (circa l’1%) ha conseguito la laurea. Oggettivamente una bassa percentuale, dovuta soprattutto a mancanza di disponibilità economiche, difficoltà logistiche e di sistemazione e non si può sottovalutare la tradizione che ha privilegiato l’uomo rispetto alla donna anche nello studio. Ciò si riscontra nell’alta percentuale che vede ben il 49% delle donne con il solo titolo di licenza elementare e l’11% privo di titolo di studio.

Quest’ultimo decennio registra un progressivo livello di istruzione nella popolazione femminile della Carnia. Infatti dai dati statistici, tratti sia dalle nostre interviste sia dai dati parziali dell’ultimo censimento, rileviamo una netta evoluzione nel conseguimento di livelli scolastici più elevati, nel sensibile aumento delle lauree e nel forte incremento dei diplomi di scuola media superiore, dovuto quest’ultimo anche all’innalzamento dell’obbligo scolastico.

Il maggiore e migliore livello di istruzione ha portato di pari passo a un miglioramento dell’occupazione, soprattutto nel terziario.

 

 

1.2  L’accesso al mondo del lavoro

 

Sempre dall’analisi dei dati del censimento del 1991 riguardante l’occupazione femminile in Carnia, a un primo sommario esame, si possono notare gli altissimi numeri delle donne che trovano difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro rispetto a chi ha già un’occupazione. La tabella riporta sia i numeri assoluti che le percentuali.

 

Popolazione femminile

81

 

attiva

non attiva

 

assoluti

%

 

assoluti

%

Occupate

4.992

83,40

Casalinghe

7.148

44,35

Disoccupate

546

9,12

Studentesse

1.436

8,91

In cerca di lavoro

448

7,48

Ritirate dal lavoro

3.932

24,40

 

 

 

Altre

3.600

22,34

Totale

5.986

100

Totale

16.116

100

 

Tra la popolazione non attiva (la maggior parte delle donne fa la casalinga) troviamo una percentuale abbastanza consistente di donne che si sono ritirate dal lavoro, mentre la parte restante è rappresentata da studentesse. Tra la popolazione attiva quasi l’84% delle donne svolge un’attività professionale, mentre il 7% è in cerca di lavoro; la restante percentuale è rappresentata da donne disoccupate.

Analizziamo ora, sempre con l’aiuto dei dati forniti dal censimento, espressi in valori numerici assoluti, la distribuzione delle occupate nei tradizionali settori lavorativi.

 

Settore primario

 

Settore secondario

 

Settore terziario

 

Agricoltura

181

Attività manifatturiera

1.235

Commercio

829

Pesca

2

Energia

9

Alberghi

844

Estrazioni minerali

0

Costruzioni

79

Trasporti

123

 

 

 

 

Intermediazione monetaria

120

 

 

 

 

Affari Immobiliari

278

 

 

 

 

Pubblica Amministrazione

276

 

 

 

 

Istruzione

665

 

 

 

 

Sanità

598

 

 

 

 

Servizi pubblici e domestici

408

82

 

A differenza del passato le donne che lavorano nel settore primario sono decisamente in calo, infatti sempre più spesso abbandonano quest’attività produttiva e perlopiù manuale per dedicarsi ad altre attività emergenti, in particolare nel settore terziario. Il settore secondario conta ancora un numero di addette elevato, ma sempre  minore rispetto al terziario. Il terziario offre circa il 54% dei posti di lavoro alle donne occupate, ed è in costante e ottima crescita.

Soffermandoci sul settore terziario possiamo notare come l’occupazione nell’impiego pubblico e nell’impiego privato si attesti su numeri simili, anche se permane una supremazia delle donne impiegate nel settore privato, in particolare nel settore commerciale e alberghiero.

Quindi a differenza del passato, quando la donna si caratterizzava quasi esclusivamente come casalinga, oggi possiamo di buon grado riconoscerle i diversi ruoli che ricopre nell’economia carnica.

 

83
84

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendice

85

La programmazione didattica

 

1.  Premessa

 

Uno degli aspetti più interessanti della collaborazione tra gli istituti scolastici che hanno partecipato al progetto è stata l’elaborazione comune della programmazione didattica. L’istituto tecnico commerciale “A. Zanon”, capofila del polo di storia, ha coordinato l’attività a cui hanno collaborato gli istituti tecnici commerciali “C. Deganutti” di Udine, “L. Einaudi” di Palmanova, “V. Manzini” di San Daniele, “M. Gortani” di Tolmezzo; a essi si sono aggregate la scuola media “Via Petrarca” e la elementare “IV Novembre” di Udine.

La programmazione didattica è stata articolata in tre anni scolastici con il coinvolgimento, là dove è stato possibile, della stessa classe nella sua evoluzione da terza a quinta superiore, in modo da far raggiungere gli obiettivi stabiliti agli studenti partecipanti.

Nelle condizioni ottimali (continuità didattica, monte ore previsto per la disciplina di storia in base al curricolo), il lavoro ha comportato un utilizzo di 30 ore per classe per anno scolastico; in altre situazioni il tempo è stato inferiore. La programmazione ha previsto una scansione in unità di lavoro, che possono essere distinte in curricolare e di laboratorio di storia, con l’apporto di altre discipline: geografia, italiano, statistica, economia, diritto, linguaggio iconografico. La programmazione,  articolata in maniera progressiva, comprende: finalità, una tassonomia di obiettivi, metodologia, fasi dell’attività, tempi, tematiche e contenuti, strumenti di verifica e valutazione.

 

 

1.1  Finalità del lavoro

 

·           far conoscere il fenomeno socio-economico, all’interno di un’area di analisi definita

·           far acquisire la consapevolezza che l’economia di un territorio è frutto anche degli apporti “visibili” e “invisibili” delle donne

·           attribuire valore alla scolarità

·           attribuire valore agli apporti delle donne a sostegno dell’economia familiare e sociale

86

·           attribuire valore all’incidenza, soprattutto per le donne, del lavoro nelle relazioni familiari

·           rivedere modelli e stereotipi relativi alle capacità intellettuali e professionali delle donne

·           rivedere modelli e stereotipi riguardo al ruolo culturale e sociale delle donne

·           elaborare una propria Weltanschaung

 

 

1.2  Obiettivi

 

 

1.2.1  Conoscere:

 

·           individuare le linee generali della storia locale, nazionale e internazionale dell’età contemporanea, a livello sociale, economico e politico dall’oggi al primo dopoguerra

·           rilevare figure femminili “peculiari” della realtà friulana di ieri e di oggi, al di là delle proprie conoscenze personali

·           individuare settori economici e  attività a prevalente presenza di genere

·           riconoscere l’evoluzione sul piano legislativo delle tappe fondamentali che hanno favorito l’inserimento delle donne nella società

 

 

1.2.2  Comprendere:

 

·           mettere in relazione l’evoluzione temporale di fatti, fenomeni, processi che riguardano il ruolo femminile

·           analizzare le motivazioni del ritardo, delle difficoltà, dei pregiudizi riguardo alla parità di diritti uomo/donna

87

·           confrontare una serie di fatti a livello locale, nazionale e internazionale che hanno visto le donne impegnate direttamente nei fenomeni economici, sociali e politici

 

 

1.2.3  Applicare:

 

·           progettare un itinerario di ricerca, definendo ipotesi, percorso, metodologie di lavoro e verifica

·           orientarsi sul territorio per identificare i luoghi istituzionali e non in cui rintracciare le fonti che interessano

·           acquisire le metodologie dell’indagine storiografica e delle discipline connesse, con utilizzo di fonti “alternative”, ufficiali e istituzionali

·           produrre e condurre un’intervista, un questionario, un’indagine e raccogliere i dati emersi

·           tracciare un profilo biografico

·           effettuare analisi e confronti tra i vari settori di attività, caratterizzati dalla presenza femminile nell’evoluzione temporale, con particolare attenzione alle nuove professioni

·           eseguire grafici, tabelle, relazioni orali e scritte, supportate da documenti, su quanto raccolto ad analizzato

·           socializzare i risultati del proprio lavoro in situazioni formali e informali

 

 

1.2.4  Rielaborare e valutare:

 

·           analizzare, confrontare, valutare fonti, dati, materiali di lavoro

·           individuare cause ed effetti, concatenazioni e interazioni tra i fenomeni a partire dai dati

·           costruire e confrontare modelli, traendo le opportune conclusioni

88

·           confrontare, evidenziandole, le diverse chiavi di lettura fatte da studenti e da studentesse, acquisendo consapevolezza della pluralità dei punti di vista

·           valutare criticamente le fasi della ricerca

·           individuare se esiste una specificità friulana nella mentalità comune riguardo alle stratificazioni sociali

·           valutare l’evoluzione delle professioni a cui hanno avuto progressivamente accesso le donne

·           valutare  che non esiste una Storia, ma diverse tipologie di approccio alla disciplina (istituzionale, diplomatica, della vita quotidiana, di genere, a medio e a lungo termine)

 

 

1.3  Indicazioni metodologiche

 

·           ricerca di genere trasformativa

·           indagine a ritroso nel tempo mediante la storia istituzionale e le altre storie (delle mentalità, delle classi subalterne, locale, di lungo/breve periodo)

·           utilizzo di fonti alternative accanto a quelle istituzionali

·           tecnica dell’intervista come storia di vita condotta dagli studenti su canovaccio predisposto verso donne di tre diverse generazioni

·           tabulazione e discussione sui dati raccolti

·           confronto tra dati istituzionali e ufficiali e dati raccolti

·           valorizzazione del racconto di vita come spiegazione dei fenomeni indicati dai dati ufficiali

·           valorizzazione del racconto di vita come indicazione degli effetti dei fatti e degli avvenimenti storici sulla vita delle persone

 

 

1.4  Tematiche affrontate

89

 

·           concetti base di storia, memoria, identità e genere

·           i saperi e i contributi  visibili e invisibili delle donne e loro trasformazione (percorso diacronico e sincronico)

·           la scolarità femminile; rilevazione di tendenze dei modelli scolastici, professionali, sociali

·           visibilità del lavoro delle donne e ricostruzione delle loro carriere

·           quantificazione economica reale delle attività femminili in rapporto al valore sociale

·           attenzione alle trasformazioni delle attività femminili nel breve e nel lungo periodo

·           attenzione alle trasformazioni avvenute in ambito familiare

·           biografie di donne significative, incontrate durante il percorso

 

 

1.5  Fasi dell’attività e contenuti

 

·           lezioni frontali propedeutiche sulla Storia di genere, e sul reperimento e l’analisi delle fonti tradizionali e alternative

·           lezioni frontali propedeutiche sull’epistemologia dell’intervista come racconto di vita e sul suo utilizzo a fini storici

·           lavori di gruppo di raccolta dei dati  a livello istituzionale

·           lezioni interattive di individuazione e analisi delle fonti alternative (lettere, foto, diari, documenti scolastici, documenti di lavoro)

·           lavoro individuale di effettuazione delle interviste

·           lavori di gruppo di elaborazione di materiali che scandiscono i vari passaggi dell’attività: produzione di cartelloni, tesine, mappe concettuali, relazioni

·           comunicazione dei risultati attraverso mostre di cartelloni, di fotografie e con relazioni orali individuali

90

·           produzione di un ipertesto e pubblicazione in volume della ricerca

 

 

1.6  Strumenti di verifica e valutazione

 

La fase di verifica e valutazione, oltre a costituire una tradizionale modalità di intervento del lavoro degli insegnanti, è stata pensata anche come uno strumento per l’acquisizione di una crescente presa di coscienza degli studenti. L’attività di verifica è  distinta in:

·           iniziale, collettiva, dei prerequisiti e delle aspettative sul lavoro da svolgere

·           intermedia, individuale in fase di controllo del lavoro dei singoli

·           intermedia, di controllo del lavoro dei  gruppi

·           finale, collettiva, sui risultati generali

 

Per la valutazione sono stati considerati i seguenti elementi:

·           produzione di relazioni scritte individuali e di gruppo

·           trasposizione di testi orali in testi scritti e loro adattamento linguistico

·           analisi di fonti statistiche e iconografiche

·           uso di strumenti di editazione e di comunicazione elettronica

·           apporto personale nei lavori di gruppo

 

1.7  Tempi e strumenti

 

Quanto ai tempi di realizzazione dell’attività e agli strumenti utilizzati durante il lavoro si veda come esempio il modello di scheda di programmazione:

91

 

Unità di lavoro

Tipo

Contenuti

Strumenti

Metodi

Verifica intermedia individuale

Verifica intermedia di gruppo

Tempi

Italiano:

l’intervista.

Educazione linguistica.

prerequisiti:

prendere appunti;

trascrizione di un testo orale in forma scritta: sintetizzare, ampliare un testo orale;

la relazione;

il questionario;

l’intervista.

esame di modelli;

registrazione di esperienze.

problem posing;

lezione frontale;

lavoro di gruppo.

correzione esercizi ed elaborati;

relazione orale.

relazione scritta circostanziata; brevi relazioni orali sullo svolgimento delle varie fasi del lavoro di gruppo.

in classe (5 ore):

1 ora presentazione lavoro;

4 lezione;

per casa:

2 ore intervista;

3 ore rielaborazione.

Storia:

il ruolo della donna nell’artigianato calzaturiero tipico locale.

metodologia della ricerca.

prerequisiti:

concetti;

cronologie.

 

prodotto finale:

relazioni scritte;

cartelloni per una mostra.

testo di storia;

consultazione bibliografie;

mappe cronologiche e tematiche.

lettura funzionale;

lezione frontale;

lavoro di gruppo;

presa e integrazione di appunti.

relazioni scritte sugli approfondimenti bibliografici.

brevi relazioni orali sullo svolgimento delle varie fasi del lavoro di gruppo;

resoconti finali.

in classe (8 ore):

1 ora lezione frontale;

5 ore relazioni di gruppo;

2 ore valutazione relazione finale;

per casa:

3 ore per la stesura del prodotto finale.

Geografia economica:

l’economia friulana e Sandanielese nel secondo dopoguerra.

tematico:

l’artigianato calzaturiero nel Sandanielese.

prerequisiti:

concetti;

prendere appunti.

 

prodotto finale:

relazioni scritte.

fotocopie;

consultazione bibliografie.

lettura funzionale;

lezione frontale;

lavoro di gruppo;

presa e integrazione di appunti.

relazioni scritte sugli approfondimenti bibliografici.

brevi relazioni orali sullo svolgimento delle varie fasi del lavoro di gruppo;

resoconti finali.

in classe (8 ore):

1 ora lezione frontale;

5 ore relazioni di gruppo;

2 ore valutazione relazione finale;

per casa:

3 ore per la stesura del prodotto finale.

92

1.8  Materiali e strumenti di indagine

 

Si riportano a titolo esemplificativo la scheda informativa per la raccolta dei dati personali, le domande da porre alle intervistate e la traccia per la stesura di una relazione.

 

 

Scheda informativa

 

Nome o pseudonimo

Luogo di residenza

Data di nascita

Fascia di età

 

 

 

£   20

£   40

£   60

anni

1980

1990

2000

Stato civile

£   Nubile

£   Coniugata

£   Separata

£   Divorziata

£   Vedova

£   Nubile

£   Coniugata

£   Separata

£   Divorziata

£   Vedova

£   Nubile

£   Coniugata

£   Separata

£   Divorziata

£   Vedova

Composizione nucleo familiare

 

 

 

Titolo di studio

£   Laurea

£   Diploma 5 anni

£   Diploma 3 anni

£   Licenza media

£   Licenza elementare

£   Senza titolo

£   Laurea

£   Diploma 5 anni

£   Diploma 3 anni

£   Licenza media

£   Licenza elementare

£   Senza titolo

£   Laurea

£   Diploma 5 anni

£   Diploma 3 anni

£   Licenza media

£   Licenza elementare

£   Senza titolo

Settore di occupazione

£   Pubblico

£   Privato

£   Autonomo

£   Lavoro casalingo

£   Lavoro a domicilio

£   Pubblico

£   Privato

£   Autonomo

£   Lavoro casalingo

£   Lavoro a domicilio

£   Pubblico

£   Privato

£   Autonomo

£   Lavoro casalingo

£   Lavoro a domicilio

Altro (volontariato, vita politico-sindacale, ecc)

 

 

 

93

Domande per un’intervista a una donna di prima generazione

 

·           Mi puoi parlare del tuo percorso scolastico?

·           Com’era formata la classe?

·           Fino a quale classe andavano a scuola le bambine? E i bambini?

·           Era ritenuta importante la scuola per una bambina?

·           Si sono verificate discriminazioni in famiglia tra figli in ambito scolastico?

·           Com’era impartito l’insegnamento? Quali erano le materie?

·           Qual era il rapporto scuola famiglia?

·           A che età hai concluso la scuola e per quali motivi?

·           Qual era la composizione del nucleo familiare e quali le condizioni economiche?

·           Quali erano le tue ambizioni?

·           A quanti anni hai iniziato a lavorare?

·           Era quello a cui aspiravi?

·           Quali erano gli orari lavorativi e il salario?

·           Mi descriveresti una giornata di lavoro?

·           Essere donna ti ha creato problemi?

·           Qual era la posizione della donna nel mercato del lavoro?

·           Com’era fondata l’economia della famiglia?

·           Com’era il lavoro?

·           Mi puoi dire qualcosa sulla condizione della donna durante il fascismo?

94

·           Com’era la vita durante la seconda guerra mondiale?

·           Quando è avvenuto il matrimonio? Dove?

·           Mi descriveresti la tua vita dopo il matrimonio?

·           Avevi un ruolo importante nella famiglia?

 

Traccia per la relazione

 

·           Quantificazione dati della scheda informativa: residenza, stato civile, composizione nucleo familiare, titolo di studio, settore di occupazione, altro (volontariato, vita politico-sindacale, ecc.)

·           Percorso scolastico: lineare o  con interruzioni?

·           Scelta del titolo di studio: libera o condizionata? Il titolo di studio è stato utile per il lavoro? Finalizzato all’attività?

·           Accesso al lavoro: come è avvenuto? Con facilità?

·           Quali problemi ha dovuto affrontare chi lavorava o cercava lavoro?

·           Influenza sull’economia friulana del terremoto del 1976, della caduta delle frontiere dopo il 1989

·           Caratteristiche del lavoro, dell’ambiente di lavoro, del contratto di lavoro

·           Rapporto con il titolo di studio dei mariti

·           Posizione della donna nel mercato del lavoro. Retribuzione in relazione al PIL di riferimento

·           L’essere donna ha causato discriminazioni?

·           Gestione della famiglia: uso della legislazione sulla maternità? Abbandono del lavoro?

·           Presenza dei figli: ruolo che hanno avuto nell’organizzazione familiare

·           Partecipazione alla vita pubblica (sindacati, partiti, organi collegiali, ecc.)

95

Tavola sinottica degli eventi relativi anche alle donne

(In corsivo i fatti relativi alle donne)

 

FRIULI

ITALIA

EUROPA

MONDO

 

1918

 

Ondata di scioperi; aumenta il debito pubblico.

11 novembre

Austria e Germania firmano l’armistizio sancendo la fine del conflitto.

 

12 novembre

Si costituisce la repubblica di Weimar in Austria e Germania.

 

In Germania le donne ottengono la piena parità con gli uomini nel voto politico.

 

Il presidente americano Wilson espone i Quattordici punti contenuti nella carta istitutiva della Società delle Nazioni.

 

3 marzo

Il governo Sovietico firma il Trattato di Brest – Litowsk.

1919

 

Decadenza del liberalismo italiano manifestata alle elezioni (sistema proporzionale).

 

Mussolini organizza la prima struttura dei fasci di combattimento.

Don Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare Italiano.

 

E’ abolita l’autorizzazione maritale sul lavoro.

Papa Benedetto XV si pronuncia a favore dell’estensione del diritto di voto alle donne.

 

Gennaio - giugno

Conferenza di Pace a Versailles .

 

In Francia e Inghilterra viene adottato il Gold bullion standard cioè la convertibilità della Sterlina in oro.

Trattati dopo la Prima Guerra Mondiale.

1920

 

 

Hitler fonda a Monaco il Partito nazional socialista operaio tedesco.

 

Anni 20 - 30

In India Gandhi predica la non violenza.

Il Giappone sviluppa la sua Industria Pesante e la cantieristica navale.

USA: le donne ottengono a livello federale la piena parità con gli uomini nel voto politico.

 

1921

 

Viene fondato il Partito comunista d’Italia.

 

Marzo

Abbandono in Russia del comunismo di guerra e avvio della NEP (nuova politica economica) voluta da Lenin.

 

1922

 

28 ottobre

Marcia su Roma.

 

Si tiene a Roma il primo convegno delle donne aderenti al -partito comunista d’Italia.

In URSS Lenin stabilisce che la giornata internazionale delle donne sia una festività comunista.

Dicembre

Nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

 

Il Presidente americano Wilson espone i quattordici punti per la costruzione di pace post bellica. La crisi colpisce particolarmente Usa e America Latina.

 

1923

 

Divieto alle donne all’insegnamento di materie ritenute importanti (latino, filosofia).

 

Fallito colpo di Stato del Partito Nazional Socialista tedesco.

 

1924

Fiume passa all’Italia.

Delitto Matteotti.

Proclamazione della Repubblica in Grecia.

Haya de la Torre fonda l’Apra con l’obiettivo di unire tutte le forze anti-imperialiste del continente sudamericano.

 

1925

 

Le leggi fascistissime trasformano lo stato liberale in dittatura.

 

Accordo tra sindacati fascisti e Confindustria.

 

Creazione dell’Opera nazionale maternità e infanzia .

 

 

È adottato il Gold exchange standard. Le monete nazionali sono convertibili in Dollari o Sterline a loro volta convertibili in oro.

1926

 

Rivalutazione della lira.

Prima battaglia del grano.

Nelle zone mussulmane in Russia, le donne che non portavano il velo vengono stuprate e assassinate.

Fidel Castro riesce a unificare la tendenza anti-coloniale di ispirazione democratico-nazionalista con quella proletaria.

 

1927

 

Viene istituito il Tribunale speciale.

 

 

 

1928

 

 

In Gran Bretagna le donne ottengono la piena parità con gli uomini nel voto politico.

 

L’Unione Sovietica diventa la terza potenza industriale del Mondo.

1929

 

11 febbraio

Mussolini e il cardinale P. Gasparri firmano i Patti Lateranensi.

 

24 ottobre

Crollo della borsa di Wall Street a causa di una crisi di sovrapproduzione, successiva recessione dell’economia.

 

Le donne ottengono il voto in Equador e in Mongolia.

 

1931

 

 

Spagna: libere elezioni e conseguente proclamazione della Repubblica.

 

Istituzione del  Commonwealth.

 

Le donne ottengono il voto in Uruguay.

 

1932

 

 

 

Elezione di Roosevelt alla presidenza, politica del New Deal.

 

1933

 

 

Hitler alla Cancelleria.

Il Nazismo attecchisce specialmente nel ceto medio immiserito e tra i gruppi industriali.

 

Spagna: vittoria elettorale della destra.

 

Nella Germania Nazista le donne devono servire lo Stato prima di ogni altra cosa.

 

 

1934

 

 

Germania: “Notte dei lunghi coltelli” (Hitler fa uccidere alcuni capi nazisti).

 

Germania: Hitler nominato Fuhrer.

Lunga Marcia dell’Armata Rossa di Mao per fuggire all’accerchiamento nazionalista.

 

Le donne ottengono il voto a Cuba e in Cile.

 

1935

 

Conquista dell’Etiopia.

 

 

 

1936

 

 

Spagna: inizia la Guerra Civile.

 

 

1938

 

Leggi antirazziste e antiebraiche.

 

Riduzione del personale femminile nei posti di lavoro con un decreto legge.

Annessione dell’Austria alla Germania Nazista.

 

L’Irlanda ottiene l’indipendenza.

 

Germania: “Notte dei cristalli” (inizio della persecuzione degli ebrei).

 

 

1939

 

 

1 settembre 1939

invasione della Polonia. Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra alla Germania.

 

Organizzazione del Partito Fascista in Spagna dopo la vittoria nella Guerra Civile contro l’esercito della sinistra.

 

Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania.

 

 

1940

 

10 giugno;

l’Italia entra in guerra a fianco della Germania.

 

Le donne costituiscono nell’industria bellica italiana il 30% della manodopera.

Hitler prepara la grande offensiva dopo la spartizione della Polonia tra tedeschi e sovietici .

Invasione tedesca del Belgio, Lussemburgo, Olanda e Francia.

 

Inizia la battaglia d’Inghilterra: blocco navale e bombardamenti aerei.

 

 

1941

 

 

22 giugno 1941

invasione tedesca dell’URSS e sconfitta tedesca a Leningrado.

 

Attacco tedesco all’Unione Sovietica.

14 agosto

Roosevelt e Churchill sottoscrivono la Carta Atlantica.

 

7 dicembre

Attacco giapponese a Pearl Harbour. Gli USA entrano in Guerra.

 

1942

 

 

Battaglia di Stalingrado.

Le donne ottengono il voto nella Repubblica Domenicana.

 

1943

Guerra di Resistenza.

25 luglio

Caduta del fascismo, Mussolini è arrestato e condotto sul Gran Sasso.

 

Sconfitta tedesca a Stalingrado.

 

1944

Liberazione della Carnia.

Con il Patto di Roma, un accordo fra le tre correnti storiche del sindacalismo italiano: socialista, comunista, cattolica, nasce la CGIL

 

Roma viene liberata.

 

Nasce a Roma l’Unione Donne Italiane UDI.

 

6 giugno

Sbarco in Normandia.

Liberazione di Parigi.

Luglio

entra in vigore il sistema monetario internazionale di Bretton Woods.

1945

Eccidio a Porzus.

Il governo Parri nel dopoguerra deve fare i conti con la disoccupazione, il debito pubblico, svalutazione della lira, inflazione galoppante.

L’armata Rossa entra in Austria e occupa Vienna.

 

Roosevelt, Stalin e Churchill a Yalta ridispongono gli equilibri geopolitici europei.

 

Proclamazione della Repubblica Popolare in Iugoslavia.

 

Hitler si toglie la vita.

 

In Gran Bretagna vincono i laburisti con Attle alla guida del governo: politica della previdenza sociale gratuita.

 

In Francia le donne ottengono la piena parità con gli uomini nel voto politico.

 

 

6 agosto

Gli americani sganciano la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki.

 

26 giugno

51 Paesi danno vita all’ONU.

 

2 settembre

Viene firmata la resa del Giappone.

 

Negli Stati uniti la crisi aperta nel 1929 può dirsi superata.

1946

 

2 giugno

l’Italia diventa una Repubblica.

Si svolgono le prime elezioni libere dopo il ventennio fascista.

 

Le donne votano per la prima volta in occasione del referendum che istituisce la Repubblica.

 

 

Le donne ottengono il voto in Cina.

1947

 

Viene approvato dall’Assemblea costituente il testo della nuova Costituzione.

Inizia la Guerra Fredda.

Piano Marshall: un programma per la ricostruzione europea con fondi USA a titolo gratuito.

 

L’Urss irrigidisce il proprio controllo politico ed economico sull’Europa Orientale trasformandolo in dominio assoluto.

 

In Francia e Italia le forze di sinistra che avevano giocato un ruolo primario nella resistenza vengono estromesse dal governo.

 

Indipendenza dell’India.

 

Venticinque stati sottoscrivono il General Agreement on Tariffs & Trade.

 

Le donne ottengono il voto in Venezuela e Argentina.

1948

 

Entra in vigore la nostra Costituzione.

 

14 maggio

nascita dello Stato di Israele e primo conflitto arabo israeliano.

Assassinio di Ghandi.

Divisione dell’India in tre stati.

 

1949

 

Elezioni del primo Parlamento della Repubblica.

 

Approvato l’ingresso dell’Italia nella NATO.

4 aprile

le potenze del blocco occidentale firmano il Patto Atlantico, costituzione della NATO.

 

5 maggio

nascono la Repubblica Federale Tedesca e la Repubblica Democratica Tedesca.

 

Nascita del Comecon opposto al piano Marshall e all’integrazione economica fra Usa ed Europa Occidentale.

 

1 ottobre

viene proclamata la Repubblica Popolare Cinese.

1950

 

Viene approvata la legge sul congedo per maternità per le lavoratrici.

Inizia un intenso e continuo sviluppo economico dovuto all’alta disponibilità di capitali per gli investimenti, abbondante forza lavoro, basso costo delle materie prime e delle fonti di energia derivante da favorevoli rapporti di scambio con i Paesi produttori extra europei.

 

La forza lavoro agricola si è molto ridotta a causa della meccanizzazione del settore.

 

Processo di scolarizzazione di massa.

 

Guerra Fredda: in Usa e Urss iniziano ad apparire i primi spiragli della distensione.

1951

 

L’Italia entra nelle CECA.

 

Angela Cingolati Guidi è la prima sottosegretario all’industria e commercio nel governo De Gasperi.

 

Viene costituita la CECA primo nucleo dell’Europa Unita.

Le donne ottengono il voto in Pakistan.

1953

 

 

Morte di Stalin e inizio della destalinizzazione.

 

Le donne ottengono il voto in Messico e Siria.

1955

 

 

Patto di Varsavia e Trattato di Vienna. La Germania ovest entra nella NATO.

 

 

1956

 

Viene istituita la Corte Costituzionale.

 

A dicembre l’Italia è ammessa all’ONU.

Chruscev denuncia i crimini di Stalin. Insurrezione anti-comunista in Ungheria.

Indipendenza di Tunisia e Marocco.

 

Con il generale Eisenhower i repubblicani riconquistano la presidenza puntando sul liberalismo per lo sviluppo economico.

 

Le donne ottengono il voto in buona parte dell’Africa.

 

1957

 

 

Trattato di Roma con cui i paesi fondatori della CECA istituiscono l’EURATOM e la CEE.

 

Nel trattato che fonda il Mercato Comune Europeo gli stati si impegnano a garantire la parità dei salari alle donne.

 

Primato dell’Urss nella gara spaziale con gli Stati Uniti con il lancio del primo satellite Sputnik.

1958

 

L’Italia entra nella fase del “miracolo economico ma all’aumento dei redditi e dei consumi privati non corrisponde il rinnovamento tecnologico dell’apparato industriale e l’ampliamento dei consumi pubblici e sociali.

 

La legge Merlin abolisce le “case chiuse”.

 

Londra: campagna per il disarmo nucleare.

 

La Chiesa Luterana svedese decide di ammettere le donne al pastorato.

 

1959

 

 

 

Rivoluzione di Fidel Castro a Cuba.

 

1960

 

Le donne sono ammesse a tutte le professioni.

Fallisce a Ginevra la Prima Conferenza Internazionale sul disarmo.

 

L’elettorato europeo si sposta verso le posizioni di sinistra riformista.

 

J. Kennedy è eletto presidente USA.

 

Martin Luther King si batte negli Usa per l’integrazione razziale e per la parità dei diritti tra bianchi e neri.

 

1961

 

Ammissione delle donne alla magistratura.

13 agosto

viene innalzato il muro di Berlino.

.

Crisi cubana.

 

Indipendenza dell’Algeria.

 

Con le conferenze di Bandung (1955) e di Belgrado, tra i paesi in fase di decolonizzazione, nasce il Movimento dei non allineati.

 

Yuri Gagarin primo astronauta in orbita.

 

1963

3 Giugno

 il Friuli diventa la quinta regione a Statuto Speciale.

 

Il Friuli Venezia Giulia ottiene l’autonomia amministrativa.

10 Ottobre

Frana della diga del Vajont. In Friuli sono distrutti i paesi di Erto e Casso.

 

Marisa Conciari Rodero è eletta vicepresidente della Camera.

Valentina Tereskova è la prima donna astronauta.

J. Kennedy firma il trattato per la sospensione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera.

J. Kennedy viene assassinato a Dallas.

1964

 

 

 

L.B. Johnson diventa presidente USA e inizia la costruzione del Welfare state.

 

Colpo di stato in Brasile.

 

1965

 

 

 

Le donne ottengono il voto in Iraq.

 

1966

 

 

 

Colpo di stato in Argentina.

 

Mao lancia la rivoluzione culturale in Cina.

 

Indira Gandhi è il primo ministro di India.

 

1967

 

 

Grecia: un colpo di stato militare contro la monarchia costituzionale dà inizio alla dittatura dei colonnelli.

Egemonia israeliana nel Medio oriente, Arafat fonda l’OLP (organizzazione per la liberazione della Palestina).

 

1968

 

 

 “Maggio Francese”, movimento di contestazione giovanile di carattere politico e ideologico.

 

Le truppe del Patto di Varsavia entrano a Praga e ristabiliscono l’ordine.

 

Martin Luther King viene assassinato;

colpo di stato in Perù.

1969

Strage di Peteano: quattro carabinieri uccisi.

12 dicembre

Con la strage di Piazza Fontana a Milano (16 morti) inizia uno dei periodi più scuri e tesi dello stato italiano: terrorismo nero.

 

 

La Francia è governata dal centro-destra che opera per modernizzare le strutture produttive del Paese (investimenti nell’energia nucleare, settore aereo-spaziale e ferroviario).

 

Germania: nominato il Presidente Brandt che espande lo stato sociale a favore dei ceti meno abbienti e conduce una politica di accordo con i sindacati. Questo patto sociale risulta utile per fronteggiare la fase della crisi petrolifera.

 

Guerra Civile in Irlanda del nord.

 

Iniziano a Parigi i negoziati Internazionali per la pace in Vietnam.

 

21 luglio

L’uomo mette piede sulla Luna.

 

Golda Meir è il primo ministro d’Israele.

1970

 

Entra in vigore lo statuto dei lavoratori.

 

L’inflazione italiana risulta superiore a quella di tutti gli altri paesi industrializzati.

La Banca d’Italia adotta una politica monetaria deflazionistica aumentando il tasso di sconto e provocando una recessione nell’economia.

 

Legge sul divorzio.

 

Esplodono in Polonia diverse proteste operaie originate da carenza di forniture alimentari e dagli aumenti dei prezzi dei beni di consumo.

 

Il governo polacco risponde agli scioperi con la repressione, in parte con aumenti salariali senza tuttavia riuscire a stabilizzare la situazione.

 

1971

 

Tutela delle lavoratrici madri.

Le donne svizzere ottengono il diritto di voto.

Agosto

Nixon sospende la convertibilità del dollaro in oro.

 

La Cina Popolare entra nell’ONU.

 

1973

 

L’Italia viene coinvolta dalla più grande fase di recessione economica dovuta all’esplosione della crisi petrolifera.

1 gennaio

la Gran Bretagna entra nella CEE in seguito a un referendum popolare.

Si conclude la guerra del Vietnam che si proclama Repubblica Socialista.

Colpo di stato in Cile a opera di gruppi militari dell’estrema destra, guidati dal generale A. Pinochiet

.

L’aumento del prezzo del petrolio causa stagnazione e inflazione.

 

Golpe in Uruguay e Cile.

 

Gli USA appoggiano in America Latina le politiche militari anticomuniste.

 

Negli USA la corte suprema stabilisce che la decisione di abortire è di competenza della donna e del suo medico.

 

1974

 

Parità tra i coniugi, la donna non rinuncia al suo cognome.

 

Strage di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti).

Strage sul treno Italicus (12 morti).

 

Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione europea.

 

La Francia e la Repubblica Federale Tedesca autorizzano l’aborto.

 

1975

Italia e Jugoslavia firmano a Osimo il trattato con cui si chiude definitivamente la questione delle frontiere orientali.

Offensiva del terrorismo rosso: le Brigate Rosse e altri gruppi minori armati dichiarano di praticare la lotta per colpire lo stato e la classe dirigente borghese.

 

Riforma del diritto di famiglia.

 

 

Indipendenza di Angola, Mozambico e Guinea - Bissau.

1976

6 maggio

Il terremoto in Friuli provoca centinaia di morti. I comuni più colpiti sono ubicati nell’area pedemontana.

 

Tina Anselmi è nominata Ministro del Lavoro.

 

 

1978

 

Le Brigate Rosse rapiscono il Presidente della DC Aldo Moro uccidendo la sua scorta e dopo 55 giorni di prigionia Moro viene assassinato.

 

Legge sull’interruzione volontaria di gravidanza.

 

Spagna: approvata una costituzione democratica che concede un’ampia autonomia a Catalogna, Galizia e Paesi Baschi.

 

M. Thatcher è il nuovo premier inglese.

 

1979

 

Nilde Iotti è eletta Presidente della Camera dei Deputati.

Prime elezioni europee.

In Gran Bretagna M.Thacher conduce una linea politica neo liberista basata sulla riduzione della spesa sociale e sanitaria e sulla privatizzazione di aziende pubbliche.

 

Nel primo Parlamento Europeo eletto ci sono 61 donne di cui 10 italiane.

 

 

1980

 

2 agosto

Bomba ad altissimo potenziale a Bologna.

 

Il tasso di crescita del PIL ritorna a essere negativo.

 

L’economia italiana interrompe la sua crescita ed entra in una fase di stagflazione.

 

Polonia. Si costituisce un primo sindacato libero in un paese socialista: Solidarnosc (solidarietà).

Anni Ottanta

Si realizza la terza rivoluzione industriale grazie alle innovazioni tecnologiche e informatiche.

Divisione del Mondo tra Nord e Sud.

 

Cade il regime dittatoriale in Perù.

1981

 

 

Francia: politica economica del Presidente Mitterand basata su un massiccio intervento dello stato; abbassati i tassi di interesse, stimolati i consumi, innalzati i salari (39 ore settimanali, pensione a 60 anni).

 

La Grecia entra nella CEE dalla quale riceve consistenti aiuti poiché il paese è travagliato da notevoli difficoltà economiche, alta inflazione, disoccupazione e un pesante debito estero.

 

 

1982

 

Forte indebitamento dello Stato.

 

Inizia il dispiegamento in Sicilia di missili NATO a testata nucleare.

Germania: il cancelliere Kohl opera in modo da tenere sotto maggior controllo la spesa pubblica senza avviare un’opera di smantellamento dello stato sociale e di privatizzazione.

 

 

1983

 

 

10 giugno 1983

il partito conservatore di M. Thatcher vince le elezioni.

Cade il regime dittatoriale in Argentina.

1984

 

Si verifica una ripresa intensa tanto da far parlare di un secondo boom economico.

 

 

 

1985

 

La scienziata italiana Rita Levi Montalcini ottiene il Nobel.

Esplode la centrale nucleare di Chernobyl.

In Cile A. Pinochet è sostituito da governi democratici.

 

Continua riduzione del prezzo del petrolio; sviluppo dell’informatica, tecnologia e informazione.

 

1986

 

Inizio del maxi processo contro la mafia

.

La Spagna entra nella CEE.

I cinesi chiedono la democrazia del Paese.

1987

 

 

 

 

L’accordo USA - URSS tra Reagan e Gorbacëv sancisce il disarmo progressivo.

 

1988

 

 

Negli ex stati sovietici dell’Asia Centrale esplodono numerosi conflitti armati su base etnica.

 

 

1989

 

 

Guerra civile in Romania.

 

Novembre

In Germania:

il muro di Berlino viene preso d’assalto dalla popolazione che inizia ad abbatterlo da est e da ovest

 

Polonia: netta sconfitta del POUP (partito comunista polacco).

 

Ungheria: viene dichiarata la neutralità dell’Ungheria e l’ indipendenza dall’Urss. Le truppe del Patto di Varsavia lasciano l’Ungheria dove si trovano dal 1956.

 

Romania. La dura pressione militare ha come conseguenza il dilagare della rivolta in tutto il paese. Si costituisce così un fronte di salvezza nazionale e divampa la guerra civile.

 

 

Dopo il crollo del Muro di Berlino in Russia e nei Paesi ex comunisti si avvia la brusca e traumatica transizione verso un’economia di mercato.

 

1 giugno

sanguinoso intervento dell’esercito cinese a Pechino in piazza Tienanmen.

1990

 

Cresce l’occupazione femminile.

12 settembre

Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia firmano il trattato che consente la riunificazione della Germania.

 

Inizia la Guerra in Croazia.

 

La Slovenia proclama la propria indipendenza dalla Jugoslavia.

 

Agosto

invasione del Kuwait e scoppio della Guerra del Golfo.

 

Crisi dell’ONU in Jugoslavia e Somalia.

1991

 

Legge sulle pari opportunità.

La Bulgaria viene dichiarata una Repubblica Democratica Parlamentare.

 

 

 

1992

 

La crisi del sistema politico precipita sotto i colpi della magistratura che a partire da Milano comincia a mettere a nudo il sistema della corruzione che legava politica e affari (mani pulite), stragi mafiose con l’uccisione di Falcone e Borsellino.

 

Il governo Ciampi inaugura una fase di ripresa economica e di risanamento della finanza pubblica.

 

Firma del Trattato di Maastricht sull’UE con la definizione parametri dell’Euro.

 

Intervento ONU che vara l’embargo ai danni della Jugoslavia.

 

1993

 

 

Cecoslovacchia: il paese si divide formalmente in due stati sovrani, la Repubblica Ceca e la Slovacchia.

 

Dal 1° novembre è in vigore l’UE

 

 

1994

 

Emma Bonino è la prima donna italiana alla commissione europea

 

Irene Pivetti è eletta presidente della Camera dei Deputati

 

 

Crisi tra etnie in Africa: guerra civile in Ruanda.

96

 

1995

 

L’Italia entra nell’accordo di Schenghen.

 

Fernanda Contri è la prima donna nominata alla Corte Costituzionale.

Susanna Agnelli è Ministro degli Esteri.

 

Accordi di pace di Dayton tra Serbia, Croazia e Bosnia.

 

1997

 

Terremoto in Umbria e Marche.

 

Guerra Civile in Albania.

 

1998

 

Nel governo D’Alema ci sono sei donne ministro.

 

Arrestato l’ex dittatore cileno A. gPinochet.

 

1999

 

 

 

 

 

2001

 

 

 

11 settembre

crollo delle torri gemelle a New York.

 

2002

 

Sciopero generale contro la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

1 gennaio

entrata in vigore dell’Euro.

 

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Quadri d’insieme

 

La storia di genere.

5 A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

 

La storia di genere o storia della donna ha circa una trentina d’anni; è nata dall’interesse delle donne nel cercare segni della loro presenza nel passato. La storia delle donne non si è sviluppata molto negli ultimi anni, al contrario la ricerca in questo settore si è contratta, questo perché nel nostro Paese, come in molti altri, c’è una grossa difficoltà nel tramandare ciò che le donne nel passato hanno fatto e c’è anche molto disinteresse da parte dei giovani. Molti pensano che i problemi dell’inferiorità delle donne siano ormai superati,  invece la realtà dimostra che non è così.

La storia delle donne è molto complessa; la regolamentazione dei ruoli tra uomo e donna è al centro dell’attenzione di intellettuali: ci si chiede quale debba essere il ruolo della donna nella vita di una società.

La società del Settecento si costituisce sulla tematica della cittadinanza, su chi rendere cittadino a tutti gli effetti e chi no; viene così a formarsi un discorso razzista, sessista, antipopolare. La parola razzismo può essere così definita: “attribuire per natura a degli esseri o generi (come le donne) delle specifiche caratteristiche corporee inferiori”.

Due pregiudizi che viaggiano alla pari sono l’antisemitismo e il problema delle donne. Gli ebrei venivano definiti simili alle donne cioè inferiori, inoltre veniva attribuita loro una caratteristica comune: l’isteria. Questo cammino parallelo dura fino alla Rivoluzione francese, quando ha luogo un accesissimo dibattito che si conclude con la decisione di concedere agli ebrei il diritto di cittadinanza, mentre alle donne questo viene negato. Possiamo notare come anche la parola Fraternità escluda le donne in quanto è definita come legame fra fratelli maschi.

Con l’Ottocento finisce il mito di Adamo, secondo il quale si pensava che l’uomo fosse nato perfetto e che fosse stato degradato dal peccato, e si cominciò a ritenere l’uomo originariamente imperfetto. Le crisi economiche della seconda metà del secolo fecero scaturire nell’umanità una visione alquanto pessimistica di come l’uomo potesse evolversi.

Durante tutto il secolo le donne vennero giudicate inferiori all’uomo a causa della minore massa muscolare, dell’inferiore altezza, delle prestazioni fisiche ridotte; la donna venne considerata un essere non perfettamente evoluto, istintivo, molto vicino all’animale. Si credeva che la riproduzione risucchiasse talmente tante energie che la donna non si potesse dedicare ad altre attività; ella veniva quindi discriminata per il suo corpo. All’uomo

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spettavano la responsabilità e la gestione di ogni attività economica, politica, sociale e culturale, solo ed esclusivamente ai livelli infimi le donne potevano svolgere attività al di fuori della famiglia.

All’inizio del Novecento anche Mussolini si pose l’interrogativo di che ruolo assegnare alle donne. Studiosi di destra hanno stabilito l’espressione regime totalitario per indicare che lo stato interviene in decisioni di ogni campo: economico, politico, religioso, familiare. Così sarà il regime a stabilire quali ruoli e ambiti dovranno essere assegnati alle donne e quale primo compito verrà indicata la procreazione, infatti l’aumento della popolazione era ritenuto un fatto molto positivo.

L’emancipazione della donna iniziò nel 1900, quando ella non volle più procreare esclusivamente e si dedicò al lavoro, solitamente in fabbrica.

Con la legge del 1934, che proteggeva le lavoratrici, che lavoravano fino a dodici ore al giorno, venne loro concesso un periodo di astensione dal lavoro un mese prima e un mese dopo il parto, il mantenimento del posto di lavoro e una stanza per l’allattamento. La legge però si rivelò mutilata in quanto le lavoratrici allora non sapevano quand’era un mese prima del parto.

Nel 1945 inizia il ritorno a casa delle donne che avevano partecipato alla Resistenza. Avevano esposto la vita a pericoli, combattuto accanto agli uomini, superato resistenze culturali, ma, una volta sconfitto il nazifascismo, vollero riprendere la vita di sempre. Odiavano manifestare, scappavano dal corteo, tornavano a casa e lavoravano. C’era, da parte delle donne, il rifiuto della politica attiva e la paura di farsi vedere mal vestite in pubblico. Con lo stato liberale e democratico avevano conquistato la loro dignità, questo per loro era fondamentale.

 

 

Il lavoro e i generi

5 A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

 

Il forte incremento e la tendenza a una maggiore stabilità della presenza delle donne tra la popolazione attiva può essere considerata una delle trasformazioni più significative che hanno interessato l’economia e il mercato del lavoro nazionale e regionale negli Anni Ottanta e Novanta.

Considerando il fattore demografico, si può notare come in Italia la popolazione totale in età lavorativa evidenzi un andamento di crescita. Il Friuli Venezia Giulia si pone invece in controtendenza, facendo registrare un lento ma progressivo decremento della popolazione attiva di età compresa fra i quindici e i settant’anni.

99

Focalizzando in particolare l’attenzione sulle dinamiche della componente femminile, si nota come a livello nazionale, dopo un lievissimo calo tra il 1993 e il 1995, il numero di donne in età lavorativa abbia ripreso a crescere.

In Friuli Venezia Giulia si può notare come la forza lavoro femminile sia in crescita, in contrapposizione con il dato decrescente dei maschi. L’offerta di lavoro delle donne è andata aumentando con ritmi sostenuti fino al 1996, per poi subire un’inversione di tendenza che si è conclusa nel 1998. 

 

Tasso di occupazione (val. %)

 

Femmine

 

 

1993

1994

1995

1996

1997

1998

Udine

37,2

40,3

39,7

42,2

40,6

40,9

FVG

36,7

37,6

39,1

40,9

40,8

40,8

Nord-est

41,1

41,1

41,8

43,1

43,9

44,2

Italia

33

32,7

32,8

33,3

33,4

34,1

 

Maschi

 

 

1993

1994

1995

1996

1997

1998

Udine

68,5

67,7

66,2

66,8

67

66,5

FVG

65,2

63,7

64

64,3

64,4

64,3

Nord-est

68,6

67,8

67,6

67,4

67,3

67,3

Italia

62,2

62,2

62,2

61,1

60,8

60,8

100

 

Si verifica una tendenza che ha consolidato un processo di avvicinamento della partecipazione al mercato del lavoro tra maschi e femmine, benché la popolazione attiva femminile rappresenti ancora il 41% della forza lavoro totale. Un riequilibrio dovuto a una mutata propensione delle donne a entrare e soprattutto a permanere in modo stabile nel mondo del lavoro. Tra i meccanismi che si trovano alla base di questa evoluzione in atto, va considerato l’aumento del livello di scolarità tra le giovani. Vi è un conseguente ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro dovuto a un prolungamento dei percorsi scolastici e universitari e una più elevata permanenza al lavoro di donne comprese tra i venticinque e trentanove anni per la prima volta a partire dagli anni Novanta. Una presenza questa che rappresenta senza dubbio un importante segnale di cambiamento non solo economico, ma anche culturale, nella percezione che le donne hanno maturato rispetto all’importanza, non solo economica, di svolgere un lavoro extradomestico retribuito. L’aumento di donne che si affacciano al mercato del lavoro si è tradotta anche nell’incremento del numero di inoccupate in cerca di primo impiego e di disoccupate, tra cui numerose sono le donne che, fuoriuscite dal circuito lavorativo in seguito al matrimonio e alla nascita dei figli, cercano una possibilità di rientro nel mercato.

Il percorso delle donne a scuola si snoda ancora entro confini tradizionali: le ragazze continuano a iscriversi sempre numerose negli istituti scolastici a orientamento commerciale, dimostrando che per molte ragazze la figura professionale di riferimento rimane ancora quella della segretaria, occupando il 39,9% della popolazione studentesca femminile totale.

Inoltre numerose ragazze frequentano l’Istituto Magistrale, con un’incidenza del 12,6%, e anche il gruppo liceale assorbe molte femmine rilevando una quota del 35,5%.

Per le ragazze il processo di scolarizzazione appare riconducibile a un processo di crescita e arricchimento culturale e personale e di ricerca di una propria identità.

La situazione relativa ai percorsi universitari riflette in parte quanto si era già potuto notare per le scuole superiori: cresce in misura significativa la presenza di studentesse, ma in realtà si tratta di una crescita sbilanciata verso settori che non vanno incontro ai fabbisogni professionali evidenziati dal mercato del lavoro locale e quindi l’investimento in formazione fatto dalle giovani donne rischia di presentarsi sul mercato del lavoro come bene poco spendibile e scarsamente competitivo.

Nel periodo 1993 - 1998 l’andamento dell’occupazione in Friuli Venezia Giulia fa registrare un saldo positivo. Il numero degli occupati passa, infatti, da 455.000 unità del 1993 a 467.000 nel 1998. È interessante vedere come l’incremento del numero di persone occupate è in buona parte dovuto alla crescita della componente femminile che fa ovunque registrare variazioni percentuali positive, al contrario di quella maschile. Va in proposito sottolineato come su

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questo positivo andamento pesi soprattutto la provincia di Udine, che da sola fa registrare una crescita di ben 5.000 unità.

Analizzando la distribuzione delle donne nei vari settori economici relativamente al 1998, fatto pari a cento il totale delle donne occupate, sessantadue hanno un impiego nel comparto terziario, ventitré lavorano nell’industria, diciotto nel commercio, mentre appena quattro sono occupate in agricoltura. La distribuzione conferma così la forte femminilizzazione del terziario, un settore che appare trainante sia per il sistema economico, sia per le opportunità di inserimento che offre alla forza lavoro femminile.

Passando a considerare gli occupati per posizione nella professione, si può osservare che, per quanto riguarda il tipo di ruolo ricoperto dai due generi, sia per le forme di lavoro autonomo che per il lavoro dipendente, la discrepanza rimane decisamente elevata. I lavori cosiddetti nobili rimangono infatti appannaggio della componente maschile. Nel 1998 gli imprenditori o liberi professionisti in Regione erano 33.000, di cui solo 8.000 di sesso femminile. Gli altri lavoratori in proprio erano 63.000, il numero delle donne arrivava in questo caso appena a 18.000. La categoria dei coadiuvanti è l’unica che fa registrare una presenza della componente femminile più elevata rispetto a quella maschile.

 

 

L’economia del Friuli dal primo dopoguerra agli anni Settanta

5 A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

 

     Dopo la Prima Guerra Mondiale il Friuli risultava essere ancora essenzialmente agricolo. In questa Regione la guerra aveva lasciato strascichi tremendi: distruzione di strutture produttive, di beni immobili, di infrastrutture, quali ad esempio le vie di comunicazione. L’agricoltura aveva subito danni ingenti non solo nelle zone delle operazioni militari, ma in tutta la Regione: terre abbandonate e devastate, abitazioni, stalle, latterie inutilizzabili, il patrimonio zootecnico ridotto del 90% rispetto al periodo prebellico. L’economia agraria era al tracollo. Perdute quasi tutte le scorte, nella primavera del 1919 mancavano le condizioni per provvedere alla semina. Il ritorno dei profughi e dei militari smobilitati, l’impossibilità a trovare occupazione causarono nel primo dopoguerra un’ impennata del fenomeno migratorio soprattutto transoceanico, ma rivolto anche verso i Paesi europei o anche altre regioni italiane. Lo Stato non intervenne molto. La situazione dovette essere risolta in loco, il lavoro di uomini, donne e bambini, le rimesse degli emigranti, permisero pian piano di riprendere l’attività di un’agricoltura che restava ancora arretrata, che basava la sua struttura fondiaria sulla piccola proprietà e sulla mezzadria.

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Durante i decenni successivi le istituzioni agrarie cercarono di informare i contadini e diffondere le colture più adatte ai terreni per migliorare le rese, allo stesso tempo si avviarono grandi lavori di trasformazione fondiaria, di bonifica, di irrigazioni, di costruzione di case coloniche (Legge Serpieri  del 1933). I terreni bonificati o messi a coltura in seguito al riordino passarono nelle mani di proprietari terrieri che le appoderavano, suddividendole in mezzadrie o affittanze. Ma la scelta dell’autarchia del regime fascista, che favoriva la coltivazione del mais e in genere dei cereali, danneggiò nel complesso l’agricoltura friulana, poiché sancì la crisi della zootecnia e delle colture pregiate. Mancando investimenti, ne seguì una crisi dell’occupazione e un calo dei salari, una ripresa dell’emigrazione dei giovani e di intere famiglie anche verso nuove mete come le colonie e le zone bonificate (duecento famiglie emigrarono in Cirenaica, trecento nell’agro Pontino). Nel 1936 fu imposto l’ammasso di molti prodotti agricoli. In questo clima di crescente difficoltà prendeva avvio la seconda guerra mondiale, la quale inflisse una nuova enorme perdita umana e materiale.

Dal Dopoguerra e fino agli anni Cinquanta continuò un nuovo esodo che arrivò anche a trentamila migranti all’anno, alimentato quasi totalmente da provenienti da famiglie agricole. Lo sviluppo industriale e la ripresa economica si fecero strada nel corso degli anni Cinquanta. Fu questa l’epoca delle mutazioni profonde della società friulana: l’abbandono della campagna per la città, l’industrializzazione graduale, la rottura del tessuto patriarcale delle strutture familiari rurali. Nel 1951 gli attivi in agricoltura erano il 40% contro il 54% degli anni Trenta. Sono gli anni in cui l’agricoltura anche in Friuli si meccanizza, nel 1954 sono censiti duemilanovecento trattori, uno ogni settanta ettari circa (la media italiana è di uno ogni sessantacinque ettari, ma in Piemonte è di uno ogni venticinque ettari e in Lombardia e Veneto uno ogni trentacinque). Solo all’inizio degli anni Sessanta comunque l’agricoltura friulana uscì dalle difficoltà postbelliche; essa era strutturata su piccole unità produttive a conduzione familiare con predominanza della tradizionale trilogia frumento - granoturco - foraggiere con diffusa presenza delle stalle di bovini. A partire dagli anni Settanta le attività agricole evidenziarono una tendenza alla riduzione del loro peso, la viticoltura assunse un’importanza crescente con la produzione dei vini a Denominazione di Origine Controllata, le aziende e gli allevamenti zootecnici si accorparono, si ridussero di numero, ma assunsero dimensioni maggiori, calò notevolmente la forza lavoro impiegata in agricoltura grazie alla meccanizzazione crescente.

Gli anni Cinquanta furono per la provincia friulana quelli del primo vero decollo industriale: dal 1951 al 1961 la forza lavoro occupata nell’industria passò da 60.000 a 82.000 unità. Si ridusse notevolmente l’occupazione nel settore tessile, ma questo fenomeno coincise con il grande slancio di tutti gli altri settori, primi tra tutti l’edile e il metalmeccanico-metallurgico. Un secondo notevole balzo in avanti avvenne nel decennio successivo: nel 1971 gli addetti all’industria erano 120.000, continuava il trend positivo del settore meccanico, si affiancò lo sviluppo del settore del legno e del mobile. Questa fase fu caratterizzata dallo sviluppo di distretti industriali formati per la maggior parte da piccole industrie, promossesi dal livello artigianale (il 70%) largamente

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esportatrici (circa il 60% del prodotto). Queste imprese di medie dimensioni si continuarono a tenere però costantemente aggiornate per tecnologia e criteri di gestione, da ciò deriva il loro successo.

Anche il Friuli risentì della crisi congiunturale. Verso la fine degli anni Ottanta si notarono i primi segnali della deindustrializzazione: le industrie che riuscirono a ristrutturarsi ridussero il personale, le più deboli fallirono. Scomparvero dalla geografia industriale friulana interi settori, o note industrie nel settore siderurgico, tessile, conciario, della prefabbricazione edile. Tante volte le cause dei fallimenti dipesero da errori gestionali irreversibili. Malgrado la crisi, l’industria friulana era una realtà che avrebbe continuato a svolgere un ruolo determinante nel condurre la Regione al benessere economico, collocandola nel Nord Est opulento e dinamico.

 

 

L’economia friulana negli anni Ottanta e Novanta

5 A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

 

La relazione è frutto di una discussione tenuta dalle classe 5 A Liceo con il Dott. Mario Passon, responsabile dell’Ufficio Statistico della Camera di Commercio di Udine. Egli ha gentilmente acconsentito di incontrarsi con noi presso il nostro Istituto.

Il dottor Passon ha introdotto il suo discorso esponendoci i compiti più importanti dello stato: allocare le risorse, fornendo infrastrutture, servizi e concedere incentivi; tutto questo prende il nome di sistema delle relazioni.

Dopo aver chiarito l’importanza del lavoro in gruppo e dello studio dell’economia, punti indispensabili da conseguire nel nostro lavoro, il dottor Passon ci ha esposto la caratteristica posizione geografica della nostra Regione, fornendo un quadro del tutto innovativo. Essa si trova infatti quasi al centro dell’Europa, basta pensare alle distanze: per esempio da Udine a Milano ci sono circa 380 Km più che tra Udine e Monaco, fino a Roma invece ci sono circa 640 Km, mentre percorrendo la stessa distanza si può arrivare fino a Vienna, Budapest e Praga; particolare attenzione va rivolta a queste ultime città, considerate nuovi poli di attrattiva e opportunità.

L’Europa e la nostra Regione si sono decisamente modificate nell’arco degli ultimi due decenni.

Il Friuli è stato rivoluzionato da due grandi eventi: dapprima il terremoto del 1976, in seguito nel 1984 l’abbattimento delle frontiere con i paesi dell’Est europeo. Uno dei “punti caldi” sulla linea dei confini ci interessava direttamente, in quanto si contrapponevano sul confine italo-jugoslavo l’Ovest e l’Est e il

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Friuli risultava terra di frontiera. Ora, con la caduta della cortina di ferro, siamo diventati una zona centrale, un crocevia di scambio nel cuore dell’Europa. Questa nuova dimensione deve stimolare tutte le forze e le capacità allo scopo di cogliere l’opportunità che si è creata.

Il terremoto, nonostante i lutti, il dolore e i danni arrecati alla Regione, ha portato comunque conseguenze positive, ha modificato le imprese (ne sono state costruite di più moderne e sofisticate), il tessuto urbano (soprattutto nei piccoli centri montani ormai quasi spopolati) e ha permesso la nascita di nuove istituzioni come l’Università di Udine che, dopo essere stata ampliata, ha assunto una grande importanza economica e culturale in tutto il Friuli.

Da alcuni dati elaborati dalla Camera di Commercio, abbiamo potuto constatare che la nostra Regione si colloca a un buon livello nell’economia nazionale. Dal 1991 il reddito pro capite dato dal rapporta tra PIL (prodotto interno lordo) e popolazione, si colloca al ventunesimo posto tra quelli italiani ed è maggiore del 20% rispetto a quello nazionale (nel 1991 era di 24.000.000 di lire mentre nel 1998 di 38.000.000 di lire, dati che in proporzione, considerando l’inflazione, sono simili).

Anche la struttura della popolazione è notevolmente cambiata, basti pensare che il Friuli Venezia Giulia è la Regione più vecchia d’Italia dopo la Liguria. Nel 1971 le persone dai quindici anni in giù erano il 20% rispetto al totale della popolazione per passare nel 1998 a essere il 13%; di conseguenza le persone con età maggiore di cinquant’anni nel 1971 erano 11% per crescere poi nel 1998 fino al 19,9%.

 

 

L’ economia calzaturiera nel Sandanielese

5 A Linguistico - ITC “V. Manzini” di San Daniele

 

 

1.  Dall’avvio della produzione agli inizi del Novecento

 

Situata nel cuore del Friuli,  a metà strada tra il litorale adriatico e l’entroterra alpino, affacciata su una delle alture che separano il corso del Tagliamento dalla zona di risorgive del Campo di Osoppo e dalle colline moreniche prospicienti la pianura, San Daniele è stata fin dall’antichità la porta per le correnti di transito tra Mediterraneo e Centro Europa. Divenuta nel 1067 Mercato patriarcale, si assicurò lo status di “Libera comunità” (fino alla conquista

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napoleonica del 1797) e il riconoscimento di alcuni privilegi, tra cui l’autonomia legislativa, anche in materia criminale, sotto la guida di un Arengo, a cui partecipavano di diritto i capifamiglia; il che le garantiva una notevole floridezza economica basata sull’agricoltura, sulla produzione del famoso prosciutto, sul commercio (unito a una consolidata tradizione di accoglienza, grazie all’ospedale di S. Antonio) e varie forme di piccolo artigianato.

Il passaggio sotto il dominio asburgico, con il decentramento dell’asse commerciale verso Trieste e una radicale riforma agraria dei beni comunali malvista dai ceti più poveri aprirono la strada al Risorgimento, in cui si trovarono a coincidere gli interessi dell’antica nobiltà esautorata e dei contadini che risentivano maggiormente dei gravami fiscali. La situazione non migliorò, tuttavia, con l’avvento del Regno d’Italia, se non  per coloro che seppero emanciparsi dallo stretto legame con la terra, dandosi al commercio o alla libera professione.

All’inizio del secolo XIX la borghesia, che a San Daniele tradizionalmente risiedeva sul colle, era formata da un ceto medio imprenditoriale e da una piccola borghesia. Ai livelli alti della scala sociale c’era un ristretto gruppo di professionisti “liberali”, avvocati, notai, medici e banchieri, che dominavano l’economia cittadina – molte banche erano di proprietà di investitori locali – e anche la sua politica.

A un livello inferiore c’erano i numerosi commercianti ed esercenti della piazza e delle vie centrali ove  erano situati i negozi; alcuni di essi possedevano anche delle botteghe, in cui producevano piccole quantità di prosciutto, abiti e pantofole. Ai piedi della scala gerarchica, c’erano poi operai e artigiani, soprattutto metallurgici, con alcune botteghe di carpenteria che si diffusero in ogni parte nel territorio e producevano utensili agricoli, mobili e altri beni indispensabili per la società agraria.

L’industria delle pantofole aveva avuto origine come “mestiere invernale” nelle Alpi Carniche. Durante i mesi invernali le contadine tagliavano vecchie camicie, le cucivano insieme come suole e le ricoprivano con tomaie in velluto. Le pantofole erano semplici ma resistenti e coprivano la domanda locale di calzature economiche. Quando i carnici scendevano verso le colline e la pianura in cerca di lavoro, portavano con sé il proprio mestiere. Le pantofole trovarono un più largo mercato a partire dal 1880, quando i principali negozianti di San Daniele cominciarono prima a venderle, poi a  produrle nella principale via commerciale. Il tutto ebbe inizio grazie a un cappellaio che le confezionava  nel suo negozio in attesa dei clienti, e non passò molto tempo prima che i negozi vicini facessero lo stesso.

Il lavoro si sviluppò velocemente intorno al primo dopoguerra, quando era molto economico ricavare pantofole dal velluto nero: si usavano sacchi di juta provenienti dalle città portuali e scarti di fabbrica dell’industria del cotone e c’era un gran numero di donne e di ragazze, a partire dai nove anni, disponibile a lavorare per un piccolo salario. Il basso costo delle pantofole assicurava loro un grande smercio;  negozi più grandi cominciarono a venderle

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lontano, perfino a Milano.

Molte delle più grandi industrie di pantofole nacquero da imprenditori provenienti dalla piccola borghesia. Ad esempio, due impiegati di banca fondarono un negozio in una casa ristrutturata. Altre famiglie piccolo borghesi dettero vita a negozi di pantofole come attività secondaria: è il caso di un imprenditore che costruì un laboratorio vicino alla sua fabbrica di acqua di selz e della moglie di un professionista liberale, che fondò un laboratorio in casa con l’assistenza del marito. Con la crescita del mercato e i bassi investimenti di capitale per cominciare l’attività  poterono avviarsi anche imprenditori provenienti da un ambiente più modesto. Umberto, di origine contadina, lavorava come rappresentante di macchine per cucire Singer. Verso la metà del 1920, egli cominciò a fare pantofole a mano in casa con sua moglie; come nella maggior parte delle imprese, lei soprattutto curava la produzione, mentre lui visitava i negozi di calzature delle grandi città e raccoglieva gli ordini. Nel giro di pochi anni i due coniugi avevano alle dipendenze venti lavoratori: così comprarono una grande casa  nel centro del paese, abbatterono i muri interni e avviarono una fabbrica con presse per il montaggio e macchine per cucire, con possibilità di espandersi e una facile via di accesso alla stazione dei treni (grazie alla ferrovia Udine – San Daniele);  l’impresa riuscì a occupare più di cento lavoratori.

Lo sforzo per la ricostruzione del paese negli anni Venti indusse un gran numero di emigranti a ritornare dall’estero e stabilirsi in Friuli. Molti di essi investirono i loro risparmi nella terra, ma alcuni fondarono aziende. Tre fratelli che erano emigrati nel 1921 in Argentina, dove avevano una tipografia, ritornarono  dopo pochi anni per fondarne una a San Daniele. Un artigiano ritornò da New York nel 1929 con una nuova tecnica di lavoro e avviò una bottega di bigiotteria, in un attico affittato. Questo slancio venne meno dopo il 1929, quando le condizioni economiche precipitarono, con l’inizio della depressione mondiale e il consolidamento del Fascismo.

In tale periodo la popolazione rurale del Friuli, sia per gli esiti della campagna demografica sia per sopperire alla mancanza di macchinari, era cresciuta più rapidamente di quanto avesse mai fatto prima o dopo d’allora. I contadini, lottando per sopravvivere, in una sempre più affollata campagna, frequentemente affiancavano alla vita rurale un lavoro in filande (quando liberi) oppure un’emigrazione stagionale in fabbriche di mattoni o nelle industrie del centro Europa. Meno di frequente si trasferivano definitivamente in America. All’industria calzaturiera di San Daniele si era affiancata  quella del prosciutto, nata quando le drogherie avevano  incominciato a salare e a conservare i prosciutti; nello stesso periodo, la famiglia Fantoni, costruttrice di mobili, acquisì un’importanza nazionale per la produzione di mobili per le classi italiane più elevate (nello stile rinascimentale e in quello barocco), per il clero (in stile neo-gotico) e per le esposizioni (in Art Nouveau). Da queste botteghe e da questi laboratori rurali, formatisi nei primi decenni del Novecento, le industrie iniziarono a svilupparsi a partire dal  dopoguerra.

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2.  Lo sviluppo economico del Dopoguerra

 

Le industrie del Friuli non avevano avuto un arresto totale durante la Seconda Guerra Mondiale, nemmeno durante l’occupazione nazista. Nonostante molti degli operai venissero chiamati alle armi, numerosi laboratori continuarono a lavorare a ranghi ridotti. Altri sospesero il lavoro e ripresero l’attività nel 1945.

A partire dal 1950 il ritmo della produzione accelerò. Oggi, guardando indietro a questo periodo intraprendente, va ricordato come questi artigiani  avessero iniziato dal niente. È possibile che le nuove fabbriche, sorte tra il 1945 e il 1964, possano proprio essere sorte dal niente, grazie alle capacità e all’intraprendenza di singoli individui. I pochi imprenditori nel ramo delle pantofole che ripresero a lavorare immediatamente dopo la guerra iniziarono da condizioni di disoccupazione e di fame. Ad esempio, quattro fratelli sopravvissuti alla guerra, iniziarono semplicemente cucendo pantofole a casa con le mogli. Un impiegato di un laboratorio organizzò una linea di produzione a casa con due sorelle, una cognata, due cugine e una zia.  Spesso era più facile partire se genitori o parenti possedevano già un laboratorio o una piccola bottega.

 

 

3.  Dal massimo sviluppo alla crisi degli anni Novanta

 

Benché la realtà delle ditte di famiglia spesso fosse meno armoniosa di quanto qualcuno ammettesse - era possibile che i fratelli bisticciassero e si dividessero, o che  i figli potessero sentirsi obbligati a partecipare a un’azienda contro i propri desideri, o che le mogli spesso non reggessero il doppio peso del lavoro di casa e quello in un’impresa - l’ideale culturale  era pervasivo e molto influente.

Fondamentalmente l’azienda era un progetto diretto dal capostipite con l’assistenza degli altri membri della famiglia. A parte  la considerevole eccezione di una casalinga che aveva fondato un’impresa manifatturiera di successo agli inizi degli anni Sessanta, l’imprenditore era generalmente un uomo. La più grande di queste aziende fu aperta alla fine degli anni Cinquanta da due ex operai. Un socio teneva i libri e disegnava le sagome, mentre l’altro tagliava le suole, assemblava le calzature e si occupava delle vendite. Le loro mogli e madri cucivano le tomaie, finché le mogli si ritirarono per avere figli.

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Gradualmente impiegarono la forza lavoro di ragazze giovani e di alcuni uomini. Il padre di uno dei due, meccanico, aiutò a costruire una catena di montaggio. Quando i figli di un socio finirono la scuola media e iniziarono a collaborare con la ditta nei primi anni Settanta, l’altro se ne andò per avviare una propria attività. La maggior parte delle associazioni di famiglia (4 su 5) erano semplici società tra padre e figlio, tra marito e moglie, o tra due o tre fratelli, mentre il resto (uno su cinque) erano un po’ più complesse configurazioni che coinvolgevano altri membri familiari o soci esterni. Abbiamo visto che l’organizzazione industriale del Friuli si era fermata nella prima metà di questo secolo e che il suo sviluppo era ripreso negli anni del cosiddetto primo miracolo economico dell’Italia. Comunque, molta gente in Friuli ritiene che il decollo, in realtà, arrivò alla metà degli anni Sessanta: fu allora che la ripresa, intesa in senso largo, diventò visibile e tangibile in regione.

Fondamentale per questo sviluppo fu la trasformazione agricola. Avendo comprato la loro terra dagli ultimi discendenti della nobiltà locale, negli anni Cinquanta, quando i prezzi erano bassi, la maggior parte delle famiglie rurali poté liberamente disporre della terra. Negli anni Sessanta i contadini friulani iniziarono, con l’essenziale aiuto di sussidi, ad acquistare macchinari agricoli; inizialmente trattori, trebbiatrici e imballatrici. Queste, insieme ai nuovi fertilizzanti e alle nuove tecniche agricole, migliorarono i raccolti, e ridussero la necessità di manodopera impiegata nei fondi. Gli agricoltori produssero non solo per autoconsumo e baratti, ma anche per vendere ai distributori. Largamente liberi dal duro lavoro dell’agricoltura, i loro figli e figlie trovarono impiego nelle nuove industrie e servizi o aprirono piccoli affari in proprio.

            In Friuli le nuove fabbriche continuarono a creare impieghi assorbendo la disoccupazione rurale e invitando gli emigrati a tornare. Era diminuito il divario negli standard di vita tra Friuli e Nord Europa e i giovani diventarono meno inclini a emigrare nelle industrie della Germania e della Svizzera. La massiccia emigrazione di lavoratori disoccupati, che negli anni Cinquanta aveva causato la diminuzione di un decimo della popolazione, si esaurì e a partire dal 1968 il rientro degli emigrati superò le partenze.

Dalla fine degli anni Sessanta le famiglie rurali avevano moltiplicato le fonti di reddito: le rimesse degli emigranti, le pensioni anche minime, il ricavato dalla vendita dei prodotti agricoli, la retribuzione del lavoro dipendente comportarono che dal 1970, il reddito pro-capite  del Friuli superasse la media nazionale, con un aumento del 25% del reddito in solo dodici anni. Questo trend positivo continuò durante gli anni Settanta. A ciò si deve aggiungere che il cibo veniva per la maggior parte dagli orti e dalle stalle, e molti lavoratori non pagavano l’affitto.

Con questi redditi le famiglie poterono permettersi di consumare di più. Pagare a rate era la regola, per questo c’erano poche motivazioni per rimandare di acquistare un televisore, un frigo o una macchina. La gente iniziò a prendere ferie e, nel tempo libero, a incontrarsi nei nuovi “caffè”, che apparvero accanto alle tradizionali osterie. La casa, misura visibile della condizione sociale nella comunità, fu l’oggetto per cui spesero maggiormente le

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famiglie, che altrimenti erano parsimoniose. La spesa per ristrutturare e arredare la casa creò in Regione un cospicuo giro di affari per un crescente numero di grandi e  piccoli impresari, installatori  e artigiani.

Una collettiva febbre per gli acquisti in Europa favorì l’espansione delle industrie in Friuli e creò nuove opportunità per le imprese. Frigoriferi dalla Zanussi, macchinari dal gruppo Danieli, scarpe da San Daniele e sedie da Manzano erano venduti a un mercato che si estendeva fino all’Olanda e oltre. Non appena queste industrie si espansero, favorirono lo sviluppo dell’indotto, come ad esempio scatole di scarpe, cinghie per seghe e perforatrici per stoffe.

Nei paesi del Friuli la gente rispose alle opportunità offerte da questa nuova società industriale secondo i modelli culturali basati sul vecchio ordinamento agrario. L’85% degli imprenditori attivi nel Dopoguerra nell’area di San Daniele era nato tra il 1920 e il 1950. Essendo cresciuti nei poderi familiari, che spesso erano affittati o messi a mezzadria da un ricco padrone, erano giunti a valorizzare soprattutto l’ unità familiare e l’autonomia del capo famiglia. Alla base di questa ideologia c’era un ideale maschilista di autonomia, di non essere mai soggetti all’autorità di un’altra persona. Essere superiore all’umiliazione di dover elemosinare un lavoro o un salario era un valore, come l’orgoglio di ottenere il rispetto dovuto a uno che “ha creato se stesso” con le proprie forze.

Per gli ex emigranti, che avevano lavorato da qualche parte all’estero per più di trent’anni, l’oggetto di questo orgoglio era la casa che avevano costruito nella loro madrepatria per quando sarebbero andati in pensione. Per gli agricoltori, l’indipendenza poteva significare comprare abbastanza terra e macchine per restare contadini per tutta la vita. E per gli altri questa aspirazione ad avere autorità e rispetto era espressa nel desiderio di essere imprenditori. Come diceva un artigiano, Sergio: “C’era un senso di orgoglio nell’avere un’attività indipendente. Negli anni Cinquanta e Sessanta c’era questa spinta a emergere. Da quando ero un bambino piccolo ho sempre visto e sentito questo. Non appena qualcuno aveva la minima opportunità, provava a intraprendere qualcosa, sia nell’agricoltura che nei vari settori artigianali e nelle costruzioni. Il mercato offriva molto spazio.” (T. Baker, “Small-scale industrialization and rural society in northeastern Italy”, Stanford University, 1989, p.25).

Questa propensione per attività indipendenti fu concepita e trasformata dopo la metà degli anni Sessanta dai modelli culturali urbani che arrivavano tramite i mass media. La gente iniziò a comprare televisori che indussero bisogni di nuovi beni e suggerirono nuovi modi per soddisfarli. Ci fu così una grande spinta al consumismo e di conseguenza per gli affari, per la circolazione di denaro e per la possibilità di aprire un’impresa.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, durante i quali i lavoratori delle fabbriche di pantofole venivano pagati meno del salario stabilito dai contratti collettivi per l’industria nazionale delle calzature, gli imprenditori decisero che, essendo le pantofole un prodotto povero dell’artigianato tradizionale, il loro valore era incomparabile con quello delle scarpe di cuoio. D’altra parte, in una situazione in cui gli imprenditori potevano licenziare a loro piacimento, i sindacati

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avevano pochi iscritti e quindi non avevano il potere per assicurare  il rispetto del loro contratto locale.

Nel 1968, comunque, la federazione nazionale dei lavoratori dei vestiti e dei tessuti (FILIA - CISL) si fece valere e propose che il contratto nazionale delle calzature fosse gradualmente applicato anche a San Daniele. L’associazione degli imprenditori rifiutò. Dopo nove mesi di negoziati, all’inizio del 1969 fu raggiunto un accordo. Il nuovo contratto determinava salari più alti, una giornata lavorativa più corta, migliore trattamento dei minori e degli apprendisti, straordinari pagati, sicurezza lavorativa in caso di malattia e diritti sanitari.

I rapporti tra i lavoratori e i padroni però divennero tesi e amari. Un imprenditore ricorda le sue sensazioni di esasperazione per la perdita del controllo sulla base operaia: “In quel momento, ho guardato i miei lavoratori nella fabbrica e ho visto dei nemici; io non ho visto collaboratori. Ho visto  ostacoli da oltrepassare. Nell’arco di un anno i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro  erano completamente cambiati. […] Prima di allora io ero stato il capo indiscusso. Questa fu un’esperienza traumatica per me, non lo negherò. […] E a causa delle nuove leggi, dei nuovi contratti collettivi, io non potevo più licenziarli; potevo mandarli via solamente per motivi ragionevoli […] Sebbene io accettassi queste nuove regole, all’inizio fu una pillola amara da inghiottire.”

In risposta questo imprenditore ridusse la sua forza lavoro a una misura più facilmente controllabile: “l’azienda cominciò gradualmente a diminuire in grandezza - in parte per scelta, in parte per mancanza di richiesta da parte dei committenti, in parte, lasciatemelo dire, per sospetto, per istinto. E quando dico istinto intendo più o meno quello animale, come un animale che è spaventato e si mette sulla difensiva. […] Dopo che i lavoratori si ritiravano o si sposavano e lasciavano la fabbrica, io non li rimpiazzavo” (T. Baker, op. cit., p.71)

Altri produttori di pantofole compensavano la loro perdita di controllo e gli alti costi del lavoro adoperando varie forme del sistema di lavoro a domicilio. In alcuni casi, gli imprenditori facevano in modo di registrare una lavoratrice come artigiana indipendente, per le tasse, e poi le prestavano la macchina da cucire e le affidavano i materiali per lavorare. In altri casi, le dipendenti erano impiegate dalla ditta come lavoratrici a domicilio. Queste varie soluzioni permisero agli  imprenditori di mantenere un alto profitto senza sobbarcarsi il costo di una vasta forza lavoro. Come ci ha confidato un imprenditore. “Dietro il sipario c’era un’indefinibile parte che scappava da quanto stabilito dalla legge. Un lavoratore a domicilio poteva essere in realtà ‘cinque persone ‘. Il marito, la suocera, la nonna, tutti davano una mano con il lavoro. Sulla carta [una ditta aveva] un regolare dipendente, che pagava i contributi per la sicurezza sociale e le tasse. Ma ‘dieci’ lavoratori sulla carta potevano essere in realtà cinquanta. Nel 1976 un economista, visitando l’area intorno a San Daniele, stimò che, attraverso i lavoratori a domicilio e pagando bassi salari, sette fabbriche artigianali di pantofole - con un totale, in teoria, di non più di 105 lavoratori - erano capaci di produrre all’incirca come una fabbrica industriale di 230 lavoratori” (T. Baker, op. cit., p. 72).

Negli anni seguenti alla crisi del 1969 - 1973, l’economia italiana si riprendeva lentamente. In Friuli  la recessione fu temporaneamente limitata dopo il

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1976 dagli effetti secondari del terremoto. Sebbene si trattasse di una catastrofe dal pesante bilancio umano ed economico, la gente lo chiamò nelle zone dove non causò perdite umane “terremoto santo” per la forza, anche se di breve durata, del boom delle costruzioni che ne derivò. Lo sforzo per ricostruire ebbe un impatto massiccio sull’economia regionale.

Oltre al nascente costo del lavoro e ai problemi della gestione, una serie di sviluppi contribuì a rendere più difficile la nascita di nuove imprese negli anni Settanta. I processi  produttivi divennero più sofisticati tecnologicamente e le nuove macchine più care; diventò più complicato tenere la contabilità di una piccola fabbrica; e il governo iniziò a controllare le piccole imprese con maggiore vigilanza.

All’arrivo di nuovi tipi di abiti e di nuovi canoni estetici, le fabbriche manifatturiere che provvedevano al consumo locale si trovarono costrette ad adattarsi ai nuovi modelli. Le tradizionali pantofole nere e grigie che le donne avevano sempre portato nel paese cominciarono a essere fuori moda. I nuovi prodotti richiesti erano inevitabilmente più complicati e costosi da produrre artigianalmente, il prezzo delle nuove macchine cresceva costantemente, con crescenti perfezionamenti tecnologici, così divenne molto più costoso equipaggiare un’industria.

Il boom economico in Friuli registra delle peculiarità che ne hanno fatto un caso a sé per gli studiosi di economia, che hanno individuato nella forma mista la chiave del successo del particolare modello di sviluppo del Nordest. Infatti nella famiglia agricola, mentre l’uomo, considerato il capofamiglia, generalmente aveva il principale compito del lavoro esterno, la figura coordinatrice chiave veniva svolta dalla coltivatrice casalinga; la donna era responsabile della stalla  e da sola si impegnava in quasi la metà delle ore totali del lavoro della fattoria, oltre a cucinare e a badare ai bambini. Il lavoro agricolo era visto come una parte integrante dei doveri domestici, piuttosto che come un’attività separata; le donne tendevano a identificare se stesse come casalinghe piuttosto che come coltivatrici o contadine. Anche i genitori anziani partecipavano all’attività comune, svolgendo per alcune ore al giorno piccoli lavori nell’orto, nella vigna e nella stalla. I bambini generalmente iniziavano ad aiutare nel lavoro della fattoria in un’età precoce e continuavano fino a quando un “buon lavoro” li liberava dai loro primi doveri. Il capofamiglia di solito lavorava nel fine settimana o nel tardo pomeriggio, alla fine del suo lavoro; lui era responsabile dei compiti che riguardavano i macchinari pesanti, il contatto con i venditori e la scelta delle coltivazioni. Questa economia delle famiglie semi-contadine immise sul mercato del lavoro uomini in età lavorativa che in periodi precedenti sarebbero emigrati all’estero. Mentre in teoria loro avrebbero dovuto ricevere una paga misurata in base al loro servizio per sostenere la famiglia, in pratica questa poteva mantenersi più  bassa della paga di un operaio urbano perché le famiglie friulane erano economicamente autosufficienti.

La partecipazione delle donne al lavoro esterno invece seguiva una “curva a M” con un picco nell’adolescenza, una caduta nell’età fertile e un secondo picco nella tarda mezza età. Mentre vivevano a casa con i loro genitori, le ragazze adolescenti di solito andavano a lavorare a quattordici anni in una fabbrica

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di pantofole, come segretarie o come impiegate in magazzino. Al momento del matrimonio, intorno ai venti anni, o dopo l’arrivo di bambini, abbandonavano il lavoro e diventavano casalinghe-contadine a tempo pieno. In effetti, poiché un buon marito era per definizione un buon sostegno alla famiglia, la moglie invece non era considerata indispensabile per lavorare. Nonostante ciò, le mogli spesso tornavano a lavorare una volta che i figli erano cresciuti. Poiché il lavoro delle donne era considerato complementare al mantenimento delle famiglie, era naturale che il livello delle loro paghe fosse più basso di quello degli uomini.

Una grande porzione della forza lavoro industriale viveva quindi in famiglie agricole part-time. Anche negli anni Ottanta i ricercatori del Veneto hanno trovato che il 60% dei lavoratori sotto i trent’anni tenevano un orto e che i lavoratori che si spostavano in una città per lavoro spesso continuavano a mantenere un orto nelle campagne; per i lavoratori più anziani le cifre erano anche più alte. Queste famiglie semi-agrarie erano molto più numerose delle famiglie urbane, anche perché le loro spese di vita erano considerevolmente più basse. Il solo orto abbassava drasticamente il costo della vita, quasi la metà delle famiglie contadine era autosufficiente per i prodotti primari e spendeva meno in energia e affitti degli abitanti della città. Per di più questi lavoratori continuarono a mantenere fino agli anni Ottanta un comportamento di razionalità parsimoniosa; una resistenza a gettare via vecchi oggetti in cambio di nuovi, l’uso di stufe a legna per riscaldare solo una o due stanze in casa e l’abitudine a mettere in vaso i prodotti dell’orto per conservarli. Nel 1979 il 76% delle famiglie friulane aveva il freezer, ma solo il 7% possedeva la lavastoviglie. Se queste famiglie frugali spendevano molto in materiali e in manodopera di costruzione, alimentando il boom edilizio, fornivano però un mercato piuttosto limitato agli imprenditori che producevano beni di consumo. I produttori di pantofole e mobili dovevano trovare i loro mercati principali fuori dalla Regione. Così un imprenditore si lamentava: “Il Friuli ha un milione di abitanti: meno i 300.000 di Trieste; rimangono 700.000 abitanti sparsi in una vasta area. E questi 700.000 abitanti, se vai a Milano, Roma, Padova o Vicenza li trovi concentrati in un territorio molto più piccolo, così si possono distribuire i prodotti del mercato molto meglio. Qui in Friuli per trovare 700.000 persone devi andare da Tarvisio a Lignano  e il consumo materiale è molto limitato, così non si può vendere molto qui” (T. Baker, op. cit., p. 50).

La consapevolezza di questa  situazione, che si era configurata già a partire dalla crisi petrolifera del 1973, si andò aggravando alla fine degli anni Ottanta, con la caduta del Muro, l’ingresso sul mercato dei prodotti manifatturieri a bassissimo costo dell’Est europeo e dalla concorrenza dei mercati asiatici. Il “modello  Friuli” non resse di fronte alla necessità di rinnovare le tecnologie (nel settore calzaturiero abbastanza tradizionali), agli aumenti nel costo del lavoro, all’obsolescenza accelerata dei prodotti imposti dalla moda. Chi ha risentito maggiormente di questa situazione sono stati i piccoli e medi imprenditori, che hanno trascinato con sé le lavoratrici, che si sono ritirate definitivamente dal mercato del lavoro.  Mentre l’industria del prosciutto, a San Daniele, si era evoluta da due (1945) a tre (1958) a quindici (1970, di cui otto esterne) a venticinque (1983) aziende fino a costituire il Consorzio (a cui

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partecipano ventotto ditte, escludendo quelle non associate), la cui attività culmina da qualche anno con la manifestazione internazionale “Aria di festa”, nel settore calzaturiero la situazione era andata crescendo fino a un certo punto, da sette (1918 - 1944) a undici (1970) a quindici (1975) aziende, per poi progressivamente calare, decentrandosi anche nei paesi vicini e orientandosi verso l’offerta di un prodotto di maggior qualità; tutto ciò,  purtroppo, a discapito del sapere pratico della fattura manuale degli scarpets, diretto a una clientela più esigente e selezionata.

Però il rischio di scomparsa dal mercato di queste tipiche calzature friulane per ora è almeno temporaneamente allontanato, grazie alla loro riscoperta e valorizzazione come prodotto di alta moda: chi le conosce da tempo, le apprezza e le indossa, le considera un gioiello del design ecologico e minimale. Giorgio Armani ammette di utilizzarle sia per sé sia quale accessorio per le sue creazioni: gli scarpets friulani, né ciabatte, né scarpe, né pantofole, in nessun modo sono riconducibili ai soliti prodotti di moda; conosciuti, oltre che come scarpets, anche come staffets o furlane, nulla in comune con le espadrillas, stanno ora diventando uno dei simboli del ‘no logo’, destinati però a un pubblico elitario, almeno per quanto riguarda le versioni originali.

 

 

La Bassa friulana

5 B Igea - ITC “L. Einaudi” di Palmanova - a.s. 2002/2003

 

L’economia della Bassa friulana negli anni Ottanta si caratterizzava per la concentrazione di grandi industrie, localizzate soprattutto nel centro di Torviscosa, su cui gravitavano molti pendolari della zona. Oggi, ridotta ormai l’importanza di questo polo chimico, il contesto è caratterizzato dalla proliferazione di piccole e medie imprese, che hanno conquistato il mercato nazionale e internazionale, grazie anche alla facilità di comunicazioni: strade, scalo ferroviario, porto e interporto. La distribuzione di queste piccole e medie imprese risulta attualmente equilibrata in tutto il bacino della Bassa friulana.

Le vie di comunicazione mettono in collegamento la Bassa friulana con tutta l’Europa, in primis, e poi con il resto del mondo: l’autostrada permette di raggiungere con facilità l’autoporto di Fernetti, al confine con la Slovenia, oppure Tarvisio, confine di Stato con l’Austria; la linea ferroviaria, già importante collegamento fra Italia, Austria e Slovenia, ha visto un notevole incremento del traffico merci grazie al nuovo scalo ferroviario di Cervignano e all’interporto, che dovrebbe favorire i traffici soprattutto verso l’Est Europa; anche l’aeroporto di Ronchi dei Legionari ha registrato un notevole incremento dei voli.

Oltre agli insediamenti industriali, la Bassa friulana risulta avere una secolare vocazione per le vacanze: si pensi a Grado, nota stazione termale già nell’Ottocento, e alla più recente Lignano, che dal secondo Dopoguerra è in costante espansione. Le spiagge sono frequentate da turisti austriaci, tedeschi e

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italiani, che per i loro soggiorni utilizzano le strutture alberghiere, le case in affitto, i campeggi e i porti turistici: infatti il loro potenziamento, insieme con quello di strutture analoghe, favorisce la presenza di approdi attrezzati lungo la costa adriatica. Pertanto, la popolazione della Bassa friulana durante i mesi estivi registra un notevole incremento, calcolabile in centinaia di migliaia di residenti: il turismo diventa così una voce importante dell’economia . Si registra una positiva ricaduta economica, specie nel settore terziario, anche nella valorizzazione dei centri storici: primo fra tutti spicca Aquileia con i suoi duemila anni e più di storia, sede del Patriarcato, che estese i suoi confini alla Carinzia e alla Stiria. Geograficamente vicina a questo centro storico, c’è la città stellata di Palmanova, unica per le sue caratteristiche urbanistiche che attirano visitatori sempre più qualificati. In questo momento, anche attraverso la costruzione di piste ciclabili, si sta perseguendo l’obiettivo di valorizzare il turismo storico-archeologico fra Palmanova e Aquileia - Grado, passando per Cervignano, che registra la presenza di interessanti castelli a Strassoldo.

Un’altra attività economica di grande importanza è legata alla pesca: nella Bassa esistono impianti di piscicoltura in acque dolci, che producono prevalentemente trote. Le anguille, le orate e i cefali invece vengono allevati nelle valli di pesca di Grado e Marano Lagunare, dove si allevano anche i molluschi. Grado e Marano sono i maggiori centri della pesca marittima del territorio, i lavoratori sono prevalentemente organizzati in cooperative oppure risultano occupati nelle industrie di conservazione e commercializzazione del prodotto ittico.

Il settore agricolo della Bassa friulana offre un’agricoltura di qualità: soltanto sette occupati su cento lavorano nei campi (nel 1951 erano cinque volte di più) contro una media nazionale del dieci per cento. Risulta interessante la produzione di granoturco, di soia e di prodotti orticoli: dai fiori alla frutta. Il settore vitivinicolo risulta ben rappresentato dalle zone DOC, così come interessante è la catena di trasformazione e conservazione dei prodotti caseari.

Nell’ambito dei servizi pubblici la Bassa friulana risulta dotata di un’azienda ospedaliera pubblica, che si suddivide logisticamente in due ospedali (Palmanova e  Latisana), l’istruzione è prevalentemente pubblica e il territorio della Bassa offre la possibilità di iniziare il percorso scolastico dalla scuola dell’infanzia fino all’esame di stato senza allontanarsi da esso. Inoltre, vanno ricordati nel settore del commercio alcuni centri commerciali che attirano clientela da fuori Regione, specie slovena.

 

 

Legislazione. Dalla disparità alla parità

5        A Liceo - ITC “A. Zanon” di Udine - a.s. 2002/2003

 

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1.  La conquista della parità

 

Fino a tempi relativamente recenti le donne non godevano degli stessi diritti degli uomini; esse erano infatti completamente escluse dal diritto di voto e nella vita familiare erano sottoposte all’autorità dell’uomo: padre o marito. Particolarmente difficili erano le condizioni delle donne lavoratrici, soprattutto di quelle impiegate nelle industrie fino alla prima metà del Novecento. La retribuzione del lavoro femminile era di molto inferiore rispetto a quella dell’uomo, tenendo anche conto che quest’ultimo percepiva già per sé salari bassi. Ancora più difficili erano le condizioni delle lavoratrici madri; in caso di gravidanza le donne erano subito licenziate e non godevano di nessuna forma di assistenza e di tutela.

Presa coscienza dell’insostenibile situazione di discriminazione tra uomini e donne, venne emanato l’articolo 3 della Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. L’articolo sancisce la definitiva cessazione di ogni forma di discriminazione tra uomo e donna e rende tutti i cittadini uguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, razza, religione.

Secondo lo stesso articolo è inoltre compito della Repubblica rimuovere eventuali ostacoli di ordine economico o sociale contrari al principio di uguaglianza, che essa vuole perseguire.

Negli articoli 29, 30, 31 della Costituzione lo Stato riconosce una grande importanza alla famiglia, sempre che sia basata sul matrimonio, sia civile che religioso. Essa si basa sulla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, i quali hanno la stessa potestà sui figli, ai quali viene garantita la più ampia tutela giuridica e sociale.

Di grande importanza e novità è la Legge n. 1204 del 30 dicembre 1971, emanata a tutela delle madri lavoratrici alle quali, a partire dalla sua entrata in vigore nel febbraio 1972, vengono riconosciute particolari forme di tutela e assistenza prima e dopo il parto.

La legge si divide in 35 articoli. Di particolare interesse sono gli articoli 4 e 5: secondo l’art. 4, le donne in gravidanza non devono essere obbligatoriamente impegnate in lavori durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, tempo che può arrivare fino a tre mesi quando le lavoratrici sono impiegate in lavori che, in relazione allo stato di gravidanza, sono da ritenersi gravi e pregiudizievoli.

Dopo il parto l’assenza dal lavoro obbligatoria è di altri tre mesi che facoltativamente si possono estendere fino ad altri sei mesi entro l’anno di vita del bambino; durante questo periodo di astensione facoltativa la donna conserverà in ogni caso il posto di lavoro (articolo 7). Secondo l’articolo 2, le lavoratrici non possono essere licenziate durante il periodo di astensione obbligatoria; quindi durante i tre mesi prima e dopo il parto. La lavoratrice licenziata durante

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tale periodo ha il diritto di ottenere l’immediato ripristino del contratto di lavoro, domanda che deve presentare entro novanta giorni dall’avvenuto licenziamento.

L’articolo 15 e successivi sono relativi al trattamento economico della madre in astensione dal lavoro e garantiscono alla stessa un’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione normale per il periodo di astensione obbligatoria e pari al 30% per il periodo di astensione facoltativa. Grazie all’articolo 17 questa stessa indennità è garantita anche alle madri nel caso di rottura del rapporto di lavoro, purché tra questo periodo e la richiesta dell’indennità non passino più di sessanta giorni.

Terminato il periodo di astensione sia obbligatorio che facoltativo, il datore di lavoro deve permettere alle madri, durante il primo anno di vita del figlio, due periodi di riposo di un’ora ciascuno anche cumulabili durante la giornata; periodi di riposo che si riducono a uno, se l’orario di lavoro è inferiore alle sei ore.

Dopo il boom economico iniziato negli anni Sessanta iniziarono a delinearsi i caratteri di una nuova società che vede scomparire lo stereotipo delle famiglie numerose, dove il padre va a lavorare e la madre resta a casa ad accudire i figli e a svolgere le faccende domestiche. Grazie allo sviluppo, agli stipendi più alti, al benessere in generale si rompe quell’antico legame tra donna e casa, tra padre e lavoro, due figure con compiti diversi; le famiglie diventano meno numerose, i figli si riducono a uno o due nella maggior parte dei casi. Le donne iniziano a cercare una propria autonomia, a sentirsi realizzate dal punto di vista familiare e lavorativo, non accettando di vivere più solo tra le mura domestiche.

Per le madri conciliare lavoro e cura dei figli non è facile, c’è il vero e proprio problema istituzionale per la creazione e gestione di asili nido, nei quali lasciare i bambini mentre le madri lavorano. Ma lasciare i bambini piccoli per molto tempo a degli sconosciuti viene propagandata come un’idea non buona, ci sono i nonni che possono dare una mano.

La figura maschile, grazie a famiglie meno numerose e mononucleari, cambia aspetto ed ecco che negli ultimi trent anni si ha la riscoperta della paternità tutelata nel 1987 da una legge che concede ai padri un’astensione facoltativa simile a quella delle madri.

 

 

2.  Dalla parità alle pari opportunità

 

Un ulteriore passo contro le discriminazioni è stato compiuto con la Legge n. 125/1991 che propone “azioni positive” nella lotta contro le discriminazioni

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di fatto.

Nata con le finalità di favorire l’occupazione femminile e di realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne sul lavoro, la legge propone azioni positive, volte a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione delle pari opportunità. Uno dei problemi più scottanti è costituito dai congedi parentali, cioè da quei congedi che si richiedono per l’assistenza ai figli nella primissima infanzia, o in caso di malattia o di particolari problemi: con la Legge. n. 53/2000 (oggi T.U. 151/2001) si afferma la tutela della maternità e della paternità, mirando alla “valorizzazione della figura del genitore” (equiparando i padri alle madri), nella salvaguardia sia del posto sia del rapporto di lavoro, anche se con restrizioni di tipo economico.

È importante che il diritto ai congedi parentali sia messo in stretto rapporto col principio delle esigenze di conciliare i tempi di vita professionale coi tempi della vita familiare e che appaia evidente il tentativo di incentivare la presenza del padre lavoratore subordinato in famiglia, per riequilibrarne i ruoli.

 

3.  La disciplina regionale

 

La Regione Friuli Venezia Giulia segnala negli ultimi anni un drammatico primato: quello del calo della natalità. Di fronte a questo problema si sono emanate disposizioni legislative a tutela e sostegno della fecondità, in particolare per quella fascia di madri che, non essendo lavoratrici, sfuggono ai benefici della legge. Infatti la L.R. 49/1993 (articolo 14) stabilisce un sostegno alla maternità per le donne non occupate residenti in Regione. Riconoscendo la funzione sociale della maternità al di là del lavoro, si stabilisce la possibilità di usufruire di un assegno di maternità per le donne dal reddito limitato, non occupate, che non beneficino di indennità di maternità e che siano residenti nella Regione da almeno 3 mesi. Tra gli obiettivi della legge, quello della lotta contro la povertà, oltre alla promozione della natalità. Sostanzialmente questi orientamenti legislativi non cambiano con i successivi aggiustamenti della L.R. n. 34 26.08.1996 articolo 1 e della L.R. n. 9 20.04.1999 articolo 54.

Con la L. R. 22.02.2000, inserita nella legge finanziaria per il 2000, si nota un cambio di prospettiva, di oggetto, di finalità e di politica sociale: gli interventi divengono mirati, privilegiando famiglia (quella legale cioè fondata sul matrimonio) e cittadinanza. Infatti l’articolo 3 L.R. n. 2 stabilisce quali destinatari solo nuclei familiari ove almeno uno dei coniugi sia cittadino italiano, residente da almeno dodici mesi nel territorio regionale. Questi provvedimenti non intendono tutelare né le coppie di fatto, né le coppie sposate e da poco residenti in regione, né le coppie sposate di cittadini della comunità europea ed extracomunitari residenti in Regione da più di dodici mesi.

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L’ultima tappa è costituita dalla L. R. n. 4 26.02.2001, inserita nella Legge finanziaria 2001. In essa (articolo 4), al fine di incentivare l’incremento demografico e di sostenere la maternità, l’Amministrazione Regionale stabilisce la concessione di alcuni benefici economici (assegno una tantum; assegno mensile) ai nuclei familiari che presentino i soliti requisiti di matrimonio legale, cittadinanza italiana almeno per uno dei coniugi e di residenza in Regione da almeno un anno.

Ancora una volta si trascura di prendere in considerazione le coppie di fatto, le coppie sposate da poco o  da poco residenti in Regione, le coppie sposate di cittadini sia della comunità europea (e questo non in linea con le direttive comunitarie) sia extracomunitari residenti in Regione da più di dodici mesi. La stessa situazione si ripropone per le politiche attive anche a favore delle madri, che devono essere cittadine italiane, residenti in Regione o facenti parte di nuclei familiari in cui almeno uno dei coniugi sia cittadino italiano residente in Regione da almeno un anno.

La legge dunque non mira a tutelare la maternità, ma una certa maternità, quella delle donne preferibilmente italiane e preferibilmente sposate.

In conclusione, molto resta ancora da fare a livello regionale per una piena realizzazione di azioni positive a favore della maternità e paternità: si tratta di rimuovere gli ostacoli che creano sia discriminazione tra figli di coppie sposate e figli di coppie di fatto, sia discriminazione tra cittadini italiani e stranieri (comunitari ed extracomunitari). Bisogna cercare di armonizzare la legislazione regionale con quella nazionale, che stabilisce l’assegno di maternità per tutte le donne non occupate (articolo 66 L. n. 448/1998 (articolo 74 del T.U.) e in particolare di eliminare i contrasti che si vengono a creare con gli enunciati della nostra Costituzione.

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Le interviste, i racconti di vita e le biografie di donne importanti

 

Introduzione

 

Da sempre donne di particolari doti, cultura, volontà hanno superato ostacoli e difficoltà, vincoli, discriminazioni e divieti e hanno raggiunto le vette più alte in tutti i campi del sapere, della cultura, della scienza, della tecnica, della religione, della politica, dell’economia. Nel secolo appena concluso molte donne anche in Friuli si sono sapute conquistare spazi e riconoscimenti di alto livello grazie ai loro meriti. Noi ne abbiamo cercate alcune ed è stata un’emozione incontrarle e interloquire con loro. Ne abbiamo ascoltate di appartenenti alle tre generazioni da noi intervistate, interessate e impegnate in diversi ambiti: nel mondo della scienza Margherita Hack, nel campo della gestione aziendale Maria Teresa Tonutti, Livia Sina e Lorella Volpato, in ambito storico e culturale Maria Fanin e Alessandra Kersevan, in ambito sportivo Manuela di Centa, nel campo della pubblica amministrazione Francesca Finco e Luisa Tullio, nel campo delle libere professioni Rosa Ricciardi, in ambito politico Valentina Pellizzari e Cecilia Schiff, nel settore della musica d’autore Silvia Michelotti.

Hanno tutte dimostrato di possedere qualcosa di profondo che le accomuna: una chiara passione per l’attività svolta, una ricerca di rigore e di intensità nella qualità dell’impegno, un’onestà intellettuale e morale spiccata; poi viene tutto il resto, il vissuto, le idee, le modalità, i sentimenti diversi dati dai tempi, dai luoghi, dalle esperienze della loro vita, dalla cultura delle famiglie di appartenenza. Alla base comune delle esperienze di queste donne di successo comunque sta una scelta di cultura che tutte hanno sviluppato inizialmente nelle scuole e nelle Università. Seguono le loro testimonianze suddivise tra interviste, racconti di vita e biografie.

 

 

Interviste e racconti di vita

 

Manuela Di Centa, atleta

 

D: Come giudica una donna che lavora? E le faccende domestiche sono considerate un lavoro?

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R: Non ritengo opportuno dare un giudizio. Considero scontato il lavoro della donna. Anche se le faccende domestiche non sono considerate un lavoro, impegnano molto la donna e la limitano nella scelta della sua ideale professione, vincolandola alla famiglia. Un esempio di mancata affermazione professionale femminile è la vita politica, nella quale oggi la donna è presente soltanto nella misura del 10%. Io faccio parte di questo 10% in quanto sono membro del parlamento nazionale dello sport.  Ritengo di aver raggiunto il mio sogno professionale e auguro a tutte le donne di poter svolgere un lavoro soddisfacente dal punto di vista sia sociale che economico. In Carnia, purtroppo, ci sono ancora discriminazioni tra uomo e donna dovute alle diversità ancora presenti in aree di montagna, forse maggiori che in pianura o in città. Qui sono presenti maggiori difficoltà per la realizzazione professionale femminile.  Noi siamo un popolo forte, con forti radici, ma con poca propensione ad aprirci verso l’esterno. Io ringrazio la Carnia per avermi fortificata come persona. Da queste radici deriva la mia tenacia.

D: Come riesce a conciliare l’impegno personale con gli impegni sportivi?

R: Indubbiamente bisogna fare delle scelte che spesso comportano sacrifici. Io ad esempio ho dovuto staccarmi dai miei familiari per fare ciò che desideravo. Comunque sapevo di poter contare sempre su di loro, anche perché ho sempre mantenuto i contatti. Oggi a 35 anni inizio a pensare anche a metter su famiglia, ma non è così facile. Più sei famoso più sei solo e non riesci a trovare persone che sappiano starti vicino e non ostacolino le tue scelte. Le persone che sono state al mio fianco sapevano quale sarebbe stata la mia vita e non mi hanno messo i bastoni tra le ruote, perché hanno riconosciuto che la libertà è un punto fondamentale per la persona nel momento in cui inizia a lavorare.

D: Quali possono essere i lavori più idonei a una donna?

R: Non c’è nulla di non idoneo a una donna; mi dispiace vedere che in alcuni settori non è presente e, se lo è, non è considerata allo stesso livello dell’uomo. Le politiche sociali fino ad ora sono state maschiliste.

D Secondo lei, quanto ha influito il lavoro della donna nello sviluppo economico della Carnia?

R: La donna reggeva i “trei cjantons da cjase”,  doveva provvedere a tutto il fabbisogno della famiglia e si sostituiva all’uomo che era costretto a emigrare a causa delle scarse possibilità di lavoro. Purtroppo ufficialmente questo non le veniva riconosciuto. Soprattutto in Carnia, la donna ha avuto un ruolo fondamentale: era donna soldato, donna che moriva per la patria, donna contadina, donna educatrice e madre. Si è trattato di donne forti che hanno trasmesso un mondo di conoscenze, valori e comportamenti alle loro figlie e figli.

D: È cambiata la sua vita con il successo?

R: Sì, è cambiata. Il successo è stato graduale e le soddisfazioni non sono mancate. Ho iniziato a sciare a quattro anni e ho finito a trentacinque. In

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questo periodo c’è stata una continua crescita di risultati che hanno fatto nascere in me un grande senso di responsabilità.  Fino al 1981 lo sci di fondo, oltre a essere esclusivamente maschile, era poco considerato. Ritengo di essere stata unapripista, perché ho preparato la strada per chi mi ha seguita, fondando la prima squadra femminile italiana di questo sport.  Queste limitazioni e difficoltà hanno reso i miei risultati ancora più gratificanti. Ho dovuto combattere su due fronti, quello dei risultati sportivi da ottenere nelle gare, e quello dell’immagine, della considerazione e del riconoscimento della sci di fondo femminile; devo dire di esserci riuscita. Un aspetto negativo del successo è non riuscire a cogliere la nuova dimensione, in cui ci si trova a vivere.  Comunque ho sempre cercato di valutare i successi solo come attimi ai quali segue qualcos’altro. Il vero successo è quello che uno sente dentro.

 

 

Margherita Hack, astrofisica

 

L’8 marzo 2002, in occasione della festa della donna, l’astrofisica prof. Margherita Hack ci ha allietato con la sua presenza presso la nostra scuola, l’ITC “A. Zanon” a Udine. Questa che segue è la relazione dell’intervento tenuto dalla prof. Hack alla presenza di alcune classi del nostro Istituto. Noi poi le abbiamo posto alcune domande, alle quali ha risposto con molta gentilezza.

 

“L’Uomo ha tentato fin dai tempi più remoti di comprendere l’universo in cui si trova immerso e del quale fa parte, prima con la mitologia, poi con la filosofia, infine con la scienza. Una delle sfide più affascinanti intraprese dalla moderna astronomia è quella di capire non solo come sia strutturato l’Universo, fin nei suoi più remoti confini, ma anche come esso abbia avuto origine, si sia evoluto, quale sia il suo destino. È questa una curiosità insita nell’Uomo poiché dentro di lui vi è sempre più o meno nascosto il desiderio di sapere da dove siamo venuti e che destino finale sarà riservato all’Umanità.

La classe politica italiana si è dimostrata miope per decenni nel non considerare troppo l’importanza della cultura. È un fatto, lo prova che tutte le volte in cui c’è una crisi di governo e c’è un tot di ministri da nominare,  tutti si discute su chi sarà il ministro degli Interni, degli Esteri, delle Finanze, del Tesoro…Ma della Cultura, dell’Università, della Pubblica istruzione, che ora non si chiama nemmeno più pubblica, nessuno si domanda chi sarà il ministro. Questo è proprio un segno della poca importanza che si dà a questo ministero; qualche anno fa c’era stata una scelta molto saggia, quella di dividere il ministero della Pubblica istruzione da quello dell’Università e delle ricerca scientifica e tecnologica. Ora sono stati di nuovo accorpati insieme, sebbene gli ambiti siano

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abbastanza diversi, perché la ricerca richiede un organismo agile, richiede decisioni rapide, mentre la pubblica istruzione ha esigenze diverse. Un altro segno che indica la poca importanza data alla cultura è che anche tutti gli assessori comunali, assessori provinciali di questo comparto sono al 90% donne, il che vuol dire che sono gli uomini che tendono a prendersi sempre le poltrone che ritengono più prestigiose e queste le lasciano alle donne. Questo è un grossissimo sbaglio, perché la cultura scientifica è fondamentale, se vogliamo che l’Italia mantenga il suo posto di quarta potenza europea, di sesta potenza economica mondiale. È fondamentale che la cultura sia considerata importante, che si dia più spazio ai giovani ricercatori, che sono quelli da cui arrivano le innovazioni; purtroppo nella finanziaria del 2002 sono stati operati tagli pesanti alla ricerca scientifica e, cosa ancora più grave, si è fermato il turn over, il ricambio dei giovani ricercatori. Ora non solo l’Italia ha la metà di ricercatori della Francia e dell’Inghilterra che sono paragonabili all’Italia per popolazione, ma il 65% dei ricercatori italiani ha più di cinquantatre anni, il 75% ha più di quarantasette anni. Dalle statistiche mondiali sappiamo che, soprattutto nella scienza, l’innovazione viene dai giovani; il 7% ha meno di quarant’anni, quindi il divario di età del caso italiano è un grosso danno.

Le donne hanno subito attraverso i secoli una forte emarginazione, basti pensare che fino agli inizi del Novecento le donne diplomate erano una rarità; spesso non erano ammesse ai licei e neppure alle università; il grande sviluppo della donna è avvenuto praticamente nella seconda metà del Novecento. I primi anni del Novecento fu introdotto in Italia il suffragio universale, che però riguardava metà della popolazione, cioè soltanto agli uomini. Questo è un segno di come si considerassero le donne, delle sottosviluppate, delle sub-cittadine, le quali avevano tutti i doveri perché, se contravvenivano alla legge, andavano in galera, ma non avevano alcun diritto. Sotto il fascismo nessuno aveva il diritto di voto, nemmeno gli uomini, ma dal 1945 fu dato giustamente il voto alle donne, che avevano contribuito caldamente alla lotta di liberazione e alle guerre partigiane. È ricominciato, allora, lo sviluppo delle donne in tutti i campi e solo in questi ultimi cinquant’anni vanno ricordate delle date importanti. Nel 1958 la legge Merlin ha reso illegale quella forma di schiavitù che è la prostituzione controllata dallo stato. Nel 1966 si ebbe il “caso della zanzara”, i più giovani non sanno di cosa si tratta: si tratta di un giornalino che era pubblicato al liceo Parini di Milano, in cui tre ragazzi della terza liceo fecero un’inchiesta sulle abitudini sessuali dei giovani; questo suscitò grandissimo scandalo addirittura i ragazzi furono espulsi dalla scuola; questo per dare un’idea di cosa era nel 1966 la pruderie della società italiana. Nel 1969 la legge Fortuna-Baslini introdusse il divorzio nella legge italiana; nel 1974 il referendum per abolire il divorzio comportò una valanga di no. Nel 1975 venne approvato il nuovo diritto di famiglia e molti giovani non lo sanno quanto questa legge sia importante. Prima del 1975 le donne dovevano seguire il marito, se una donna aveva una sua professione e il marito per il suo lavoro veniva trasferito in un’altra città, la donna doveva abbandonare il proprio lavoro, la propria carriera e cambiare i propri progetti per andare al seguito del marito. Quindi il nuovo diritto di famiglia, che ha dato parità di diritti a uomini e donne, è stato

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estremamente importante. Dal 1978 l’aborto non è più reato. Finalmente nel 1999 è caduta l’ultima barriera, cioè l’accesso della donna alla carriera militare; a tale proposito molte donne si sono dichiarate contrarie, perché ritengono che il ruolo della donna debba essere pacifico, ma io credo che le donne abbiano il diritto di scegliere e quindi è giusto che siamo libere di accedere a tutte le carriere; questo non vuol dire essere militaristi, ma vuol dire lasciare piena libertà a ogni individuo, uomo o donna che sia, di scegliere la propria via.

Queste sono le date fondamentali per cui oggi la legge riconosce pieni diritti e piena uguaglianza alle donne, all’atto pratico però ci sono ancora molte discriminazioni, soprattutto nella mentalità, nella società, nel costume. Ad esempio basta vedere quante poche donne siedono al Parlamento e al Senato, come ci sia un’unica donna nella Corte Costituzionale, dove due seggi sono ancora vacanti; ci sono moltissime donne che hanno piena capacità per ricoprire questi incarichi, però nessuno ne parla. C’è ancora moltissimo da fare in pratica per far raggiungere alle donne diverse opportunità, anche se la legge le riconosce. Quindi io direi che la storia della donna nella cultura e nella vita civile attraverso i secoli è stata sempre una storia di emarginazione fino alla fine del secolo scorso.  Questo spiega perché nella società civile ci sono ancora tante regole discriminatorie e una mentalità che stenta ancora oggi a riconoscere alle donne il pieno diritto che ormai la legge invece impone di osservare. Ad esempio si ritiene che la scienza sia più adatta agli uomini  che alle donne. Questo è assolutamente falso e dipende dal fatto che nel passato ci sono state pochissime donne scienziate, anche se ce ne sono state di grandi; dipende dal fatto che la scienza richiede una preparazione o un’istruzione che invece magari gli altri studi non richiedono.

In questi ultimi cinquant’anni tra i ricercatori scelti, tanto per dare un’idea, le ricercatrici rappresentano il 67% in Irlanda; il 43% in Germania; il 37% in Finlandia; il 29,7% in Francia; il 24,9% in Austria; il 24% Portogallo; il 26,9 in Norvegia; il 29% in Grecia; il 21,1% in Belgio; il 19,5% in Danimarca; il 14% in Gran Bretagna; mentre in Italia siamo circa al 33% di donne nei campi scientifici e qui naturalmente le percentuali divergono nei vari rami: rappresentano il 27% in Biologia; il 15% nella chimica.”

 

D: Cosa è necessario fare per risolvere il ritardo nell’affermazione delle giovani donne che lavorano  in campo scientifico?

R: Oggi le giovani sono molto più numerose anche nelle facoltà scientifiche e l’idea di donne che non siano adatte alla scienza dipende proprio dal fatto che in passato solo la possibilità di accedere alle scuole superiori, di accedere all’università, permetteva di proseguire l’attività nel campo scientifico, mentre appunto, come dicevo, nel campo letterario e artistico è considerata necessaria una minore preparazione di base. Se uno ha questo dono dell’intuizione, della capacità letteraria artistica non può che emergere; nel campo scientifico invece sono necessarie conoscenze di base fisiche e matematiche e quindi negare l’accesso all’istruzione, che permette di emergere in questo campo, significa escludere completamente chi non ha la formazione necessaria.

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Comunque negli ultimi anni, diciamo in questo mezzo secolo appena finito, le donne sono avanzate e oggi rappresentano più del 50% delle ricercatrici, cioè del livello più basso della carriera universitaria; rappresentano il 20% e il 30%, a seconda delle facoltà, dei professori di seconda fascia; invece sono ancora ferme al 10-11% a livello di professore di prima fascia. Questi numeri però sono destinati a crescere, perché la donna ha cominciato a frequentare in massa l’università e a scegliere le facoltà scientifiche negli ultimi trenta  o quaranta anni; per esempio i dati del 1998 dicono che gli immatricolati all’università sono 140.500 maschi e almeno 164.000 ragazze e gli immatricolati al corso di diploma universitario sono 13.900 maschi e 14.000 femmine; quindi ormai la parità e anche più della parità è stata raggiunta dalle donne per quanto riguarda l’istruzione superiore. Lo stesso non può dirsi però per la carriera; ancora le donne tendono a essere discriminate, non ufficialmente però. Io credo che questo dipende dal costume e quindi dipende anche dalla volontà delle donne e dalla loro forza di imporre le proprie capacità. Quindi penso che la strada sia aperta.

D: Qual è stato il suo percorso scolastico?

R: Io ho frequentato il liceo classico e nel 1940 ho ottenuto la maturità. In realtà quell’anno non si ebbe nessun esame a causa dell’entrata in guerra e così si veniva promossi o bocciati a seconda della media dei voti dell’anno. Poi mi sono iscritta alla Facoltà di Lettere a Firenze perché i miei genitori pensavano che avrei fatto la giornalista. Ho seguito una sola lezione e ho cambiato subito, mi sono iscritta alla Facoltà di Fisica, dove mi sono trovata bene. Volevo fare una tesi di elettronica e invece mi capitò di fare una tesi su un argomento nuovo e interessante: l’astrofisica. Ed è così che nacque la mia passione per questa scienza. Mi sono laureata sotto le bombe, avevamo gli alleati a sud e i tedeschi a nord. Comunque ho fatto osservazioni per la tesi in un osservatorio di astrofisica, usando strumenti vecchi e un telescopio di soli trenta centimetri di diametro, che, per quanto riguarda le caratteristiche tecniche, non può essere paragonato a quelli di oggi, e mi sono poi laureata il 15 gennaio del 1945 con lo studio su una classe di stelle variabili.

D: Com’è entrata nel mondo del lavoro?

R: Ho svolto un’attività di precariato e successivamente sono andata a lavorare in un’industria a Milano, poi mi si è ripresentata la possibilità di tornare a Firenze. Ho ricevuto riconoscimenti per il mio operato da Francia, Olanda e America.  Ho vinto la cattedra all’Università di Trieste nel 1964, non ho subito discriminazioni, ma avevo molti più titoli e pubblicazioni dei miei colleghi maschi. 
La ricerca astrofisica riguarda la fisica dei corpi celesti che costituiscono l’universo. L’universo viene osservato con telescopi che oggi sono strumenti internazionali, posti in aree non abitate; l’Italia fa parte di un consorzio che possiede un enorme telescopio europeo sul Monte Paranal nelle Ande cilene. Il 1968 è stato per l’Italia un anno importante per l’astronomia, perché il nostro
Paese ha partecipato alla creazione di gruppi di ricerca internazionale e gli scienziati italiani hanno avuto la possibilità di confrontarsi con l’estero. La scienza dell’astrofisica è iniziata nell’Ottocento in Italia, ma poi c’è stato un buco

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nella ricerca fino al 1968. Ciò ha causato alcuni ritardi e oggi fra i ricercatori astrofisici le donne sono al 30 - 35%. Molte ricerche sono guidate da donne, nei paesi latini le donne occupano più posti di responsabilità che nei  paesi anglosassoni e in America, dove ci sono più discriminazioni.

D: Com’era la situazione della donna a Trieste?

R: Io sono qui dal 1964 e posso affermare con certezza che la situazione della donna a Trieste in passato era migliore che nel resto d’Italia. Oggi la situazione è molto migliore anche nel resto del Paese.

D: La sua famiglia l’ha aiutata?

R: Sì, la mia famiglia mi ha sempre sostenuta in tutto; anche lo sport mi ha aiutata a formarmi un carattere tenace. La mia famiglia era molto aperta e mi ha lasciato grande libertà e responsabilità; ero indipendente, non sono mai stata condizionata. Grazie anche al compagno della mia vita, che mi ha sempre incoraggiata. Comunque la cosa più importante è avere la libertà.

D: La donna che lavora a suo parere può avere una famiglia?

R: Ognuno ha diritto ad avere sia una famiglia che una carriera. Uno deve saper vivere sia la propria vita familiare che quella lavorativa, soprattutto per le donne che devono sviluppare la propria personalità. Nessuna donna deve sacrificare la propria professione!

 

 

Alessandra Kersevan, storica e operatrice culturale

 

Alessandra Kersevan appartiene alla fascia delle donne della seconda generazione; insegnante di Materie letterarie nella scuola media fino al 1992, si è sempre interessata di ricerca storica sul territorio, di cultura, musica e lingua friulana. Ha collaborato con l’Istituto di Didattica delle Lingue Moderne dell’Università di Udine nella produzione di materiali didattici. Ha curato un’antologia di letteratura friulana. È titolare di una casa editrice che gestisce direttamente.

 

D: Fino a che età ha frequentato la scuola e che tipo di scuola ha frequentato?

R: Io ho frequentato ragioneria a Monfalcone dal 1965 al 1969. Nel ‘69 ho sostenuto l’esame di maturità, il primo anno dell’esame nuovo, di nuovo tipo,

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però diciamo che ragioneria, computisteria, economia e le altre materie di questo genere non erano proprio quelle che mi piacevano di più, preferivo le materie umanistiche tipo storia, filosofia, letteratura. Mi sono iscritta all’università l’anno successivo, alla Facoltà di Economia e Commercio, che era uno dei pochi sbocchi possibili per chi era diplomato ragioniere, oltre, mi pare, a statistica e altre due o tre facoltà. Ero già abbastanza disperata, perché non mi piaceva continuare quel tipo di studi. Io mi sono iscritta in novembre, ma pochi giorni dopo è stata approvata la leggina Codignola. Codignola era un personaggio del partito socialista di quegli anni, che aveva proposto una legge che apriva l’accesso universitario in tutte le facoltà a tutti i diplomati a prescindere dal tipo di diploma posseduto, chiunque poteva iscriversi alla facoltà preferita. Io sono stata fortunata anche in quel senso: oltre al primo anno con il nuovo esame di maturità, ho fruito del vantaggio di potermi iscrivere all’università senza vincoli. Così io sono corsa a cambiare facoltà, a iscrivermi da Economia a Filosofia. Dico la verità che per me quella è stata una gran fortuna, perché ho potuto studiare quello che in quel momento mi interessava di più, ho potuto seguire un percorso particolare, che riguardava soprattutto la storia, e mi sono laureata nel 1974 con una tesi in Storia contemporanea.

D: Per quale motivo ha scelto quest’indirizzo scolastico? È stata influenzata da qualcuno?

R: Avevo scelto l’istituto per ragionieri per motivi non dipendenti da me; io provenivo da una famiglia operaia piuttosto povera, eravamo quattro figli, mio padre lavorava in cantiere a Monfalcone, quindi non è che ci fossero grandi possibilità. Io ero la terzogenita, i miei due fratelli maggiori avevano frequentato soltanto la scuola dell’obbligo, l’avviamento, come si chiamava allora, perché c’era ancora la differenza tra avviamento, finalizzato al lavoro, e scuola media, finalizzata alla prosecuzione degli studi. Io avrei dovuto seguire lo stesso destino dei miei fratelli, se non che in quegli anni, il 1961 - 1962, cominciava il boom economico, un certo benessere, la scolarizzazione di massa, io ero brava a scuola e quindi i miei genitori mi hanno iscritta alle medie; poi sono andata all’istituto per ragionieri, perché era vicino a casa mia. Uscivo di casa e arrivavo a scuola, e quindi non c’erano spese di trasporto, di mantenimento fuori casa, così la mia famiglia, dato che i miei due fratelli maggiori lavoravano, poteva a quel punto permettersi di farmi andare ancora per cinque anni a scuola. La scelta naturalmente doveva ricadere su un indirizzo di studi che portava a lavorare dopo il diploma. C’era stata un’inclinazione non dipendente dalle mie preferenze, mi ero adeguata, del resto per me era già una gran conquista poter far questo in quegli anni, ero grata ai miei genitori che mi avessero mandata alle superiori, anche se non si trattava del corso adatto a me, non è che pretendessi di più.

D: A che età ha iniziato a lavorare?

R: Io, prima di lavorare seriamente, ho fatto anche dei lavori che non dipendevano dal corso di studi che avevo seguito. La mia famiglia a un certo punto aveva in gestione un bar e quindi io dai sedici anni alcune ore al giorno lavoravo in bar per dare una mano. La mia professione di insegnante è iniziata

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a venticinque anni, appena laureata; nell’anno scolastico 1975-1976 ho avuto le prime brevi supplenze della mia carriera, poi ho insegnato fino al 1992.

D: È stato difficile trovare impiego?

R: In quegli anni era ancora abbastanza facile entrare nella scuola, anche se, per riuscire a entrare di ruolo, mi sono stati necessari sei o sette anni di precariato. Nel 1975-1976 ho frequentato il corso abilitante per l’insegnamento e contemporaneamente ogni anno ottenevo incarichi di supplenza sempre più lunghi: il primo anno uno, due mesi, poi il secondo anno già una supplenza annuale, poi l’incarico a tempo determinato; nel 1980 ho avuto il primo incarico a tempo indeterminato e nel 1981 sono entrata di ruolo. Da quando ho cominciato la professione per sei anni sono sempre andata girando per varie scuole della Regione, ma non mi è mai capitato di andare lontanissimo da casa come è successo ad alcune colleghe, che hanno dovuto insegnare per qualche anno in montagna.

D: Ha trovato discriminazioni tra uomini e donne all’interno dell’ambiente scolastico?

R: No, nella scuola in quegli anni non c’erano discriminazioni di questo genere, anche perché la scuola si stava comunque femminilizzando, quindi non c’era una grande concorrenza con i maschi; certo, nell’ambiente della scuola i presidi erano maschi, però in quegli anni cominciavano anche a esserci le presidi donne. No, direi che non era questo il problema della scuola, casomai discriminazioni di altro genere, non penso tra maschi e femmine.

D: Cosa ne pensa delle donne manager?

R: Prima di rispondere devo chiarire una cosa: io come insegnante, come lavoratrice dipendente dello stato, ho terminato nel 1992 e poi ho cominciato un’attività per conto mio, insieme con il mio compagno,  in questa ditta che si chiama “Kappa Vu.” È un’attività varia come lavoro, nel senso che si spazia dalla ricerca storica, alla composizione a computer dei libri, all’organizzazione di presentazioni di eventi culturali e di diversi generi di manifestazioni, che possono essere collaterali alla preparazione di libri. Io non sono una donna manager in senso canonico. Penso che ogni donna, come ogni uomo, faccia le scelte che ritiene più opportune. E’ vero che non sempre si è liberi di scegliere e certo la pressione che c’è nel mondo del lavoro di oggi, a dover essere sempre perfettamente aggiornati su qualsiasi cosa, essere sempre primi, conoscere sempre tutto, saper anche sgomitare,  non sempre permette di scegliere. Si creano situazioni stressanti, che, secondo me, non fanno molto bene nemmeno al lavoro, nonostante si dica che questo stimola la concorrenza fra le persone e quindi alla fine fa emergere chi è più bravo. Secondo me, questo clima stressante in realtà non fa emergere chi è più bravo, ma chi ha determinate doti psicologiche, che non necessariamente sono le più adatte al campo specifico del lavoro. In realtà questo clima di concorrenza, che fa parte del mondo dei manager, non trovo faccia tanto bene né alle persone, né alla resa lavorativa, professionale, artistica. Secondo me, questo accade anche nella

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scuola. Prima delle attuali riforme, che hanno creato margini per un certo tipo di carriera o per fare determinati progetti, io mi ricordo che fino al 1992 tantissime insegnanti realizzavano progetti meravigliosi con lo stipendio che prendevano, senza che ci fosse nessun genere di stimolo concorrenziale, ma semplicemente perché credevano in quello che facevano. Io credo che, se si creano determinati contesti, ci possono essere altri stimoli per far bene il lavoro; certo che adesso il mondo è impostato tutto in un altro modo. Credo che le donne, entrando nel mondo dirigenziale delle strutture sia pubbliche che private, dovrebbero cercare di modificare questi rapporti, però probabilmente anche le donne vengono un po’ stritolate dal meccanismo.

D: Abbiamo visto la sua rivista che esce ogni mese, la Comugne, volevamo farle due domande al riguardo: da dove nasce la decisione di scriverla in friulano e se nel settore in cui lei lavora, l’editoria, ci sono più uomini o più donne.

R: Il progetto della rivista la Comugne era quello di esercitare la lingua friulana in tutti gli ambiti della espressività. L’italiano non si usa solo per comporre poesie, ma anche per dare ordini, scrivere relazioni, stendere articoli, per scrivere romanzi, racconti brevi, per scrivere su Internet, messaggi sms, saggi scientifici e tante altre cose, e quindi una lingua si arricchisce, se viene usata in tutti i registri possibili. La scommessa di questa rivista era quindi quella di raccogliere scritti in cui lo scrittore si cimentasse in tutti i campi dell’espressione friulana scritta. Sono quindi presenti nella Comugne racconti, saggi, critiche, articoli di commento.
Per la seconda domanda
: sono molto più numerosi gli uomini che le donne a svolgere questo tipo di attività; non saprei dire il perché. Sono molte le donne che scrivono poesia in friulano, invece in questi altri generi di scrittura ce ne sono di meno.

D: Si tratta di persone che scrivono in friulano per l’occasione di scrivere sulla sua rivista o abitualmente usano il friulano come lingua scritta?

R: Sia questo che quello; alcuni scrivono abitualmente in friulano perché preferiscono questa lingua, altri avevano scritto in italiano e poi hanno pensato di tradurre, altri ancora hanno scritto in italiano e ci hanno poi concesso di tradurre il testo, in quanto interessati a questo progetto linguistico. L’interesse che c’è dietro a questo lavoro è un interesse di tipo linguistico-culturale e anche in qualche modo politico, nel senso che tutti quelli che ruotano intorno a questa rivista sono interessati al rapporto fra globale e locale:  il friulano è una lingua che è stata per svariati motivi storici, geografici, sociali e politici emarginata in passato come sono stati emarginati anche i friulani. Fino al 1976, l’epoca del terremoto, il Friuli era una terra di emigrazione e di grande sottosviluppo. Poi il terremoto nella sua drammaticità è stato in qualche modo una opportunità, nel senso che la vita nelle tendopoli e le difficoltà che le decine di migliaia di persone vi incontrarono fecero prender coscienza dell’appartenenza a un territorio storicamente emarginato e così nacque un desiderio di riscatto; inoltre qui sono arrivati molti soldi da tutta Italia dopo il terremoto,, si è sicuramente riusciti ad approfittare di questa situazione per sviluppare l’economia e questo

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credo sia stato unito anche al fatto che lo sviluppo politico andava nel senso di un aumento di rapporti economici fra Est e Ovest. Così il Friuli e tutto quello che viene chiamato il Nord-Est sono finiti per essere una zona abbastanza importante dal punto di vista dei traffici, dei commerci, e quindi tutta una serie di possibilità si sono accumulate in un particolare momento, per cui oggi qui abbiamo una situazione di benessere che è diventata quasi proverbiale. Ciò non toglie che i friulani, la loro lingua, la loro cultura siano stati oggetto di pressioni in passato e che questa condizione è addirittura stata riconosciuta dalla Costituzione repubblicana, perché l’articolo 6 della Costituzione prevede il riconoscimento e la valorizzazione delle minoranze linguistiche e culturali, non soltanto del Friuli, ma anche della Sardegna, della Sicilia, delle minoranze greche, e tante altre. Oltre a questo diritto dei friulani di vedere rivalutata la loro storia, cultura e lingua, c’è anche il fatto che comunque questa lingua c’è e mi sembra divertente, interessante, curioso e bello provare a vedere se la si può usare, adattare, arricchire, per altri usi moderni. Ci sono vari tipi di motivazioni, da quelle più politiche come la difesa delle minoranze, a quelle più intellettuali.

D: Come si è inserita nell’ambito musicale?

R: Io ho sempre cantato per hobby, anche se poi questa cosa mi è servita professionalmente, nel senso che come casa editrice, noi, io e il mio compagno, Giancarlo Velliscig, abbiamo iniziato pubblicando libri per bambini, di didattica del friulano, accompagnati da audiocassette nelle quali io e Giancarlo cantavamo, scrivevamo i testi, Giancarlo componeva le musiche. Poi il fatto di cantare, di avere a che fare con la musica si è trasformato in tante altre cose, nel senso che adesso Giancarlo organizza moltissimi festival musicali tipo “Udine Jazz”, “Onde Mediterranee” e altre cose di questo genere. Assieme facciamo spettacoli di tipo musical-teatrale. Quindi la passione per la musica si è sviluppata anche professionalmente, ma non è che sia la mia professione. Diciamo che io e Giancarlo abbiamo fatto già in anticipo sui tempi quello che dicono che si debba fare oggi in generale per mestiere, cioè essere disponibili a fare tante cose e cambiare continuamente. Cosa che, se fatta per hobby, è divertente, se invece si è costretti, è stressante.

D: Quindi lei ha fatto la professoressa e ha svolto - e svolge tuttora - l’attività di editrice, storica, cantante. Fra questi lavori e passioni, quali sono le cose le hanno dato più stimolo a continuare e quali invece le hanno causato problemi?

R: La voglia e lo stimolo mi viene dal fatto che mi vengono sempre e continuamente nuove idee e ho voglia di realizzarle; l’unico limite sono i soldi che non si trovano, le iniziative costano troppo e spesso bisogna impegnarsi in attività che danno guadagno, ma poca soddisfazione dal punto di vista intellettuale. Le difficoltà che si incontrano a reperire finanziamenti, a trovare corrispondenza nel pubblico, nel “mercato” mi fanno tante volte passare la voglia di fare. Anche perchè effettivamente c’è un altro tipo di discriminazione nella nostra società, oltre a quella nei confronti delle donne, che è quella di tipo politico: chi fa parte del giro, è avvantaggiato, chi non fa parte del giro, fa molta fatica a farsi riconoscere, a ottenere finanziamenti, a ottenere attenzione da parte dei

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giornali. Noi, ad esempio, qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo conquistarcela con le unghie e con i denti. Questa è una situazione abbastanza stancante; il fatto di essere io e Giancarlo assieme, di incoraggiarci uno con l’altro, di sostenerci, questo è sicuramente utile, anche se a volte provoca dei problemi perché capita, a volte, di non andare d’accordo su certe scelte; però sono più numerosi gli aspetti positivi che quelli negativi. Per cui certe volte mi verrebbe voglia di mettermi semplicemente a fare qualche ricerca, scrivere e lasciare perdere gli aspetti più “imprenditoriali”. Però la vita porta a dover fare anche quello.

D: Come riesce a conciliare il lavoro con gli impegni familiari? Ha dovuto fare delle rinunce?

R: Questo è stato un grandissimo problema, perché nella nostra società non è che ci siano strutture e attenzione nei confronti delle donne che lavorano; e non solo per quelle che vogliono fare un lavoro in proprio, ma anche per quelle che svolgono un lavoro dipendente in generale. Però il problema sorge ulteriormente per chi fa un lavoro indipendente, nel senso che, chi fa un lavoro dipendente ha un orario fisso, per cui può riuscire a organizzarsi in base ai suoi impegni; su chi fa un lavoro autonomo, in cui le necessità ti portano a dover lavorare anche molte più ore al giorno di quello che sarebbe giusto si esercita una pressione continua e una difficoltà nell’organizzare la giornata. Mancano asili nido, hanno smantellato la scuola a tempo pieno, non ci sono tutta una serie di aiuti dal punto di vista dell’assistenza dei bambini: soprattutto questo è il problema, perché i lavori di casa si può anche non farli, quando non si arriva! Il problema principale è seguire i bambini! Da quel punto di vista hanno un bel dire che vogliono che ci sia una maggiore natalità, visto che un milione all’anno che lo Stato dà, è una miseria. Bisognerebbe che si organizzassero asili nido, asili con orari flessibili, scuole a tempo pieno…e credo che in questo modo sarebbero molte le donne a desiderare un nuovo figlio. Per me è stato un problema grosso, perché non avevo un aiuto da parte dei miei genitori; anche se sia io che Giancarlo abbiamo ancora le nostre mamme, loro abitano distanti da qui, per cui il loro aiuto è stato saltuario. Per cui sono diventata matta ad andare avanti e indietro, a correre, a portare i bambini a scuola ad accompagnarli alla palestra di basket, a cucinare. Adesso i miei tre figli sono abbastanza grandi, quindi non ho più questi problemi.

D: Quindi è riuscita a portare avanti tutti e due gli impegni, sia quello lavorativo che quello familiare?

R: Sì, però non bene come avrei voluto, né questo né quello! Sicuramente per i figli una mamma che sta a casa è un valore importante, bisognerebbe valorizzare anche questo aspetto. Naturalmente anche un padre che sta a casa potrebbe essere importante.

D: Cosa pensa del lavoro domestico?

R: A me non piace fare i lavori di casa, mi annoiano terribilmente. Mi piace fare da mangiare, ma quando non ho altri impegni. Mi piacerebbe anche avere una casa ben tenuta, però ogni volta che mi propongo di farlo, non dura più di qualche giorno. Non mi ritengo una brava donna di casa, anche se

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credo, come ho detto prima, che saper far bene anche i lavori di casa sia un valore notevole. Potrebbe essere considerato come ogni altro tipo di lavoro, potrebbero farlo anche i maschi! La cosa migliore sarebbe mettersi d’accordo tra maschi e femmine, marito e moglie, compagno e compagna, e fare ognuno una parte senza lasciare tutto sulle spalle della donna.

 

 

Silvia Michelotti, cantautrice

 

Silvia Michelotti appartiene alle donne della terza generazione; ha 21 anni, è cantautrice, compone testi in friulano e inglese, li musica e li interpreta. Ha vinto il premio Friûl 2001.

 

D: Quanti anni hai?

R: Ho ventuno anni.

D: Qual è stato il tuo percorso scolastico?

R: Ho iniziato frequentando il corso pedagogico all’Uccellis di Udine, dove sono stata spronata dall’insegnante di Filosofia e di Lettere a portare avanti la mia passione che è la musica.

D: Come mai hai scelto il corso di pedagogia?

R: Ho scelto questo corso forse anche perché mia madre è maestra d’asilo e poi era la scuola che più mi affascinava, poiché mi piacciono i bambini.

D: Perciò hai avuto dei modelli?

R: Sì, mia madre.

D: E ora stai studiando?

R: Dopo le superiori è nata l’idea di fare qualcosa in campo artistico, per questo ora seguo un corso di tecnico audiovisivo multimediale a Pordenone. Il corso che seguo ora è un luogo dove condividere i sogni. Qui mi interesso di cinema, fotografia, ambiente. È una laurea breve.

D: Quando hai iniziato a suonare?

R: Ho iniziato a suonare in prima superiore da sola e anche a cantare. Ora seguo delle lezioni di solfeggio e flauto traverso.

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D: Quali sono stati i modelli a cui ti sei ispirata?

R: Mi sono ispirata a Jeff Buckley, Jimi Hendrix, Kurt Cobain ed Eric Clapton, perché attraverso la musica riescono a trasmettermi molte emozioni.

D: Che cantanti italiani ti piacciono?

R: Ammiro molto Elisa.

D: Cosa esprimi con le tue canzoni?

R: Io con le mie canzoni esprimo quello che non va dentro di me. Partono da un mio disagio personale interiore. La musica rispecchia l’anima.

D: Cosa vuol dire suonare per te?

R: Per me suonare è una questione di sopravvivenza, una cura; è necessario, è una cosa esistenziale e non posso farne a meno.

D: Perché canti in inglese e friulano e non in italiano?

R: Ho iniziato con l’inglese perché la musica che ascolto è soprattutto inglese e poi perché all’inizio, quando dovevo tirar fuori cose intime, l’inglese fungeva da maschera per far sì che ci fosse un filtro tra me e chi mi ascoltava. Per quanto riguarda il friulano la mia prima canzone è stata una poesia poi musicata; trovo grande semplicità nel trasformare le mie poesie in canzoni e poi il friulano si presta molto bene per questa operazione: è una lingua molto musicale. Ed è spontaneo per me perché è la lingua che parlo a casa e la trovo profonda, penso dia molta possibilità espressiva. Naturalmente queste poesie friulane musicate rappresentano una musica di nicchia. Nei locali non è richiesta la musica in friulano. Ma io non posso farci niente, devo esprimermi così, questo è il mio mezzo. L’italiano lo trovo difficile da interpretare.

D: Da dove hai ricavato i tuoi testi?

R: Dal pacco culturale delle superiori, da tutto quello che è arte e bellezza che ho vissuto. Quando scrivo i miei testi, non penso ai riferimenti che faccio, sono spontanea.

D: Che significato hanno le tue canzoni?

R: “A little gipsy’s ode” è un ode di una bambina zingara che si trova in un campo di concentramento. La musica poteva essere l’espressione per la libertà dalla sofferenza. Io parlo per chi non può parlare più. Per “El gno cîl” ho preso spunto da Pascoli, Leopardi e Montale perché fanno parte del mio bagaglio culturale delle superiori. È una canzone riferita al periodo in cui sono andata via da casa e il cielo rappresenta la figura di mia madre. Con la canzone “John” attraverso un paragone cerco di sottolineare l’espressività con dei ritmi sospesi com’è sospesa la vita di John.

D: Quali sono le canzoni che ti piacciono di più cantare?

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R: Le cover che mi piacciono di più sono quelle di Elisa e poi le mie naturalmente.

D: Suoni da sola?

R: Suono da sola, ma faccio anche parte di un gruppo che non suona il mio solito genere, ma il rock. Ero partita suonando da sola, poi mi è stato chiesto di entrare in questo gruppo in quanto cercavano una cantante.

D: Preferisci suonare da sola o col gruppo?

R: Col gruppo è più un divertimento, quasi uno sfogo. Mi piacciono tutte e due le cose, anche se sono molto diverse e non voglio rinunciare a nessuna.

R: Cosa ti spinge a suonare?

R: Suono unicamente come passione, anche perché in Friuli non c’è un mercato importante della musica, poiché mancano i finanziatori e i pubblicitari importanti. Qua non ci sono tanti spazi dove ti puoi presentare con il tuo pezzo e farlo sentire agli altri, poiché ci sono pochi festival e concerti; per farsi conoscere nei locali vengono richieste solo cover di canzoni famose e non le proprie. Molti gruppi infatti vanno a produrre in Germania, dove c’è più scambio. Io non sono disposta a uscire dal Friuli, ho deciso di restare qui per continuare a suonare. Per me l’ideale sarebbe riuscire a entrare in conservatorio, anche se in un primo momento non ci sono riuscita.

D: La tua famiglia ti ha sempre appoggiato nella tua passione?

R: All’inizio mio padre non mi appoggiava; quando ho iniziato a suonare la chitarra, mi chiamava “sgrifigne filistrins”, fino a che non ho cominciato a comporre le canzoni e lui è diventato il mio più grande fan e lo è tutt’ora. I miei fratelli, uno di dieci anni l’altro di diciotto, non mi hanno mai sostenuta, perché non mi hanno mai vista seriamente e sono gelosi. Comunque ora che ho vinto il Premi Friûl 2001 sono tutti contenti e mi danno sostegno.

D La famiglia ti ha mai posto dei limiti?

R: No, dalla mia famiglia non ho mai avuto limiti.

D: Essendo una ragazza,  hai trovato delle difficoltà nell’ambiente musicale?

R: No, nessuna, niente. Per me cantare è una cosa necessaria, non posso farne a meno ed è una questione di sopravvivenza. Io trovo che nell’arte siano tutti uguali, basta dimostrare le proprie capacità Infatti ognuno deve mostrare le proprie emozioni, non è una questione di competizione, siano maschili, siano femminili, restano sempre emozioni.

D: Ti sei mai posta il problema che ci sono più uomini che donne cantanti?

R: Sinceramente non mi sono mai posta il problema, perché io sono una cantante spontanea, anche se le ragazze che cantano sono poche; io sono la

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prima cantautrice friulana.

D: Hai mai lavorato?

R: L’anno scorso ho lavorato, ma poi sono stata costretta a lasciare per via della musica e dell’università.

D: Qual è il tuo obiettivo lavorativo?

R: Vorrei con questo gruppo riuscire a suonare in giro proprio come un vero lavoro, anche prendendo poco, ma comunque non faccio progetti a lungo termine.

D: Cosa vedi nel tuo futuro?

R: Non penso ancora a una famiglia, vivo giorno per giorno, preferisco vedere una cosa alla volta; per ora mi piacerebbe finire l’università e incidere un disco. Il mio obiettivo principale è la musica e mi piacerebbe diventasse un vero lavoro, per potermi mantenere e poter valutare le varie proposte che mi saranno offerte in campo artistico.

 

 

Tiziana Muser, artigiana della moda

 

La signora Tiziana Muser, terminate le scuole medie inferiori, ha frequentato delle scuole professionali di moda a Udine, successivamente ha lavorato per un anno presso una sarta e in seguito ha frequentato il “Marangoni” a Milano, solo per un anno, in quanto il costo era molto elevato, scegliendo la specializzazione in modellistica. In questa scuola Armani sceglie i suoi collaboratori. Continuando a frequentare dei corsi di specializzazione, ha iniziato a lavorare a Tolmezzo nel 1989, all’età di diciotto anni, con l’idea di confezionare abiti da sposa particolari. Successivamente ha aggiunto alla sua produzione anche abiti su ordinazione, soprattutto classici e di maglieria.

Oggi confeziona abiti da donna classici e tradizionali, mentre per l’uomo solo abiti tradizionali. I tessuti da lei più utilizzati sono seta pura, lana pura, lana merinos, cashmire e viscosa; usa poco il cotone in quanto in commercio non si trova puro, molto la viscosa perché è più morbida; non usa tessuti tecnologici soprattutto perché non sono richiesti. Lavora da sola, anche se alle volte viene aiutata da un collaboratore ed  è alla ricerca di un apprendista, “ma è molto difficile trovarne” dice “a causa del salario”.

Si rifornisce tramite campionari di tessuto di produzione parigina, in quanto può acquistare la quantità che le occorre e non in eccesso; acquista gli

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accessori ai grandi magazzini. Gli ordini delle merci sono fatti tramite Internet o fax e arrivano dopo due giorni ,se si trovano nella succursale di Milano, invece, se si trovano a Parigi, bisogna attendere una settimana.

Le fasi della produzione sono determinate dalla scelta del modello dell’abito, dalla scelta del tessuto, dalla preparazione del modello in carta, dal taglio della stoffa e cucitura, dalla messa in prova per almeno due volte, infine dal completamento dell’abito e  dalla confezione.

I tempi di realizzo dipendono dal modello richiesto: per un tailleur, circa tre giorni in quanto, superato questo termine, non si  riuscirebbe a coprire i costi; per un abito da sposa, circa tre mesi. Anche i prezzi sono variabili in base al modello e al tessuto utilizzato.

Per la produzione vengono utilizzate macchine industriali di produzione soprattutto italiana: macchine da cucire lineari, macchine taglia e cuci, asolatrici (in quanto sono poche le persone che richiedono le asole fatte a mano), rimagliatrici, roccatrici, ferri da stiro professionali.

La signora Muser nel frattempo ha compiuto degli studi per risalire ai modelli originali seicenteschi degli abiti carnici. L’abito femminile non era a fiorellini, ma in tinta unita,  venivano utilizzati tessuti di colori allegri come il turchese, il giallo, il bordeaux e il verde; il nero era il colore dell’abito da sposa, mentre il viola il colore per il lutto. L’abito era formato da un corpetto simile a un gilet attaccato alla gonna molto ampia (circa quattro metri di stoffa arricciata) con una fantasia jaquard (ricamo colore su colore); la gonna era ornata da pieghe (maggiore era il numero di queste più  ricca era la famiglia), aveva una sottogonna in pizzo, dei mutandoni di lino o canapa, una camicia bianca di lino o canapa lunga fino alle ginocchia, che era utilizzata anche come camicia da notte. Le maniche erano attaccate al gilet con dei bottoni (se la ragazza non era sposata, portava solamente il gilet, mentre se era sposata doveva indossare le maniche); l’abito era completato da un fazzoletto ricamato da testa e da spalle, e da un grembiule (stretto per la festa e molto ampio per lavorare); calzettoni e scarpets erano le calzature usate. L’abito nel suo insieme doveva durare per tutta la vita.

L’abito maschile era formato da una camicia molto lunga con ricami particolari rossi e colletto alla coreana; le maniche erano ampie, arricciate all’estremità, lunghe; il gilet era ricamato da fiori, chiavi, croci e galline, che rappresentavano i simboli della casa e della famiglia; i pantaloni erano alla “zuava”; calzetti, scarpets o scarpe nere in pelle completavano l’abbigliamento.

Nel Settecento l’abito maschile tradizionale scompare e da allora non ci sono notizie certe; infatti il carnico, andando spesso a lavorare all’estero, utilizzava dei vestiti più moderni, facendo diventare obsoleti i costumi tradizionali.
 Il terremoto del 1976, che tanto ha sconvolto la vita della gente carnica, ha provocato una rottura con la tradizione perché con la volontà di ricostruire, di ricominciare ex novo, la gente non si è preoccupata di custodire o di recuperare le proprie cose, che così si sono perse. Con la sua attività di recupero del costume tradizionale, Tiziana Muser invece agisce in modo opposto al senso comune.

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D: A quanti anni ha iniziato a lavorare?

R: A quattordici anni.

D: Come giudica una donna che lavora?

R: Una donna che lavora rappresenta il massimo, non c’è niente di più bello che avere un lavoro che ti soddisfa.

D: Le faccende sono un lavoro, secondo lei?

R: Certo, un grande lavoro.

D: Quali possono essere i lavori più idonei a una donna?

R: Quelli che la donna si sente di fare; ogni singola persona ha un proprio lavoro, non ci sono lavori distinti tra uomini e donne.

D: Come si riesce a conciliare l’impegno di genitore con il lavoro?

R: Facendo i salti mortali! Fare il genitore è il lavoro più difficile del mondo, però si riesce a fare tutto, se quello che si fa lo si fa con piacere.

D: Come considera il cambiamento del ruolo della donna nella società da madre a manager?

R: È tutto talmente normale Mi sento una donna imprenditrice con famiglia, ma non mi sento una manager che pensa solo al lavoro e non sostiene la famiglia.

D: Secondo lei, quanto ha influito il lavoro della donna nello sviluppo economico?

R: Tantissimo, senza la donna non si fa niente.

D: Gli artigiani ricevono dagli enti delle sovvenzioni?

R: Le sovvenzioni vengono richieste dagli stessi artigiani; ora vengono maggiormente aiutati rispetto agli anni passati, quando io ho incominciato. Gli artigiani sono molto favoriti, infatti ci sono molti finanziamenti a cui accedere, aiuti alla ricerca di mercato, per le idee e tutto ciò che è sovvenzionato.

D: Si considera un’artigiana?

R: Sì. È indispensabile per fare l’artigiano avere una base culturale, conoscere l’informatica, il marketing e le lingue, perché l’artigianato del Duemila è basato su questo.

 

Valentina Pellizzari, sindaco

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D: A quanti anni ha iniziato a lavorare?

R: Ho intrapreso la mia attività di segretaria a diciannove anni, mentre sono entrata in politica nel giugno del 1998 con il primo mandato di sindaco.

D: Come giudica una donna che lavora? Come si riesce a conciliare l’impegno di genitore con il lavoro?

R: Positivamente. Però credo che sia difficile conciliare la vita lavorativa con quella familiare, perché comunque la donna rimane sempre madre, moglie, casalinga. Quando sono entrata nel mondo della politica, pensavo di riuscire a conciliare impegni lavorativi, politici e familiari, ma mi sbagliavo, in quanto il lavoro mi richiedeva molto tempo; così ho dovuto rinunciare a qualche ora di sonno e a tutti i miei hobby per non trascurare la mia famiglia e il mio lavoro.

D: Quali possono essere i lavori più idonei alla donna?

R: Non credo che ci siano dei lavori più idonei a una donna o a un uomo, anche se la donna è influenzata nella scelta a causa dei suoi impegni familiari e perciò non può svolgere lavori senza limiti di tempo o lavori che comportano eccessivi spostamenti. Oggi ci sono ancora dei lavori tipicamente maschili, in quanto una donna ingegnere o fisico non viene considerata allo stesso livello di un uomo, quindi la parità dei sessi resta ancora un’utopia. Mentre l’uomo è più portato a lavori tecnici, la donna per sua natura è favorita nei lavori sociali e più in generale nei lavori che necessitano di una visione più ampia dell’insieme, ma al giorno d’oggi dimostra di sapersi adattare e affrontare qualsiasi attività.

D: Secondo lei, quanto ha influito il lavoro della donna nello sviluppo economico?

R: Molto. Quando la Carnia era prevalentemente agricola, la donna era indispensabile per l’economia familiare (l’allevamento del bestiame, l’agricoltura), mentre l’uomo era all’estero a lavorare. Al giorno d’oggi la donna è presente in molte realtà lavorative; infatti la crescita dell’Italia è avvenuta anche in concomitanza con l’impegno crescente delle donne. La donna, infatti, ha sempre lavorato senza ricevere i dovuti riconoscimenti.

D: Come si trova a operare in un mondo considerato tipicamente maschile?

R: Mi sento un po’ un pesce fuori dall’acqua. Ma bisogna far vedere ai colleghi maschi che siamo come loro e, quando vedono che ci diamo da fare seriamente, ci danno fiducia.

D: Perché ha deciso di entrare nel mondo politico?

R: Per caso. Dopo la morte improvvisa di un sindaco che godeva di tanti consensi soprattutto da parte dei giovani, ho deciso con un po’ di incoscienza di candidarmi. Non pensavo di essere eletta e soprattutto con un numero di voti così elevato. Terminato il primo mandato, non volevo ricandidarmi, ma quattro

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anni sono pochi per realizzare quello che avevo previsto, soprattutto perché i tempi burocratici sono molto lunghi, perciò ho deciso di ricandidarmi.

È un impegno gravoso che offre molte soddisfazioni anche se non mancano le sconfitte. Tutto sommato è bello.

 

 

Livia Sina, imprenditrice

 

D: Quando e dove è nata?

R: Sono nata il 25 giugno 1944 a Tramonti, dove ho vissuto fino all’età di sedici anni, poi nel 1960 mi sono trasferita a Spilimbergo.

D: Mi può raccontare il suo percorso scolastico?

R: Ho frequentato solo la scuola elementare, fino alla classe quinta.

D: In che modo è stata influenzata nelle sue scelte dalla famiglia, dal contesto sociale?

R: C’era bisogno di aiuto all’interno della famiglia e per questo ho lasciato la scuola molto presto, ma all’epoca era una cosa normale.

D: Mi può raccontare il momento in cui ha cominciato a lavorare?

R: Ho iniziato a lavorare a diciassette anni, nell’attività dei miei fratelli, occupandomi della vendita di pezzi di ricambio di automobili.

D: Attualmente qual è la sua condizione lavorativa?

R: Proprietaria della “Sina Carri” con sede a Spilimbergo, con quaranta anni di lavoro alle spalle.

D: Come si trova nell’ambiente di lavoro, nel rapporto con i colleghi e i dipendenti?

R: Il rapporto con colleghi e dipendenti è molto buono, c’è molto dialogo e comprensione.

D: Le sembra che il fatto di essere una donna le abbia creato particolari problematiche?

R: Il fatto di essere una donna non è stato di alcun intralcio alla mia carriera

D: Come vede la posizione della donna nel mercato del lavoro?

R: Secondo me, la donna nel mercato del lavoro è una forza e un aiuto maggiore e deve essere valorizzata al pari dell’uomo.

D: Qual è il lavoro di suo marito?

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R: Mio marito era ispettore della forestale, ma ora è in pensione e mi dà a volte una mano nel mio lavoro, anche se si occupa soprattutto della gestione della famiglia.

D: Ritiene che il ruolo di madre interferisca con quello di lavoratrice?

R: Il ruolo di madre non interferisce molto con quello di lavoratrice, almeno per quanto riguarda il mio caso.

D: Quanti figli ha e che età hanno?

R: Ho un solo figlio, Luca, che ora ha trentacinque anni.

D: Cosa fa?

R:Lavora nell’azienda familiare ed è direttore della concessionaria di Pordenone, con ottantatre dipendenti.

 

 

Maria Teresa Tonutti, imprenditrice

 

Maria Teresa Tonutti, laureata in Psicologia, alla fine degli anni Ottanta ha iniziato la sua attività nell’azienda “Tecniche Grafiche M. Tonutti” di Fagagna, una delle più ampie e importanti aziende italiane tecnologicamente avanzate del settore della stampa di etichette. Nel corso di questi ultimi anni ha assunto responsabilità crescenti nell’azienda, ora ricopre la funzione di responsabile della produzione e della gestione.

 

D: Come è avvenuta la sua formazione scolastica?

R: Sono arrivata al lavoro che faccio adesso per una via molto strana, perché le mie scelte scolastiche sono state orientate in una direzione completamente diversa rispetto alla professione che svolgo. Ho frequentato il liceo scientifico e poi mi sono laureata in Psicologia; volevo lavorare in campo sociale, quella era la mia aspirazione. Poi ho provato a lavorare nell’attività di famiglia ed effettivamente ho trovato una grande soddisfazione, che mi ha portato a cambiare completamente la direzione che in un primo momento volevo seguire. Quindi, a differenza di coloro i quali in genere intraprendono questo tipo di attività, ho avuto una formazione anomala e questo credo mi permetta di fare il mio lavoro un maniera un po’ diversa rispetto agli standard. Dopo la laurea sono stata all’estero, in Inghilterra, a studiare la lingua inglese, per vari periodi. Questa è stata un’esperienza molto importante e significativa, perché penso che l’apprendimento della lingua sia stato fondamentale per il mio futuro lavorativo; purtroppo, ora me ne rammarico, so solo l’inglese. Questa

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lingua però mi permette di comunicare con i miei clienti e fornitori che parlano tutti la lingua inglese. Nel corso degli anni ho frequentato corsi di specializzazione linguistica piuttosto brevi, perché avevo l’handicap di una formazione lontana dal lavoro che faccio e mi dovevo concentrare su quello: dovevo imparare anche gli aspetti tecnici perché non puoi lavorare in un’azienda se non conosci il processo produttivo.

D: Quali sono state le scelte personali?

R: Come già detto, avevo aspirazioni tutte mie, non pensavo di lavorare nell’azienda familiare, ma proprio per niente, anzi avevo deciso che non lo avrei fatto proprio. La scelta del liceo è stata prettamente personale, anzi ho dovuto contrastare i tentativi di condizionamento da parte dei miei genitori. In famiglia erano contrari sia a questa scelta, sia poi alla scelta della facoltà universitaria; per loro è stato uno scandalo, però non c’era niente da fare, volevo fare quella cosa lì e l ho fatta. Il mio percorso scolastico e lavorativo non era contemplato all’interno della famiglia, non credo che la mia sia stata una volontaria opposizione nei confronti della mia famiglia, perché nel momento in cui ho detto “Io farò questo”, non pensavo che ci sarebbe stato questo scandalo, ho creduto che fosse una cosa normalissima poter intraprendere la strada che pensavo fosse giusta per me in quel momento. Vi dirò di più: per poter concordare un patto accettabile con mio padre, ho dovuto iscrivermi a un’altra facoltà, perché mio padre mi aveva detto : “Tu questo percorso non lo dovresti fare, adesso prova a prendere un’altra strada, vorrò vedere se sarai ancora effettivamente convinta”. Mio padre mi aveva prospettato tre scelte: facoltà di Lingue, di Economia o Giurisprudenza. Non mi piaceva nessuna delle tre, ma alla fine ho scelto le lingue. Quindi, passato un anno, ho nuovamente confermato ai miei genitori di voler intraprendere gli studi di Psicologia. Penso che questi studi universitari si siano rivelati molto importanti per la mia formazione culturale e personale.

D: Dove è avvenuto l’accesso al mondo del lavoro?

R: Una volta laureata, ho trovato impiego in un ospedale della zona, ma non guadagnavo abbastanza per rendermi un minimo indipendente e così mio padre mi chiese se volevo lavorare per lui quando avevo tempo a disposizione. Accettai. Facevo lavori abbastanza banali come compilare rapportini, inserire fogli nelle buste, sigillarle, archiviare, e non era proprio piacevolissimo. All’ospedale non c’erano possibilità di inserirmi a tempo pieno in un posto fisso. Dovevo compiere una scelta, il doppio lavoro si rivelava insoddisfacente e frustrante, non riuscivo a dedicarmi come avrei voluto a nessuna delle due attività, e così ho iniziato a lavorare in azienda tutto il giorno, ho imparato di volta in volta cose nuove, scoprendo che come lavoro si rivelava piacevole. Poteva risultare spiacevole il fatto che, passando da un posto dove ti dicevano “buon giorno, dottoressa”, avessi scelto un altro dove il tono risultava essere: “guarda, adesso mi dovresti piegare queste buste qua”, ma io non ci ho fatto tanto caso. Ho iniziato a lavorare in azienda quattordici anni fa, quando c’erano molti meno dipendenti di adesso, circa sessanta, mentre adesso, come già detto, ce ne sono centoquattro. Ho imparato a svolgere diverse attività all’interno

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dell’azienda, seguendo gli insegnamenti che mi venivano impartiti dai vecchi dipendenti dei diversi settori. Dovevo imparare tutto, non sapevo nemmeno le informazioni di base, cos’è un porto franco ad esempio, cose che voi conoscete benissimo. Talvolta pensavo alla professione della psicologa, ma era difficile trovare lavoro in questo settore, avrei dovuto continuare l’iter del tirocinio, attendere anni e anni. Per me, quando lavoravo in ospedale, era difficile lavorare in un settore la mattina e in un altro il pomeriggio. In questo modo non riuscivo a concentrarmi appieno su nessuno dei due lavori e sicuramente,  proseguendo in questo modo, non sarei riuscita a fare bene nessuna delle due attività. Cercavo di migliorarmi continuamente, anche perché non mi è mai piaciuto fare le cose così come ti vengono.

D: Com’è il lavoro nell’azienda?

R: Io sicuramente nel mio lavoro nell’azienda di famiglia ho avuto delle facilitazioni, ho avuto la possibilità di sfruttare un’opportunità importante, ma se tu non dimostri che quello che fai non lo stai facendo bene, non acquisisci il rispetto delle persone che lavorano con te. Non è dato per scontato che solo perché lavori in un’azienda di famiglia tu riesca a portare avanti certi impegni e ad assumere certe responsabilità, perché nel momento in cui le cose non le sai fare, o comunque non sei in grado col passare del tempo di dare delle risposte a chi te le chiede, ti fermi lì. Una cosa positiva del mio carattere è che, una volta imparato tutto ciò che posso riguardo un determinato settore, mi chiedo che cosa posso apportare di mio, di nuovo e innovativo. Così è stato, perché, se avessi dovuto rimanere qua a piegare buste tutta la vita, allora non ci sarei stata. Capire il funzionamento dell’azienda in tutti i suoi settori non è stato facile e ha richiesto molto tempo; questo anche perché non ho avuto le basi scolastiche adatte e ho sofferto perché ho dovuto inserirmi in un mondo che non mi apparteneva. Nei primi anni non è stato semplice, ma mi sono impegnata e sono riuscita ad arrivare al punto di poter dire “questo l’ho fatto io”. Questa è stata la mia grande ambizione, il mio obiettivo più importante. Un aspetto al quale domolta importanza, oltre al fatto di dover ottenere dei profitti, è la qualità dei nostri prodotti, perché voglio che la mia azienda sia sana e possa distinguersi dalle altre. Penso che non abbia senso pensare solo a fare più soldi possibile, perché la vedo come una cosa molto limitata. Io vivo l’ambizione del miglioramento; ad esempio, com’è accaduto, sono soddisfatta se riesco a inserire un prodotto nuovo, a proporre al mercato qualcosa che prima non c’era. Così cerco di trattare i miei dipendenti: molte persone assunte da me, non importa se donne o uomini, ma con una particolare voglia di fare le cose bene, con un’ambizione particolare di crescita, sono passati a lavori diversi, a ruoli con importanza superiore.

D: Può ricostruire la storia dell’azienda?

R: La mia è un’azienda familiare, fondata da mio nonno nel Dopoguerra. Io lo ritengo un uomo straordinario perché è partito dal niente, era un uomo poverissimo, aveva perso il padre giovanissimo e cominciato a lavorare per conto suo molto presto, aveva un familiare sarto, così aveva imparato il

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mestiere. Era un uomo dalla capacità di prendere iniziative personali molto forte, così aveva intrapreso un’attività in proprio, aveva assunto qualche dipendente e avviato una sartoria che iniziava a dare i suoi frutti, ma poi ci fu l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Ha sempre avuto una grande spinta per il commercio e un gran fiuto per gli affari, così, oltre a confezionare abiti, commerciava tessuti, fili, capi di abbigliamento e altro che durante il periodo bellico era difficile reperire. Ma un fatto segnò il suo futuro: durante un bombardamento venne colpita e ridotta in macerie nel nostro paese una piccola stamperia. Il proprietario di questo stabilimento accettò l’offerta di mio nonno, il quale voleva comperare ciò che rimaneva dei macchinari in ferro della vecchia azienda per rivenderli a peso. Invece, in seguito alla rimozione delle macerie, risultò che queste macchine erano completamente intatte. Mio nonno, vista la situazione, decise di compensare con un’ulteriore somma di denaro il vecchio proprietario, non volle invece accettare la proposta di sciogliere l’affare e si tenne questa piccola stamperia con l’edificio inagibile, ma con le attrezzature efficienti. Quindi proprietario di queste macchine da stampa che non aveva mai visto, e di cui non conosceva il funzionamento, decise di provare a intraprendere l’attività, mobilitando i familiari, iniziò a stampare quaderni scolastici. Poi la cosa è cresciuta, la stamperia è diventata un’azienda specializzata nella stampa di etichette di pregio per aziende vinicole, distillerie, ecc. Negli anni Sessanta mio padre, in giovane età, si è inserito nell’attività apportando nuove idee ed elevando l’azienda a livelli ottimali. I tre dipendenti del Dopoguerra sono aumentati via via fino ai centoquattro di oggi. Ora siamo diventati l’azienda leader nel settore di produzione di etichette di carta e di plastica per vino, acqua minerale, bibite e molti altri prodotti in confezione. La nostra è un’azienda di grosse dimensioni in questo specifico settore (credo che in Italia ci siano solamente due o tre aziende di queste dimensioni e qualità), con una costante attenzione all’avanguardia nella tecnologia. Nella storia della nostra azienda c’è un legame familiare in quanto l’attività è iniziata da mio nonno, è proseguita con mio padre, passando infine a me e a mio fratello.

D: Come giudica la donna sul lavoro?

R: Riguardo all’inserimento della donna nel mondo del lavoro, io posso dire che ci sono difficoltà, ma adesso rispetto ad anni fa sono inferiori. Quando ho cominciato a interessarmi di problemi complessi, come l’acquisto di macchinari, mi sono resa conto che in quel campo, in quel settore non c’erano donne, ero l’unica che si presentava per provare test tecnici sulle macchine, per condurre trattative sull’acquisto di macchine. Venivo trattata con sufficienza, si aspettavano di non rivedermi più. La situazione non era facile perché dovevi cambiare atteggiamento in base al clima che ti circondava. Io, ad esempio, non sono una persona aggressiva, ma mi sono resa conto che certe cose o le prendevo in una certa maniera, oppure non ne venivo fuori. Oggi, ho notato che le cose sono un po’ cambiate perché mi sono accorta che negli ultimi tre o quattro anni le donne nei vari tipi di aziende hanno raggiunto ben maggiori responsabilità, soprattutto commerciali; questo avviene maggiormente all’estero, ma ultimamente anche in Italia. Purtroppo la nostra cultura friulana ha una

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tradizione nella quale la donna ricopriva il ruolo di chi doveva solamente occuparsi della famiglia e niente altro; nelle tipiche famiglie friulane la donna aveva un ruolo importantissimo, ma chi parlava era l’uomo, alla donna non veniva permesso di prendere posizione, di esprimersi. Io ho ancora molti di questi racconti delle donne nelle orecchie, di quello che dovevano fare e di quello che non dovevano mai permettersi di fare. Questi modi di essere e di vivere ci sono entrati dentro condizionandoci forse, anche inconsciamente, nel modo di pensare. Oggi invece la donna copre compiti lavorativi di pari livello rispetto all’uomo e in più, quando torna a casa, deve continuare a lavorare: badare ai figli, pulire, cucinare, insomma deve continuare a fare tutto ciò che faceva una volta, quando non era occupata anche in attività che non fossero quelle familiari. Tornando al problema di un mondo fatto di uomini che coprono quasi tutti gli incarichi di responsabilità, appena vedono una donna che opera al loro livello, la prima cosa che dicono è: “Cosa vuoi che capisca questa qui”. “Questa qui” sicuramente deve avere un atteggiamento un po’ più aggressivo, perché si deve imporre e superare questo mondo di pregiudizi. Le donne, a differenza di molti uomini, devono conciliare il lavoro a casa con quello fuori casa, e questo richiede una grande fatica e flessibilità da parte nostra.  È superato il problema che in certi ambiti la donna non ci lavora, la donna oggi fa la camionista, la dirigente. Forse la diffidenza più grande rimane sul sapere se ce la farà o non ce la farà, così la donna deve dimostrare di essere brava, lo deve dimostrare tante più volte rispetto all’uomo.

D: Come concilia il lavoro con la gestione della famiglia

R: La mia è una situazione familiare molto particolare, perché mi sono sposata, ho avuto una figlia e poi mi sono separata, quindi adesso sono sola con la mia bambina e penso che non sono riuscita a conciliare molto bene la famiglia con il lavoro. L’esperienza della maternità ha creato un grande cambiamento: io ero lanciata nella mia attività, ero contenta, ero appassionata per quello che facevo, avevo raggiunto delle mete, ero riuscita a inserire dei cambiamenti nell’azienda ed ero molto soddisfatta di quello che ero riuscita a realizzare. Desideravo molto avere dei bambini, quindi durante la gravidanza avevo fatto un grande piano: io avrei ripreso a lavorare subito e sarei riuscita a seguire il bimbo. A mio avviso era perfetto, ma invece la realtà si rivelò tutt’altro. Ho vissuto benissimo la maternità, lavoravo senza problemi, ma dopo aver avuto la bambina il rientro nel mondo del lavoro non fu facile. Non riuscivo a staccarmi dalla mia bambina, ero completamente assorbita da lei. Rimasi a casa otto mesi e, una volta tornata a lavorare, mi dissero che ero cambiata, sembravo un’altra persona. Ripresi il mio posto di lavoro, ovviamente, ma le cose che avevo io prima in mano, adesso erano di qualcun altro. Quindi ho dovuto fare una doppia fatica: reinserirmi e riprendere le cose che erano mie. La difficoltà ulteriore fu quella di conciliare poi questo desiderio di stare a casa, di seguire le mie cose e la mia famiglia con il lavoro. In realtà non sono riuscita a conciliare le cose molto bene, purtroppo forse perché sono molto impegnata.  Adesso la difficoltà è quella di avere una bambina che comunque chiede la presenza costante della mamma, ma, svolgendo un lavoro

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come il mio, questo non è sempre possibile. L’unica cosa di cui non mi lamento è che esco di casa alle nove anziché alle otto, perché voglio portare io la bambina all’asilo. Per il pranzo ho dieci minuti a disposizione, visto che la piccola rimane a scuola; dopodiché riprendo il lavoro e solitamente finisco verso le sette, ma qualche volta addirittura alle otto; tante volte, per lavoro, devo andare fuori a cena e quindi torno tardi. Di conseguenza sento che è molto difficile conciliare queste due cose. La bimba in orario post scolastico sta con mia mamma e alcune volte con una baby-sitter. Tutto il resto del tempo che ho a disposizione lo passo con la bimba a casa. In realtà mi rendo conto che il tempo non è così tanto. A volte mi domando se sono egoista. Una cosa che mi ha particolarmente colpito è stata sentirmi dire da mia figlia: ”Io da grande voglio fare la mamma” . D’altronde sono contenta perché la piccola cresce bene, è allegra, intelligente, interessata alle cose, affettuosa. Rifletto che non sono l’unica donna che lavora, tante altre madri lavorano ancora più di me e hanno cresciuto ugualmente bambini e persone meravigliose. Così anche io mi sono rasserenata in questi ultimi tempi. Queste donne che lavorano come me hanno delle soddisfazioni personali che poi trasferiscono alla famiglia. Quando rientro a casa dal lavoro, sono contenta di stare con mia figlia e poter passare delle ore con lei, giocando, leggendo, preparando la cena, facendo cose insieme. È una tipo di approccio che ritengo fondamentale, anche se -ripeto- non è facile. Spesso può capitare che torni tardi a casa e proprio quella sera la bambina non riesce a dormire e, nonostante sia stanca, devo accudirla, starle vicino. L’esperienza del lavoro e della famiglia è molto importante, in quanto ti fa rendere conto quante difficoltà comporta. Una bella cosa è il lavoro part-time, che è stato contemplato da quando ci sono io al lavoro; in realtà noi non avevamo molte persone con lavoro part-time perché pensavamo che questo potesse creare dei problemi all’azienda, ma, visto che ultimamente mi è stato richiesto e lo posso concedere, non ho esitato. Spero  di aver risposto alle vostre domande in modo adeguato . Un cordiale saluto e un buon lavoro!

 

 

Luisa Tullio, dirigente di settore al Comune di Udine

 

D: Fino a che età ha frequentato la scuola e che tipo di scuola era?

R: Ho frequentato la scuola fino a diciannove anni e ho fatto l’ITC “A. Zanon”; mi sono diplomata nel 1965.

D: Per quale motivo ha scelto l’indirizzo scolastico commerciale? È stata indirizzata da qualcuno nella scelta?

R: No, direi che ho scelto lo Zanon perché mi piaceva; in quei tempi tutti pensavano che una donna dovesse fare la maestra; se devo essere sincera, la mia scelta è stata determinata da un fatto molto fortuito. Sono andata a fare una gita a Uccea, era il periodo in cui dovevo decidere la scelta scolastica

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futura, frequentavo ancora le medie, quando tutti mi dicevano che dovevo studiare per diventare maestra. Arrivata nel paesino, ho visto una scuola molto sperduta, addirittura la scuoletta era costruita sopra un letamaio! Io sono rimasta un po’ impressionata, dopodiché mi sono detta: “Certamente non farò la maestra, per ritrovarmi in un posto simile! Perché un’azienda o una banca sarà ubicata certamente in una struttura dignitosa, sarà in un posto più civile.” Conseguentemente a queste riflessioni, ho scelto di diventare ragioniera. Tutti insistevano perché io facessi la maestra, anche la famiglia, così questa è stata proprio una scelta mia. La maestra! A quei tempi pensavano che con questa professione una donna avesse tanto tempo libero, tanti mesi, io invece mi sono messa in testa di studiare la ragioneria e così è stato. Mi vedevo proiettata in quella professione.

D: È stata ostacolata dalla famiglia?

R: No, da un certo in momento in poi no. Da quando  ho detto che mi volevo iscrivere a ragioneria, mi hanno risposto: “Va bene, se questo è quello che vuoi, basta che studi, che tu sia promossa regolarmente, altrimenti andrai a lavorare”. Quella volta non si pregava la gente perché studiasse, se un anno fossi stata rimandata, mi avrebbero mandata a lavorare, tutto era già nei patti; sono stata sempre promossa e quindi non ho avuto problemi.

D: A quale età ha iniziato a lavorare? Il lavoro che ha svolto era quello per cui aveva studiato?

R: Mi sono diplomata il mese di luglio e ho cominciato a lavorare i primi di novembre. Ho lavorato in un’azienda privata per due anni, facendo il ragioniere, occupandomi di bilanci, di contabilità del personale, di contabilità di magazzino. Poi ho lavorato quattordici  anni in un comune della provincia, con la mobilità mi sono trasferita, ho finito il lavoro dove stavo, il giorno prima; ho cominciato il giorno dopo a Udine. Dal 1982 sono in forza presso questo comune. Dopo sette-otto mesi dal trasferimento ho superato il concorso per diventare dirigente. Non ho trovato particolari difficoltà a inserirmi nel mio settore, perché bisogna tenere conto che in quegli anni già avere il diploma era importante, era un titolo. Molti si limitavano alla qualifica di avviamento professionale; frequentare la scuola media in quei tempi era già molto, in quanto non era scuola dell’obbligo, bisognava infatti, dopo la quinta elementare, sostenere gli esami di ammissione, era tutto un altro contesto. Un diploma di maturità commerciale come il mio faceva la differenza.

D: Non era difficile dunque trovare un impiego in quel periodo?

R: Nella mia famiglia mi avevano sempre spinta a non lasciarmi attrarre dai soldi o dalla necessità di lavorare, ma mi indirizzavano a seguire strade che mi portassero professionalità; quindi non mi hanno obbligato a  finire scuola e correre subito al lavoro, mi dicevano: “L’importante è che tu trovi un lavoro che sia conforme agli studi che hai fatto e che quindi sia qualificante”. Questa era la cultura della mia famiglia. Sono stata contenta di aver seguito questi suggerimenti. All’inizio di novembre comunque, come ho già detto, ho iniziato a lavorare.

D: Un uomo è più facilitato ad assumere la posizione da lei ricoperta?

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R: Io, per tutta la vita, sostanzialmente mi sono impegnata molto nel lavoro, sia nell’azienda privata, sia come ragioniere capo in un comune di 6000 abitanti, sia come dirigente del settore finanziario del comune di Udine. A ventuno anni ero già unico responsabile dell’area economico-finanziaria e conseguentemente ho acquisito e accresciuto la mia professionalità, perché ho sempre perseguito la crescita nella mia professione, è stata una costante evoluzione nel tempo.  Devo aggiungere che il ruolo di ragioniere capo non è ambito in genere nelle pubbliche amministrazioni, perché è faticoso, rischioso, impegnativo, devi lavorare moltissimo. Forse oggi nelle pubbliche amministrazioni sono privilegiati l’ambito giuridico e l’amministrativo piuttosto che la specializzazione contabile. So che anche i colleghi ragionieri degli altri comuni grandi e piccoli della Regione, o di altre realtà italiane, devono fare gli stessi miei sforzi per ottenere significativi risultati; il mondo è questo, sono in contatto con colleghi sia di altre città della Regione, sia di altre regioni italiane, ma più o meno abbiamo gli stessi problemi.

D: A livello dirigenziale operano anche altre donne?

R: Nel comune ci sono state sempre donne dirigenti, anche dalla ristrutturazione in corso è probabile che l’organizzazione per dipartimenti preveda nel ruolo di responsabili tre donne su cinque. Secondo me, nella pubblica amministrazione non è discriminante essere uomo o donna.

D: Come concilia il lavoro con gli impegni familiari?

R: Questo è un po’ un problema; a dire il vero in questi anni io non mi sono sposata, ho seguito comunque gli impegni di famiglia quando ho potuto, però questo va sicuramente a discapito del tempo libero. A parte il fatto che a me piace esercitare il mio ruolo nella famiglia, diciamo da donna, non è che delego le funzioni, mi piace essere coinvolta, faccio in prima persona determinate cose, assumo determinate incombenze in casa. Gli impegni domestici mi rilassano e mi piace svolgere anche attività manuali, perché, dovendo impegnarmi mentalmente tutta la settimana, trovo gratificante e rilassante impegnarmi in questo tipo di lavori. Però al di là del tempo libero che si può avere durante l’estate, quando si è in ferie, durante l’anno si è sempre un po’ in affanno.

D: Cosa ne pensa del lavoro domestico?

R: Mi piace, mi rilassa; se non l’avessi, mi mancherebbe.

 

 

Lorella Volpato, imprenditrice

 

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Lorella Volpato ha trentacinque anni, abita e lavora a Prato Carnico. Ha frequentato il corso del tessuto presso l’Istituto d’arte di Udine. Tale formazione prevede la conoscenza delle lavorazioni tessili e lo studio della progettazione d’interni. Si ritiene fortunata per aver incontrato in questa scuola due insegnanti molto preparate e motivate, che le hanno trasmesso molte conoscenze e garantito una buona preparazione, che le ha permesso di diplomarsi nel 1984 con soddisfazione. Con queste eccellenti maestre, le vuole chiamare così, ha continuato a collaborare anche nella sua attività professionale.

Pochi mesi dopo aver concluso la scuola, è stata chiamata da un’azienda tessile veneta, che  aveva deciso di trasferire l’ attività in Carnia. È diventata coordinatrice tecnica di questa società che impiega a Villa Santina più di venti persone. Questa esperienza le ha permesso di viaggiare molto e di conoscere al meglio questo settore produttivo. Dopo quattro anni di attività, ventitreenne, ha deciso che ciò che era in grado di organizzare per questa azienda poteva tentare di farlo per se stessa. Ha così deciso, in società con Tiziana della Marta, di aprire una ditta a Tolmezzo, la Tessicolor, per realizzare tappeti, arazzi, capi per l’arredamento e l’abbigliamento su misura.

Nel 1990 un ingegnere veneto, titolare di una manifattura per la realizzazione di stuoie da campeggio (attività, che occupa parecchi dipendenti, ora trasferita a Cercivento per interessamento di Lorella), aveva brevettato una macchina tessile per la produzione di tappeti, l’ha interpellata e le ha proposto di collaborare con lui per la realizzazione di un manufatto con la consistenza di un tappeto orientale, ma con disegni moderni. Nel 1991 Lorella Volpato si è decisa a fare il salto di qualità e ad aprire a Prato Carnico la ditta individuale Tufting Tappeti. Il nome tufting  deriva dall’inglese hand tufting che significa “lavorato a mano uno a uno”, anche se in effetti la lavorazione si svolge a macchina.

Le esperienze maturate negli anni di lavoro fin dagli esordi le hanno permesso di capire che il mercato dell’arredamento esige una vasta gamma di prodotti e subisce un andamento stagionale: durante il periodo estivo c’è un calo del lavoro. Inoltre, come nell’abbigliamento, anche nell’arredo le firme danno un valore aggiunto al prodotto. Così Lorella, per introdursi in un mercato di nicchia, ha pensato di dover soddisfare i personaggi famosi nel campo del design di arredamento di interni, ottenendo così un  biglietto da visita per inserirsi nel mondo dell’arredo. Negli anni il suo lavoro è andato consolidandosi. La fatica e l’impegno sono e sono stati molti, fatica doppia partendo da una zona decentrata  come la Carnia. Lorella Volpato lavora esclusivamente su ordinazione per architetti, arredatori, gallerie d’arte (per le quali realizza tappeti, copie fedeli di disegni di artisti) e negozi.

Compra la lana grezza, poi la fa filare e tingere; le tintorie accettano di tingere almeno cinquanta chilogrammi per colore, per questo bisogna poter disporre di un rifornito magazzino. Inoltre, per presentarsi in un certo modo, è necessario un buon catalogo e tutto questo comporta alti costi. L’esperienza le ha fatto capire che servono i dipendenti necessari per soddisfare le ordinazioni in tempo, perché il mercato non perdona e si rischiano penali in caso di

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ritardo nelle consegne.

Per questo motivo ha affiancato alla produzione tessile la produzione di astucci per occhiali per un’azienda leader mondiale del settore. I vantaggi di questa attività sono un fatturato che non subisce sbalzi regionali e i costi di gestione non troppo impegnativi. Ora con Lorella lavorano undici dipendenti tra i diciotto e i trent’ anni. Sono tutte donne, a cui è grata  per l’impegno che dimostrano al lavoro. Anche se ha l’esigenza di farsi rispettare sempre, tiene presente che anche lei prima di loro ha lavorato alle dipendenze di qualcuno. La sua azienda opera per una parte in campo commerciale e per l’altra in campo artistico. Era il suo progetto!

Quando Lorella ha avviato la sua attività non c’erano agevolazione né aiuti per i giovani, oggi invece l’avvio può essere meno difficoltoso. Anche in Carnia ci sono possibilità, soprattutto per l’acquisto di macchinari con tassi di interesse bancari un po’ più convenienti. Infatti nel 1998 Carnia Leader ha aperto bandi di concorso per contributi a fondo perso, da elargire a imprese operanti in campo artigianale tradizionale. Lorella Volpato ha presentato un progetto, denominato Linussio. Ha ottenuto contributi europei grazie ai parametri della sua attività: impegno artistico, impiego di manodopera femminile, numero delle dipendenti, produzione in area decentrata.

Il progetto verteva sull’approfondimento delle tecniche di lavoro della manifattura di Jacopo Linussio per valorizzare le attività produttive della Carnia, per creare e commercializzare nuovi prodotti.

Jacopo Linussio nel Settecento realizzò la manifattura più grande d’Europa. Era un uomo che amava l’arte e aveva un grande senso degli affari. Questa ricerca è stata affascinante, dice Lorella, ma non facile. Memore degli insegnamenti ricevuti all’ Istituto d’arte, ha potuto analizzare una buona parte del diario di lavoro della manifattura di Linussio e provare a riprodurre gli antichi tessuti. Leggere gli antichi procedimenti produttivi di un tessuto su un testo scritto, è un po’ come leggere una musica da anni invariata, sembra tutto ridicolo. Ma poi, volendo riprodurre i filati, soprattutto i lini, tessuti da Linussio, ha dovuto cercarli fino in Scandinavia. Ha dovuto procurarsi materie prime grezze filate manualmente o comunque con procedimenti non industriali. Questi tessuti ora si utilizzano per confezionare tendaggi e tovaglie con tessuti  rigorosamente lavorati a mano sui telai tradizionali di legno.

Lorella Volpato ha fatto parte del direttivo delle donne imprenditrici della Provincia di Udine,  si è battuta soprattutto per far sì che le nuove generazioni abbiano la possibilità di frequentare corsi di formazione al lavoro artigianale prima di essere introdotte nell’attività lavorativa. Infatti una dei problemi più grossi che deve affrontare riguarda l’addestramento professionale: non è facile imparare in breve tempo il lavoro che si svolge nella sua azienda e quando deve assumere una nuova persona, questa per un anno o più non è produttiva, perché deve apprendere le tecniche necessarie. L’incontro con la signora Volpato si è concluso con l’intervista.

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D: A quanti anni ha iniziato a lavorare?

R: A diciannove anni.

D: Come giudica una donna che lavora?

R: Credo che per una donna il lavoro sia indispensabile, anche se si sposa, per sentirsi realizzata. È comunque importante lavorare per vivere, non vivere per lavorare.

D: Le faccende domestiche sono da considerare un lavoro?

R: Sì, sono da considerare un lavoro, più di un lavoro, con la caratteristica che ti presti e ti impegni  per tutto il giorno e finisce tutto lì. Forse qualcuno nemmeno se ne accorge di quello che è stato fatto.

D: Secondo lei, quali possono essere i lavori più idonei per una donna?

R: Possono essere tanti, non siamo in una posizione di inferiorità. Credo, però, che ogni donna debba guardarsi dentro e stabilire quali sono per lei le priorità. Lavorare per se stesse, come nel mio caso, permette di crescere come individuo, di porsi in relazione e confrontarsi con molte persone e diverse culture. Io ho la fortuna di sedermi in mezzo a persone comuni e di frequentare degli dei senza perdere il senso delle cose e di mantenere la mia libertà, anche di pensiero.

D: Come si riesce a conciliare l’impegno familiare e genitoriale con il lavoro?

R: Non ho figli, anche se ne ho avuto uno. Dopo aver portato a termine la gravidanza, durante il parto sono sorte complicazioni. Dopo questa esperienza molto traumatica, il lavoro è stato un’ancora di salvezza, oltre agli affetti. Avessimo nostro figlio con noi, avrei scelto un compromesso con il lavoro. Ma penso sempre alla famiglia prima di tutto.

D: Come considera il cambiamento del ruolo della donna nella società?

R: Come accennavo prima, il cambiamento avviene quando una persona lo desidera. Alcune persone danno la priorità alle cose materiali, altre trovano un compromesso, altre ancora privilegiano gli affetti, la qualità della vita, i valori umani, la serenità familiare. Quando una donna decide di intraprendere il ruolo di manager deve sapere sin da subito che tutto ciò viene un po’ trascurato, proprio per le tante ore della giornata impiegate nell’organizzazione e nella conduzione di attività economiche, soprattutto se si tratta di grosse realtà.

D: Quanto ha influito il lavoro della donna nello sviluppo economico?

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R: Nell’economia della Carnia tanto, perché fino a poco tempo fa non c’erano tutte queste realtà produttive, e la donna era casalinga, oppure doveva trasferirsi all’estero tornando a casa solo di tanto in tanto. Al giorno d’oggi la donna con il lavoro si è riscattata, dando prova delle risorse e delle capacità che possiede.

 

Biografie

 

Maria Fanin, poetessa

 

Nasce il 13 gennaio 1943 a San Giorgio di Nogaro. Consegue il diploma presso l’Istituto Magistrale “C. Percoto di Udine nel 1961. Si laurea in Materie Letterarie nel 1968, con una tesi sul Concetto di mescolanza nell’Ebraismo, presso la Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Trieste, dove successivamente sostiene anche gli esami presso la Facoltà di Pedagogia. Nello stesso periodo, affianca all’attività di studente quella di supplente annuale nelle scuole medie fino al 1966, quando entra in ruolo nelle Scuole elementari. Insegna per due anni nelle pluriclassi della Carnia, in Val Pesarina, a Pesariis e a Truia, una frazione di centoquaranta abitanti (allora!), dove segue cinque bambini in quattro classi.

È il momento dell’immersione totale nelle segrete cadenze di una lingua amata, appresa nella sua forma più arcaica (Val Degano, Rigolato, Ludaria) fin dall’infanzia e ora distillata nelle immagini remote di una piccola comunità abbarbicata sui pendii dei faggi e dei larici. È anche la scoperta di donne e uomini narratori, figure ormai quasi scomparse nella Bassa, e qui ancora vigorose nella trasmissione delle memorie della piccola storia ufficiale e della grande storia individuale.

Negli anni Settanta consegue le abilitazioni all’insegnamento nelle scuole Medie e Superiori e del Latino nelle scuole Superiori. Nello stesso periodo insegna Lettere nelle scuole Medie, e dagli anni Ottanta al 1994, Italiano e Storia presso l’I.T.C. L. Einaudi di Palmanova, nella sezione Periti Aziendali di San Giorgio di Nogaro, di cui per alcuni anni è coordinatrice.

Nel periodo degli studi universitari frequenta per una breve esperienza la compagnia dei Giovani attori del prof. Sarti e del regista Gregoricchio, che mettono in scena un testo di Padre Maria Turoldo, il quale è spesso presente alle prove.

Contemporaneamente viene a contatto con don Domenico Zannier, Mario Argante, Galliano Zof, fondatori della Scuele libare furlane, che si propone di esplorare e valorizzare il patrimonio della lingua ladino-friulana nelle sue numerose varianti, e partecipa al fervore delle serate di lettura, di recitazione, di

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canto, in tutta la regione. È di quel tempo (1961 - 1965) la formazione de li’ Zisìlis (le rondini), bambine dai quattro ai dieci anni, che porteranno nelle piazze dei paesi del Friuli i balli della tradizione (il primo stipendio servirà ad acquistare i loro costumi). Proprio le piccole danzerine eseguiranno all’Auditorium Zanon di Udine per la prima volta i passi sulla musica delle quattro Canzoni a ballo di A. Mainerio, parmense, Maestro di Cappella a Udine nel Cinquecento, ritrovate da uno studioso tedesco alla Fondazione Cini di Venezia, e consegnate a don Domenico Zannier che ne scriverà i testi. Si tratta delle ormai famose Putta nera, Scjarazzula-marazzula, L’Ongaresca, Ramaçut. Le danze saranno accompagnate dal canto a quattro voci di giovani coristi sangiorgini. Dalla Scuele libare furlane si formerà La cjarande, che raccoglierà le voci significative di nuovi poeti friulani. Di quel tempo è la partecipazione al Concorso indetto proprio da La cjarande, per la prosa e la poesia, vinto con il testo Li’ fueùtis dal pôl (le foglie del pioppo), diventato successivamente Li’ fueùtis dal bedòl (le foglie della betulla), una fiaba che ormai è stata ascoltata da migliaia di persone. Nell’ Antologja - manifesto La cjarande (ed. Nuova Base, Udine, 1967), con la prefazione di Diego Valeri, verranno pubblicate alcune poesie di Maria Fanin, nella parlata della Bassa e nella dolce cadenza della Val Pesarina. Una di queste, Da mont dai larç, verrà tradotta nelle nove lingue neolatine e pubblicata con testi di altri autori friulani nel volume Soreli-Soleil (antologia, a cura di A. M. Pittana, Locarno 1979). Tradotta in rumeno, comparirà anche sul foglio culturale Ramuri, diretto da Maria Jliescu a Crajova in Romania.

Per un lungo periodo è rimasta in silenzio: la poesia è momento rubato alle incombenze del vivere in una famiglia divorante, negli impegni giornalieri del lavoro e della passione politica. I fogli si intridono d’incompiutezza, tra pagine di agende e di libri, da cui occasionalmente riemergono solo col tempo. Eppure si colma, la parola poetica, della vita vissuta e delle sue speranze inaridite e rinnovate secondo le misteriose lunazioni dello spirito. Poi, nel 1998, nella Chiesetta di San Marco, a Zuccola di San Giorgio di Nogaro, ha curato la lettura integrale di dieci canti della Divina  Commedia, nella traduzione del poeta don Domenico  Zannier in lingua ladino-friulana.

Come cantastorie in lingua-friulana è presente alle rassegne Danzelenghis 1999, Danzelenghis 2000, Danzelenghis 2001 e Passo dopo passo 2002, organizzate presso il teatro P.P.Pasolini di Cervignano del Friuli dall’Associazione culturale Avenâl  di Cervignano del Friuli. Le sue composizioni compaiono ora su riviste, antologie e rassegne: La Bassa (Latisana), Ladinia in Il Bimestre (Firenze), Il Turcli (Pozzuolo del Friuli), La Panarie (Udine), Gnovis pagjnis furlanis (Udine), Annuario (San Giorgio di Nogaro), Nuova Antologia della Letteratura friulana (a cura di G. D’Aronco, Udine 1982), Rassegne di Leterature Furlane (di Luzian Verone, Societât Filologjiche Furlane, Udin, 1999). Nel 1997 viene pubblicato il volume di poesie Savôr di bore, a cura di Eugenio Pilutti, con la prefazione di Domenico Zannier, per i caratteri dell’editore Associazione culturale Ad Undecimum di San Giorgio di Nogaro.

Da tempo, le fiabe, li’côntis, sono diventate il luogo privilegiato della libertà, dove si adombrano nei simboli le realtà più atroci e le più inaspettate vie di

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fuga. E così, come i Conte-côntis, i cantastorie, le figure scomparse della civiltà ladina, avvolta nel suo scialle lei va nei cortili, sotto i porticati delle antiche colonie, negli atri delle scuole e nei teatri, a raccontare, per ricreare la magia della lingua, nell’energia circolare dei suoi ritmi e dei suoi suoni. Perché è nel momento della narrazione che si attiva il transfert tra individuo e memoria collettiva e si rinnova la ritualità ora sconsacrata dell’identificazione.

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Ma tanche o’vòi

par bòrcs

e sagrâz,

dal mê mus

o’impâri

il savê

sclàgn

di perâulis

restàdis in vêgle

a spjetâ

di séj ravuêltis

resîntis

ogni buinôre

 

La cantastorie. Ma andando/per borghi/e sagrati./dal mio asino/apprendo/la scarna sapienza/di parole/rimaste/a vegliare/in attesa/di essere colte/ogni mattina/intatte.

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Francesca Finco, segretario comunale

 

La dottoressa Finco dopo aver conseguito il diploma di ragioneria, si iscrisse alla facoltà di Economia e Commercio. Parallelamente agli studi collaborava all’amministrazione dell’azienda di famiglia e si interessò alla vita politico-amministrativa del suo paese.

Il suo desiderio era quello, una volta terminati gli studi, di intraprendere la libera professione. Dopo aver conseguito la laurea, nell’attesa di trovare un posto per il tirocinio presso un commercialista, si preparò per i pubblici concorsi. Vinse subito il primo concorso e si trovò di fronte  a una difficile scelta: seguire il suo sogno, cioè fare il dottore commercialista, o accettare il posto di vice-direttore di una casa per anziani a Cividale.  Scelse di essere vice-direttore, sempre con la speranza di poter quanto prima intraprendere la libera professione, ma presto le fu affidato l’incarico di direttore della medesima struttura e quindi capì che anche all’interno della pubblica amministrazione poteva proficuamente mettere a frutto la sua preparazione e addirittura trovare importanti stimoli di crescita professionale. Durante questo incarico riscontrò i primi problemi nella gestione e amministrazione di una struttura che contava oltre duecentocinquanta persone anziane ricoverate e circa centocinquanta dipendenti. Nel frattempo partecipò ad altri concorsi pubblici di più alto livello amministrativo e ricoprì il ruolo di funzionario presso l’ITC “G. Marchetti” di Gemona e presso l’ufficio di Tutela Ambientale della Provincia di Udine.

Infine, sempre a seguito di concorso pubblico, entrò nell’Albo regionale dei segretari comunali.  Inviò il suo curriculum in quei comuni in cui c’era un posto vacante e venne scelta dal sindaco di Porpetto. Il suo mandato terminerà nel 2004, quando verrà eletto il nuovo sindaco che deciderà se rinominarla o meno.

Nei primi tempi ci furono delle difficoltà, dato che i cittadini per molti anni si erano abituati a vedere un uomo ricoprire quella carica; infatti ci racconta che gli anziani che entravano nel suo ufficio esclamavano stupiti: “Come? Une femine?”.

Il segretario comunale si trova al vertice amministrativo e coordina l’intera attività del comune; funge inoltre da tramite tra gli uffici, la giunta e il sindaco. La sua connotazione professionale appare sempre più quella di un manager e sempre meno quella di un semplice notaio, come era prima della riforma Bassanini. Il segretario comunale non deve solo controllare la legalità sui singoli atti, ma si fa garante dell’efficienza ed efficacia dell’attività complessiva; deve aiutare a finalizzare il programma previsto all’inizio dalla giunta e dal sindaco. Il suo carico di lavoro è notevole in quanto, nell’ottica del decentramento e del federalismo, le funzioni un tempo svolte dallo stato, ora sono affidate al comune in quanto l’istituzione più vicina al cittadino. Il suo

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orario di lavoro è flessibile e quest’impegno le assorbe gran parte del tempo da dedicare alla vita privata; inoltre, essendo la produzione normativa elevata, risulta indispensabile seguire costantemente dei corsi di aggiornamento. Nell’ultimo periodo lavora anche come supplente del segretario comunale del comune di Ronchis.

La dottoressa Finco afferma che il ruolo del segretario comunale ben si attaglia alla sensibilità femminile in quanto, soprattutto nei piccoli comuni, tale figura è considerata un punto di riferimento per molte persone che al segretario si rivolgono non solo per informazioni inerenti l’attività del Comune, ma spesso anche per chiedere informazioni riguardo i rapporti con altre istituzioni.

 

 

Rosa Ricciardi, dottore commercialista

 

La dottoressa, alla domanda relativa al suo percorso di studi, ci spiega che negli anni Sessanta chi non godeva in famiglia di una buona situazione economica, terminate le scuole medie, frequentava una scuola superiore che gli garantisse un diploma (nel suo caso, il diploma di ragioneria); inoltre ci sottolinea il fatto che gli indirizzi adatti alle ragazze erano principalmente due: scuole magistrali e istituto tecnico commerciale. Lei scelse quest’ultimo perché aveva buone attitudini all’economia. La maggior parte del suo tempo era dedicata allo studio, in quanto gli impegni extrascolastici erano pochi anche in una cittadina come Palmanova.

Dopo il diploma, grazie a interventi economici per il diritto allo studio, ha potuto iscriversi all’Università degli studi di Trieste alla facoltà di Economia e Commercio, che rappresentava la naturale prosecuzione degli studi già effettuati. In sede di laurea presentò una tesi in Diritto fallimentare e una tesina in Tecnica bancaria; il docente che l’aveva seguita nella preparazione della tesina, le chiese se era disposta a rimanere all’università, ricevendo per le ricerche fatte una borsa di 500.000 lire al mese.

Accettò la proposta e, dopo aver trovato un appartamento con altre tre sue amiche, a settembre iniziò a frequentare l’istituto. In breve tempo, però, si rese conto che le spese per vivere a Trieste erano troppo elevate e i genitori, che dovevano mantenere agli studi anche una figlia più piccola, non erano in grado di aiutarla a lungo. Decise così di partecipare a un concorso per l’azienda municipalizzata ACEGAS di Trieste. Vinto il concorso, iniziò a lavorare nell’ufficio di contabilità e lì vide per la prima volta i registri contabili, pertanto applicò in maniera concreta tutto ciò che aveva studiato a scuola. Nel frattempo si era anche informata su un concorso pubblico alla Cassa di Risparmio Udine Pordenone (CRUP). Lei ci racconta che questo concorso era

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un’ottima occasione, in quanto in precedenza le banche della zona assumevano soprattutto ragionieri maschi. Ottenuto questo posto di lavoro, si trasferì a Udine, prima nella sede di Mortegliano e successivamente in quella di Palmanova. Lavorava allo sportello, questo la portava a essere in costante contatto con il pubblico. Al suo ingresso nell’istituto trovò un ambiente molto accogliente con persone prevalentemente anziane, prossime alla pensione, che le insegnarono tutto quello che avevano imparato nel corso della loro attività lavorativa.

Era già sposata da sei - sette anni e sino a quel momento lei e suo marito avevano rimandato il discorso riguardo ai figli, essendo entrambi troppo impegnati col lavoro che li occupava dalle otto del mattino alle sette di sera. Il desiderio della maternità la portò a cercare un’altra soluzione lavorativa: intraprendere la carriera di insegnante, un lavoro compatibile con la famiglia e che l’avrebbe messa a stretto contatto con i giovani. Così, ripresi in mano i libri, non senza sacrificio, dopo aver superato un concorso bandito dal ministero della Pubblica Istruzione, entrò all’ITC Deganutti di Udine, dove riuscì a inserirsi senza alcuna difficoltà. Dopo l’anno di prova venne nominata insegnante di ruolo in Economia aziendale.

L’istituto udinese curava molto i corsi di psicologia che preparavano i docenti a un miglior approccio con gli alunni e questo le fu utile non solo per il lavoro in classe, ma anche per i rapporti con i colleghi, con i suoi familiari e amici. Dopo dodici mesi trascorsi in quella scuola, ricoprì una cattedra a San Giorgio per un breve periodo, per poi essere nominata titolare di una cattedra di Ragioneria all’ ITC Einaudi di Palmanova. Promosse assieme ad altri colleghi la sperimentazione del corso Igea che aveva il compito di rivalutare e valorizzare il titolo di ragioniere, un progetto scuola- lavoro, effettuando delle ricerche, grazie alla consulenza dell ’Abacus di Milano, per verificare quali attività lavorative erano state intraprese dai diplomati dell’ Einaudi.

Lo scopo di tale progetto era da un lato quello di presentare agli studenti le richieste del mercato del lavoro, dall’altro di migliorare l’attività didattica in classe, per renderla più vicina al mondo del lavoro, almeno nelle materie professionali.

Con l’arrivo di un nuovo preside, che non accolse positivamente i progetti realizzati fino a quel momento, decise di guardarsi attorno in cerca di altre possibilità.

Riprese gli studi per ampliare e rivedere le sue conoscenze in vista dell’esame di stato per l’esercizio della professione di dottore commercialista. Consapevole di non essere aggiornata riguardo le norme della riforma fiscale e delle nuove normative CEE, che avevano modificato la struttura del bilancio aziendale, al mattino continuava a insegnare, mentre al pomeriggio si recava a Udine per seguire le lezioni della facoltà di Economia bancaria.  Dopo aver sostenuto l’esame di stato che la abilitava alla libera professione, lasciò l’insegnamento e aprì nel 1992 uno studio associato con un avvocato donna, in modo da poter esaminare i vari casi sotto un duplice profilo, giuridico ed economico-aziendale. In questa attività mise a frutto tutte le sue esperienze precedenti, utili le furono soprattutto le nozioni apprese durante l’insegnamento e i corsi di psicologia frequentati in passato.

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Dopo alcuni anni la colpì una grave malattia, per cui nel gennaio del 1995 si sottopose a un difficile intervento dopo aver chiuse tutte le pratiche. L’esito per fortuna fu positivo, la convalescenza durò sei mesi e questa fu la fase più critica della sua vita, tanto che la mattina non aveva voglia di alzarsi perché non trovava il senso di quello che avrebbe dovuto fare. Quando le condizioni di salute migliorarono, decise di ricominciare da sola, ma non nel settore fiscale, dove il mercato era fortemente competitivo, e di specializzarsi nel settore della Pubblica Amministrazione, che aveva conosciuto dall’interno nella veste di consigliere comunale a Palmanova. Oggi è presidente della sezione regionale del Club dei Revisori, un’associazione che riunisce tutti coloro che ricoprono questo ruolo negli enti locali della nostra regione.

Nel 1998 l’Ordine dei dottori commercialisti della Provincia di Udine e il Collegio dei ragionieri del Friuli fondarono l’Associazione Libere Professioni Economiche-Giuridiche con lo scopo di programmare corsi di formazione per i propri iscritti e le affidarono la presidenza, che tutt’ora ricopre.

Alla fine ci lascia un suo giudizio sull’impiego in banca come l’attività per lei meno gratificante, perché il lavoro è molto standardizzato.  Ora invece trova estremamente interessante l’attività di libero professionista, che le lascia ampie capacità di scelta sul quando e sul come lavorare, se accettare o meno le proposte, ma fra tutte le esperienze precedenti ricorda con molto piacere l’insegnamento.

 

 

Cecilia Schiff, sindaco

 

La professoressa, conseguito il diploma presso l’Istituto Magistrale “C. Percoto” di Udine, appena iscritta alla facoltà di Magistero, a diciannove anni per esigenze economiche iniziò a insegnare presso la scuola media unica, nel frattempo proseguiva gli studi. Superato un concorso magistrale, ottenne un posto di lavoro nella scuola elementare.

Una volta conseguita la laurea, riprese l’insegnamento alla scuola media, dove insegna tuttora, nel contempo si sposò ed ebbe due figli. Proprio per questi motivi agli inizi della sua carriera riscontrò numerose difficoltà nel conciliare famiglia e lavoro come succede a molte donne. Riuscì comunque a trovare anche il tempo per scrivere e correggere articoli per un giornalino comunale di carattere politico-culturale. Da qui ebbe inizio il suo interesse per la politica che non immaginava la coinvolgesse. Successivamente entrò in una lista che risultò di minoranza nel Comune di  Porpetto. Il suo coinvolgimento era dipeso da una legge che prevedeva che un terzo della lista doveva essere rappresentato da donne.

Dal 1999 ricopre la carica di primo sindaco donna del comune di Porpetto, eletta direttamente dai cittadini, con la nuova riforma. La campagna

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elettorale era iniziata non molto tempo prima, verso il Natale dell’anno precedente. Cecilia aveva voluto presentare un programma approfondito, realizzabile, concreto, puntando soprattutto sul rispetto della persona. Fu difficile trovare i componenti la lista perché l’impegno richiesto era notevole e molti pensavano di non essere all’altezza del compito. Formata la lista, alla quale aderirono tre donne su otto candidati, il programma fu presentato casa per casa

Le elezioni volsero a suo favore perché era riuscita a conquistare la fiducia dei cittadini, aveva già dimostrato le sue capacità perché da molto lavorava nelle istituzioni scolastiche; inoltre come consigliere di minoranza aveva dimostrato le sue doti politiche. Già dall’inizio della sua carriera non ci furono particolari problemi nei rapporti di lavoro con i colleghi maschi, se non quelli che normalmente scaturiscono qualora le ideologie politiche siano divergenti.

Secondo la sua opinione una donna può lavorare con un’applicazione diversa rispetto a un uomo perché è più precisa e puntuale. L’unico svantaggio deriva dal fatto che spesso si trascura la famiglia. Svolge volentieri questo incarico perché ritiene importante perseguire i propri progetti e portare avanti le scelte intraprese, specie se ritenute buone per la comunità.

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Interviste alle donne delle tre  generazioni

 

 

Interviste alle donne di prima generazione

 

Iole, nata nel 1922

 

D: Fino a che età hai frequentato la scuola?

R: Ho iniziato la scuola a sei anni e ho finito i miei studi all’età di dieci anni. Ho frequentato le elementari fino alla quarta elementare

D: Com’era formata la classe?

R: La nostra classe era formata da circa una quarantina di ragazzi, ma della mia classe, cioè la classe del 1922, c’erano più bambine che bambini

D: Fino a quale classe andavano a scuola le bambine? E i bambini?

R: Nessun ragazzo continuava gli studi, né maschi né femmine. Qualche ragazzo o ragazza continuava fino alla quinta elementare ma erano veramente pochi.

D: Come era impartito l’insegnamento?  Mi sai dire quali erano programmi e materie?

R: Eh, ci insegnavano un poco, insomma si iniziava con le aste e dopo si continuava con l’alfabeto: a, e, i, o, u. Si studiava anche la matematica e l’italiano scritto, si studiava anche la storia d’Italia.

D: Qual era il rapporto tra scuola e vita familiare?

R: Dopo la quarta elementare si andava dai nonni, perché, essendo anziani, avevano bisogno d’aiuto perché avevano due vitelli; a dieci anni ero già in grado di mungere le mucche. Si andava a scuola prima e dopo mezzogiorno a quei tempi, ma il giovedì pomeriggio eravamo liberi e quindi noi bambini andavamo a bruschià (raccogliere legna secca nella campagna) per poter fare fuoco.

D: Era ritenuta importante la scuola per una bambina?

R: Era indifferente essere una femmina o un maschio, sia nell’ambito scolastico che familiare tutti ricevevano lo stesso trattamento.

D: Spiegami se c’erano discriminazioni in famiglia tra i figli in campo scolastico.

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R: I miei genitori non hanno fatto discriminazioni in campo scolastico favorendo i miei fratelli. Tutti noi abbiamo avuto uguale preparazione scolastica. Non so se forse i miei fratelli hanno frequentato la scuola fino alla quinta.

D: A che età hai concluso la scuola e per quali motivi?

R: Ho lasciato la scuola a dieci anni.  Non avevo voglia di continuare, non mi importava, e poi non c’erano neanche le medie a quei tempi nella mia zona.  Anche mio figlio Renzo ha dovuto frequentare le medie a Udine, al Malignani, e ha fatto tre anni di medie.  Per frequentare le medie si doveva quindi andare a Udine e ai miei tempi non c’erano le possibilità di trasporto che si hanno oggi.  La corriera passava solo tre volte al giorno: la mattina, il pomeriggio e la sera.  E poi mia madre ci ha subito mandate a lavorare; quando lavoravo a Udine, lei passava ogni mese a ritirare i soldi che guadagnavo e io non vedevo neanche un centesimo, mica come adesso che voi fate quello che volete. Mia madre era molto severa

D: Quali erano le tue ambizioni?

R: Non avevo delle ambizioni, andava bene tutto quello che volevano i genitori. Non ho mai avuto l’intenzione di imparare un mestiere, che mestiere dovevo imparare? Mia sorella Cesarina aveva l’intenzione di diventare sarta e ha imparato il mestiere, ma noi altre andavamo solo a lavorare come cameriere o domestiche, e alla fine mia madre ritirava tutto il denaro guadagnato.

D: Quali erano le condizioni economiche della famiglia?

R: A quel tempo c’erano tante gelate, mio padre faceva il muratore d’estate, ma d’inverno si limitava a fare qualche lavoretto nelle case. Ricchi non eravamo di certo, anzi eravamo poveri. Pregare solo di andare via e di poter mangiare; eravamo in sei e la casa era piccola, c’erano solo due camerette e la cucina.  C’era anche difficoltà nell’andare a dormire, ci si arrangiava come si poteva; il letto era formato da cartocci, quello era il nostro letto, ci si copriva solo con degli stracci, mica come adesso che si hanno coperte e piumini. Si pativa il freddo, e quando si andava a scuola, se pioveva, non si usava mica l’ombrello! Mia madre ci dava un sacco sorretto da un bastone e usavamo anche gli zoccoli. Quando abbiamo fatto la comunione, io e le mie sorelle  abbiamo indossato tutte e quattro lo stesso vestito: era un bel vestito di lana bianco e nostra madre ci aveva fatto le scarpe bianche. La vita procedeva così come si poteva.

D: Qual era la composizione del nucleo familiare?

R: La mia famiglia era composta da mia madre, mio padre, io, altre tre sorelle e due fratelli. I miei fratelli dopo la scuola hanno iniziato a lavorare: Galdino come muratore, Eugenio invece ha fatto il falegname. I miei genitori erano severi e non ci lasciavano uscire, solo la domenica si giocava a palla morta, a tombola, l’inverno dai vicini benestanti, a lip (gioco in cui si utilizza un bastone) o con i bottoni; si giocava così. La sera si andava nella stalla e

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c’erano altre bambine che abitavano nello stesso cortile (c’erano cinque famiglie, quindi c’erano tanti bambini) si ricamava e si faceva la maglia, perché anche a scuola ci insegnavano a cucire, ci insegnavano il punto erba e l’orlo a giorno. Nella mia famiglia non ci sono mai stati grandi rapporti affettivi, neanche dopo sposata, perchè mia suocera comandava tutto e tutti. Era come essere a lavorare sotto le dipendenze di qualcuno. Io non potevo controbattere o esprimere un mio parere su qualcosa perché era lei che comandava. Quando ero nubile mia madre ci trattava severamente e a mio padre non importava molto di noi, anche se era un buon uomo.

D: A quanti anni hai iniziato a lavorare? Quali attività e lavori hai svolto?

R: A dodici anni sono andata a Udine a lavorare come cameriera in una piccola trattoria. Questo tipo di lavoro mi piaceva, ma poi mi bastava guadagnare qualche soldo, anche se alla fine i soldi finivano tutti nelle mani di mia madre. In seguito sono stata a lavorare a Codroipo nel tabacco verde, a infilzare; l’inverno lavoravo col tabacco secco. Per andare a lavorare utilizzavo la bicicletta, andata e ritorno in bicicletta e se pioveva mi prendevo anche delle belle lavate! Magari si andava via la mattina che c’era bel tempo e la sera, quando si tornava a casa, si prendeva la pioggia. Poi sono andata a lavorare a Milano come collaboratrice domestica e sono stata là fino a quando  mi sono sposata. Prima di sposarmi, ho lavorato per un breve periodo da Manzarotto a Codroipo; in quella ditta si fabbricavano le bombe. C’erano dei bei capannoni lì e io lavoravo su delle bombe per i cannoni chiamate 105  e picchiatello (bombe per i caccia a forma cilindrica, lunghe circa venti centimetri). In tempo di guerra in questa zona volavano i caccia che, utilizzando i picchiatelli, abbattevano i treni che uscivano dalla stazione di Basiliano. Ho smesso di lavorare quando mi sono sposata a venti anni, perché mio marito era in guerra, e in casa i miei suoceri avevano bisogno di una donna; loro avevano solo mio marito come figlio e quindi erano restati soli. Non erano tanto anziani, ma avevano comunque bisogno di qualcuno che li aiutasse con le mucche, anche loro dovevano guadagnare qualcosa perché a quei tempi non c’erano le pensioni. Ma loro non mi davano mai niente e io, per comprare qualcosa a mio figlio, dovevo vendere delle borse che facevo con i cartocci. Ribadisco che facevo tutti i lavori di casa a mano e si andava a risciacquare i panni nei canali anche quando c’era freddo. Per i bambini cercavo anche di rammendare qualcosa di vecchio, anche se poi durava poco. Comunque, dopo essermi sposata, non ho mai lavorato fuori casa.

D: Come hai trovato i lavori che hai svolto?

R: Ho trovato lavoro perché nella stessa casa a Milano ci lavorava già mia sorella, ma lei come cuoca, io come cameriera e come bambinaia; comunque mi hanno sempre trattato molto bene, anche in altri ambienti perché ne parlavano parenti o conoscenti.

D:  Quali attività hai svolto nell’ambito familiare?

R: Dato che i miei nonni possedevano delle mucche, io li aiutavo. Aiutavo soprattutto mia nonna nella stalla. La domenica, essendo mia madre severa,

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dovevamo preparare la cena perché avevamo una mucca e la domenica era lei che si occupava dell’animale e noi, in cambio, preparavamo la cena con quello che si poteva; sai a quei tempi c’era povertà. Comunque in famiglia aiutavo mia madre nell’orto o a fare le pulizie domestiche.

D: Percepivi un salario o una paghetta?

R: Ah paga! Neanche un soldo, mai! La domenica si giocava con le noci e allora mia madre ci dava una palanca (soldo di rame) e, se buttando la palla di ferro con cui giocavamo rompevamo le noc,i non le mangiavamo mica, bisognava tenerle da conto per la domenica dopo, e le si riattaccava con la cera per poterci rigiocare la domenica dopo, sempre con quelle! Mica mangiarle! Tenerle! Ma che paga, neanche una lira, mai! Non ho mai avuto dei soldi miei neanche quando lavoravo a Milano; il giorno stesso in cui mi pagavano dovevo andare a spedire a mia madre tutti i soldi. Gli unici soldi che mi tenevo erano quelli che la mia padrona mi dava ogni volta che mi incontrava mentre faceva la sua passeggiata in giardino e io stendevo la biancheria dopo averla lavata a mano. Alla padrona stavo molto simpatica e mi faceva sempre servire in tavola quando radunava tutta la sua famiglia, cenavano sotto il portico della sua tenuta di campagna. Per dimostrare la sua simpatia verso di me mi dava o dieci o cinquanta lire a seconda di quello che aveva a disposizione. Con questi soldi sono riuscita a comprarmi un paio di lenzuola, che a quei tempi costavano cento lire e io al mese percepivo centotrenta lire. E la sera, invece di uscire per Milano a spendere i miei pochi soldi, stavo a casa a ricamare, così risparmiavo.

D: Come utilizzavi il denaro?

R: Non ne ho mai posseduto, quando ero bambina, del denaro che fosse totalmente mio, e per mangiare qualche castagna il giorno dei santi si andava a civons (raccogliere le pannocchie restate a terra dopo aver raccolto il mais) e, se si trovava qualche pannocchia, la si barattava con qualche castagna. Si dava tanto per tanto, tante castagne in cambio di tante pannocchie.

D: Lavoravi in nero?

R: Non lavoravo in nero, ero assunta regolarmente sia quando lavoravo nel tabacco, sia quando lavoravo nella fabbrica di bombe. Ero in regola, avevo anche il libretto di lavoro.

D: Quali erano le condizioni di lavoro?

R: Quando lavoravo nei magazzini delle bombe era molto pericoloso. Quando scoppiò la camera 141 io ero a casa. Ma uno di Variano, il paese vicino, è rimasto ucciso come tanti. Dopo c’è stato uno scoppio alla camera 149; io stavo in una piccola saletta circondata da terra con solo una piccola finestrella, eravamo in sette lì dentro, era pericoloso, infatti, chi doveva entrare doveva bussare. Io, passando accanto a una scatola, mi sono provocata una sbucciatura

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e per fortuna sono dovuta andare a casa; se non mi fossi provocata quella ferita, sarei morta. In cambio quell’insignificante ferita mi causò il tetano. I miei colleghi rimasti a lavorare sono morti tutti, erano in sette: cinque uomini e due donne, di cui una era incinta di quattro mesi. È morta. Se io non fossi stata a casa con il tetano, sarei morta anch’io. In questo posto ho lavorato per poco tempo, circa otto mesi, poi mi sono sposata. Quando lavoravo nel tabacco, non facevo tanti sforzi, dovevamo infilzarlo quando era verde e poi lo mettevamo a seccare. L’inverno lo si sceglieva: quello più bello, quello più brutto, quello adatto per i sigari e quello adatto per le sigarette. Non era un lavoro pesante: quando si infilzava il tabacco si stava seduti e quando lo si sceglieva si stava in piedi, ma non pesava.

D: Mi descrivi una giornata di lavoro?

R: Lavoravo otto ore al giorno, ma il tempo passava abbastanza velocemente perché si stava in compagnia, si parlava del più e del meno.

D: Essere una donna ti ha creato problemi?

R: No no, tanto dove si doveva andare o a lavorare nel tabacco, o  a Codroipo, lì delle bombe. Eh! non era facile trovare lavoro a quel tempo, maschio o femmina era indifferente, il lavoro era comunque difficile da trovare. Bisognava adeguarsi a quello che si trovava.

D: Qual era la condizione della donna durante il fascismo?

R: Ai miei tempi il fascismo non era molto sentito, ma cosa vuoi, la guerra è guerra, mio marito era militare e io dovevo lavorare il triplo e facevo tutto a mano. Quindi il fascismo non ci ha dato problemi. I fascisti sono passati di qui per prendere le vere alle donne, ma io non l’ho data, mia suocera invece sì. Al posto della fede d’oro te ne davano una di bronzo.

D: E la guerra ha influito sulla tua vita quotidiana?

R: Una volta sono passati i partigiani. Io ero sulla finestra a buttare l’acqua e un partigiano era alla finestra intento a chiedere da mangiare, ma io cosa dovevo dargli?  Gli ho dato quello che ho potuto.  Una sera invece sono andata a portare il latte via e, quando tornavo indietro, all’entrata della mia via ho incontrato un tedesco in bicicletta, ubriaco. Io ero a piedi e lui mi si mette davanti e mi blocca il passaggio, faceva passare tutti, ma me mi ha tenuta ferma fino a sera; alla fine mi disse: “Tu sei una partigiana, vai tutte le sere a spasso con i partigiani”. Io ho risposto che ero sposata e avevo un figlio piccolo, allora mi ha lasciata andare, ma dallo spavento preso non ho più potuto allattare mio figlio, perché non avevo più latte. Alla fine ho dovuto far mangiare al mio bambino latte di mucca o latte ricavato dalla bollitura dell’orzo.

D: Il salario percepito da donne e uomini era uguale?

R: Mah, non saprei risponderti, posso solo dirti che mi pagavano ogni quindici giorni e  io prendevo circa cento lire .

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D: Vuoi raccontarmi qualche cosa di particolare?

R: E cosa ti posso raccontare? Vuoi sapere del mio matrimonio? Con mio marito lavoravo spesso nei campi, lui portava l’aratro e io portavo i cavalli. Lavoravamo per altre persone, ma era mia suocera a ritirare i soldi dalle persone per cui avevamo lavorato. Era sempre lei a gestire il denaro e spesso e volentieri mio marito si arrabbiava con lei perché gli dava i soldi contati e a me non dava niente. Dovevamo fare tutto quello che lei voleva e, se non lo facevi, sapeva bene come punirti anche ricorrendo alla violenza. Questo era il mio matrimonio. È morta quando aveva settantasei anni, ma non è cambiato molto. Si lavorava sempre come contadini, si riusciva a risparmiare qualcosa in più per acquistare qualche campo e aumentare la stalla. Ma i soldi scarseggiavano ugualmente e a volte ci indebitavamo; quando mio marito è morto mi ha lasciato sei milioni di lire di debiti e io ho dovuto lavorare come un cane per poter estinguerli. Adesso sono piena di dolori, ecco cosa ho guadagnato. A volte mio marito anche si arrabbiava con me perché sua madre non gli dava soldi, ma io cosa potevo dargli se non avevo una lira in tasca? Così non si potevano neanche mantenere dei rapporti d’affetto né con i suoceri, né con lui.

D: Com’era il rapporto con i tuoi figli?

R: Non li vedevo quasi mai, perché ero sempre a lavorare fuori casa, erano i suoceri a badare a loro. Neanche la domenica potevo passare un po’ di tempo con loro perché dovevo lavare e rammendare i vestiti. I miei figli non hanno mai potuto avere dei bei giocattoli perché non ne avevamo la possibilità. Loro giocavano con una palla fatta di lana.

D: Cosa ti è rimasto nella memoria?

R: Poco, perché ho passato gran parte della mia gioventù a Milano e mi sono persa tante cose successe in questo paese.

 

 

 

Teresina,  nata nel 1922

 

D: Fino a quale età hai frequentato la scuola?

R: Ho frequentato la scuola fino all’età di undici anni, fino alla quinta elementare, poi avevo l’intenzione di proseguire gli studi, ma non avevo le disponibilità economiche i mezzi da parte della famiglia, così mi sono subito inserita nel mondo del lavoro.

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D: Come era formata la tua classe?

R: La classe era composta sia da maschi che da femmine. Era una classe molto numerosa, formata da circa venticinque, trenta scolari.

D: Fino a quale classe andavano a scuola le bambine? E i bambini?

R: Le bambine e i bambini frequentavano la scuola entrambi fino alla quinta elementare, cioè fino alla scuola dell’obbligo. Non esistevano discriminazioni in campo scolastico tra maschi e femmine, solamente chi aveva la possibilità economica poteva continuare gli studi iscrivendosi al collegio, ma questo era ritenuto un lusso, in quanto questa scuola si trovava lontano dal mio paese, a circa trenta chilometri di distanza ed esclusivamente poche persone se lo potevano permettere perché richiedeva unenorme dispendio di denaro per pagare i libri, la scuola e i mezzi di trasporto.

D: Come era impartito l’insegnamento?

R: C’era un’unica insegnante per tutte le materie. L’insegnante era severa nel pretendere l’applicazione e l’impegno da parte degli scolari  e nel mantenere la disciplina in classe. Nell’arco del mio percorso scolastico ho cambiato due insegnanti. Dal lunedì al venerdì la scuola iniziava la mattina e terminava il pomeriggio verso le quattro e mezza, mentre il sabato le lezioni si svolgevano solo durante la mattina perché il pomeriggio era dedicato alla marcia fascista, nel cortile della scuola, degli scolari suddivisi in maschi e femmine. Le materie che ci venivano insegnate in classe erano le seguenti: matematica, italiano, storia, geografia e cultura fascista (opere massime del Duce). Inoltre alle ragazze veniva insegnata la manualità: ricamo e punto croce, mentre ai ragazzi venivano insegnate altre materie come il disegno tecnico e altre discipline specifiche maschili.

D: Quali erano le percentuali delle bambine che hanno continuato la scuola dopo le elementari?

R: Nella mia classe solamente una ragazza ha continuato gli studi in quanto possedeva gli aiuti economici da parte dei genitori, nonostante abbiano  dovuto compiere dei sacrifici. Questa ragazza aveva una sorella più giovane, ma lei si è fermata alla quinta elementare perché non aveva passione per lo studio, mentre la mia compagna di classe ha frequentato il collegio a Udine e poi si è iscritta all’università a Milano, terminando così la sua carriera scolastica.

D: Qual era il rapporto tra scuola e vita familiare?

R: Frequentare la scuola voleva dire fare dei sacrifici da parte della famiglia, perché i libri avevano un prezzo molto elevato. La mattina e il pomeriggio, fino alle quattro e mezza, andavo a scuola e quando ritornavo a casa aiutavo i genitori nelle faccende domestiche e infine la sera eseguivo i compiti assegnati dall’insegnante.

D: Era ritenuta importante la scuola per una bambina?

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R: La scuola era ritenuta importante sia da parte delle bambine che da parte dei bambini. È chiaro che c’era chi aveva più passione per lo studio e invece chi era più portato per il lavoro. Comunque andare a scuola era ritenuto un privilegio e un lusso che pochi si potevano permettere.

D: Mi descrivi la situazione della scolarità in famiglia?

R: Mia madre ha frequentato la scuola fino alla terza elementare mentre mio padre fino alla quinta. In famiglia eravamo in cinque fratelli: due femmine e tre maschi. Tutti e cinque abbiamo terminato gli studi fino alla quinta elementare. Io ero la primogenita ed ero l’unica in famiglia ad avere la passione per lo studio, ma i miei genitori non avevano i mezzi per farmi continuare. Ho concluso la scuola all’età di undici anni. Io, però, avrei voluto proseguire gli studi per ampliare le mie conoscenze e la mia cultura.

D: Quali erano le tue ambizioni?

R: Le mie ambizioni erano quelle di proseguire gli studi. Mi sarebbe piaciuto studiare di più per allargare le mie conoscenze e la mia cultura. Studiare e conoscere, queste erano le mie aspirazioni.

D: Quali erano le condizioni economiche della famiglia?

R: Mio padre e mia madre erano lavoratori in campo agricolo. Quindi, come si sa, a volte i raccolti andavano bene e si guadagnava, mentre altre volte le entrate di denaro non c’erano, perché tutto dipendeva dalle condizioni climatiche.

D: A quanti anni hai iniziato a lavorare?

R: Subito dopo aver concluso gli studi elementari, ho iniziato a lavorare per quattro anni in un laboratorio di sartoria maschile e femminile a Spilimbergo come apprendista, ma questo non era un lavoro vero e proprio in quanto non ero retribuita, lì imparavo solo il mestiere; inoltre dovevo ricompensare i proprietari per il favore che mi facevano con dei generi alimentari. All’età di diciassette anni ho intrapreso un’attività in proprio a casa mia, a Lestans, come sarta, in una stanza che i miei genitori avevano arredato apposta per me. Ad aiutarmi nella mia attività di sarta c’erano tre o forse quattro ragazze apprendiste. Anche se era un lavoro che a me piaceva e che ho compiuto con passione, io avrei preferito continuare gli studi. Le mie clienti erano la maggior parte donne che lavoravano in filanda e che, con il guadagno che percepivano, venivano a farsi fare vestiti su misura.

D: Era un lavoro di genere?

R: Sì, in quanto solamente le donne in quegli anni svolgevano questa professione di sarta. Le mie collaboratrici erano esclusivamente donne. I miei genitori mi hanno aiutato a intraprendere questa attività, comprandomi la macchina da cucire e tutti gli attrezzi necessari per la sartoria; inoltre hanno

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installato la luce elettrica,  che fino a poco tempo fa in casa mia non esisteva. La stanza che occupavo era diventata un vero e proprio laboratorio.

D: Quali erano i rapporti  nell’ambiente lavorativo?

R: Con le apprendiste avevo un buon rapporto perché erano interessate a imparare il mestiere. Le clienti erano abbastanza esigenti perché, non avendo un fisico perfetto, erano difficili da accontentare. La difficoltà stava nel saper creare dei vestiti adatti alla figura della persona. Cercavo anche di aiutare la famiglia nell attività  agricola, ho tentato di svolgere alcune attività nei campi, ma il lavoro di fatica non era per me. Quindi mi dedicavo più a mestieri casalinghi.

D: Qual era la condizione economica della famiglia?

R: In famiglia cercavamo di aiutarci a vicenda. Si risparmiava in base alle entrate monetarie. Una parte del mio guadagno lo davo alla famiglia come anche i miei fratelli: uno faceva il macellaio, l’altro il muratore; mentre l’altra parte la custodivo per crearmi in futuro il corredo per sposarmi.

D: Qual era l’orario di  lavoro?

R: L’attività di sarta non aveva un orario fisso, perché in alcuni periodi si lavorava molto e intensamente tutta la giornata, anche di notte, come per esempio alle scadenze prefissate antecedenti alle festività, mentre in altri momenti si lavorava normalmente quelle otto, nove ore al giorno.

D: Quale salario percepivi?

R: Non era un salario fisso, in quanto dipendeva dal vestito, dalla stoffa, dalla difficoltà o semplicità di realizzare l’abito e soprattutto dal pagamento del cliente, se veniva effettuato o meno.

D: Lavoravi in nero?

R: In quegli anni non esistevano le assicurazioni in caso di infortunio e nemmeno il libretto di lavoro, inoltre non c’era neanche l’iscrizione all’artigianato.

D: Quali erano le caratteristiche del tuo lavoro?

R: Le qualità richieste nel lavoro erano la responsabilità, l’impegno e la puntualità nel consegnare i capi alle date stabilite. Il lavoro iniziava la mattina presto. Le clienti venivano nel mio laboratorio per scegliere il modello dell’abito che volevano farsi confezionare. Io, aiutata dalle apprendiste, prendevo le misure, disegnavo i modelli sulla stoffa, li tagliavo e poi li mettevo in prova e, se c’erano difetti, li correggevo. Poi confezionavo il vestito e convocavo nuovamente la cliente per venirlo a ritirare.

D: Come giudicavi la posizione della donna sul mercato del lavoro?

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R: Le donne erano allo stesso livello degli uomini. Forse le donne svolgevano attività più manuali e casalinghe, mentre gli uomini erano dediti a lavori che richiedevano maggiore sforzo fisico. Durante il fascismo solo nelle fabbriche esistevano il libretto di lavoro e i contributi assicurativi, mentre nel lavoro artigianale, come quello svolto da me, ancora no.

D: Ti ricordi se il salario percepito dalle donne e dagli uomini era pareggiato?

R: Giravano pochi soldi. Comunque sia gli uomini che le donne erano retribuite allo stesso modo. Ora non ricordo quanto, a quell’epoca, potessero guadagnare.

D: Qual era la condizione della donna durante la seconda guerra mondiale?

R: Qui ci sono tante cose da raccontare, tanti ricordi. Il nostro lavoro era svolto all’interno delle mura di casa: io continuavo a svolgere l’attività di sarta, mentre mio marito, in un laboratorio vicino all’abitazione, si dedicava al mestiere del marmista. Con noi viveva anche mia suocera che teneva i bambini piccoli, mentre noi eravamo impegnati nel lavoro.

D: Hai continuato il lavoro dopo aver avuto figli?

R: Sì, perché in casa c’era bisogno di soldi, anche se svolgevo la mia attività con minore costanza rispetto a quando ero giovane, a causa dei figli e delle faccende domestiche a cui dovevo adempiere.

D: Come è stata la gestione dei figli?

R: Quando i figli erano piccoli, li teneva la loro nonna paterna, quando poi sono cresciuti, hanno iniziato ad andare a scuola e dopo scuola ci aiutavano nei lavori di casa.

D: Quanti figli hai avuto?

R: Ho avuto cinque figli: tre femmine e due maschi.

D: Avevi un ruolo importante nella famiglia?

R: Avevo semplicemente il ruolo di madre e di moglie. Chiaramente dovevo gestire i lavori di casa, ma in famiglia collaboravamo tutti quanti, ognuno aveva il suo compito e i suoi impegni, le sue responsabilità.

D: Come ti trattavano i tuoi genitori?

R: Mia madre e mio padre mi trattavano allo stesso modo. Mia madre, sin da piccola, ha sempre cercato di insegnarmi a svolgere le faccende domestiche e i lavori femminili. Comunque, da parte mia, verso i loro confronti c’era un rapporto di grande rispetto e obbedienza.

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Albina, nata nel 1923

 

D: Fino a che età hai frequentato la scuola?

R: Io ho frequentato la scuola fino alla quarta elementare.

D: Dove?

R: A Santa Maria la Longa

D: La tua classe come era formata?

R: Da venti, venticinque ragazzi.

D: Più maschi o più femmine?

R: Metà, eravamo misti insomma.

D: Fino a quale classe andavano a scuola i bambini e le bambine?

R: Dalla quarta fino alla quinta elementare.

D:C’erano differenze tra bambini e bambine, i maschi frequentavano qualche anno di più rispetto alle femmine?

R: No, eravamo lì, la maggior parte dei ragazzi terminava la scuola in quarta, non c’era obbligo di frequenza per la quinta, veramente neanche pensavamo alla quinta, quelli che stavano meglio frequentavano la quinta, ma non in paese.

D: Come era impartito l’insegnamento? L’organizzazione della scuola?

R: C’erano maestri e maestre, erano severi, la scuola non era a tempo pieno: si andava a casa alle 11.30 poi si riprendeva alle 3.30, 4.00 e si stava due, tre ore anche dopo pranzo.

D: Quali erano i programmi e le materie che facevate?

R: Si studiava storia, geografia, matematica, si faceva la storia vecchia di una volta, come ad esempio Ciro Menotti, Luciano Manaro, sai quelle storie.

D: Come erano le percentuali delle bambine che andavano a scuola dopo le elementari?

R: C’era qualcuno, come ti dico, solo quelli che stavano più bene, i ricchi, che frequentavano di più, noi si aveva solo i campi, quella volta c’erano solo

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campi e casa e basta.

D: Qual era il rapporto tra la scuola e la vita familiare?

R: Erano i genitori che andavano a parlare con i maestri quando avevano tempo.

D: Era ritenuta importante la scuola per una bambina?

R: Era uguale per un bambino o per una bambina, perché c’era più miseria di adesso e avevamo solo quei campi che si lavoravano non con i trattori, ma solo con le mucche o a mano, si andava con il rastrello a raccogliere l’erba, con il falcetto si tagliava il frumento, si legavano i covoni tutto a mano.

D: Qual era la situazione della scolarità in famiglia?

R: I miei genitori hanno frequentato la scuola, uguale alla mia.

D: Quindi, a quanti anni hai concluso la scuola?

R: Alla quarta, si incominciava a sei anni, ho finito a dieci anni.

D: A te sarebbe piaciuto continuare?

R: Veramente non tanto, perché non ti badavano tanto a casa, perché i genitori  dovevano andare per i campi, era l’unico lavoro, non c’era nient’altro, tante bestie a casa, anatre, oche, galline, mucche, i bachi da seta. Sai, era così!

D: Mi sai descrivere le condizione economiche della tua famiglia?

R: Guarda, si mangiava tutta roba di casa: carne di maiale, le macellerie erano aperte una volta alla settimana o il sabato o la domenica, sabato dopo pranzo e la domenica mattina,  ma noi non si andava a prendere carne. Si ammazzavano cinque maiali all’anno, avevamo le bestie da cortile, e questa carne ci bastava;  in casa si era in diciassette o diciotto, si mangiava tutta roba di casa, verdure dell’orto, non si comprava niente, solo la pasta. Il formaggio si faceva in latteria, il burro bisognava venderlo ai più ricchi, si andava a Palmanova a vendere il burro.

D: Da piccola avevi ambizioni?

R: No, come ti dico, in casa non si era ambiziosi, si doveva lavorare la terra. Capito? Dopo, quando eravamo più grandi per farci il corredo, si usava comprare una cosa alla volta, si lavorava tutto a mano. Le lenzuola si ricamavano in casa, la sera o l’inverno, invece di riposare. Quando si era più giovani si andava al pascolo con le oche e i genitori non ci badavano tanto, perché erano al lavoro. Mia sorella è stata ripetente quattro volte, mio fratello lo stesso e, se non si veniva promossi, si arrivava a casa e si diceva: “guarda che non sono promosso” e i genitori giù anche botte! Perché loro non avevano tempo, erano le famiglie così e quando si era più grandi e si voleva prendere qualche soldo, come te adesso, non c’era possibilità perché il nonno era tutto per conto

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suo, per i soldi. Non ci dava un centesimo e allora io ho cominciato a lavorare: sono stata a lavorare nell’essiccatoio a Gris nel tabacco e poi mio nonno aspettava il mese e non ci dava neanche un soldo; quella volta c’era la marmellata, la conserva che si prendeva nella carta velina. Io dicevo: “Nonno, lasciami qualche soldo per prendermi la marmellata da mangiare dietro la minestra” e lui niente. Poi sono stata a lavorare a Clauiano nella filanda, anche lì per prendermi un soldo; anche a piedi si andava via o in bicicletta, avevamo sedici o diciassette anni. Per prendermi un soldo per fare che cosa? Per comprarmi un vestito? Si andava a spigolare il frumento nei campi sempre per prendersi un soldo…per una gonna, un paio di calze, insomma, si andava avanti così.

D: Come era composta la tua famiglia?

R: Eravamo in sei fratelli, dalla parte di mia zia erano sei fratelli e poi c’erano i nonni. Eravamo in famiglia noi sei fratelli, i miei genitori e i due nonni, la mamma e il papà del papà, e la famiglia della zia.

D: A quanti anni hai iniziato a lavorare?

R: Piccola, molto giovane.

D: Il tuo primo stipendio?

R: A diciassette anni o diciotto credo, non mi ricordo bene.

D: Qual è stato il tuo primo lavoro?

R: Nella filanda a Clauiano, poi a Gris nel tabacchificio.

D: Sicuramente non era quello a cui tu aspiravi.

R: Invece mi piaceva, perché era meglio lì, altrimenti i padroni della casa e della terra volevano che io andassi a servire in casa loro, ma a me non è mai piaciuto, andava mia sorella qualche volta, ma non voleva andare neanche lei.

D: Era un lavoro di genere il tuo?

R: Nella fabbrica dove lavoravo c’erano solo donne, gli uomini presenti erano quelli che venivano a portare il tabacco.

D: Come erano i rapporti nell’ambiente di lavoro?

R: Insomma, nella filanda non ero neanche assicurata, quella volta non lo facevano.

D: Ma nonna, era lavoro nero?

R: Ero assicurata solo nell’essiccatoio a Gris, solo lì, nella filanda mi pare di no, non ero assicurata.

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D: Quante ore lavoravi?

R: Dove, nell’essiccatoio a Gris? Dipende dal lavoro che i contadini ci portavano, un giorno magari portavano tanto tabacco e tu lavoravi sei o otto ore, mentre un altro giorno che ne portavano poco lavoravi anche quattro ore, dipendeva tutto da loro.

D: Come era il tuo stipendio?

R: Molto basso, cosa vuoi!

D: Come utilizzavi questo stipendio?

R: Niente, dovevo dare tutto al nonno, tutto alla famiglia.

D: Come era l’economia della famiglia?

R: Il nonno gestiva tutto.

D: Quindi tu lavoravi in nero. E i tuoi parenti, i fratelli?

R: Loro lavoravano in famiglia, quella volta non c’erano fabbriche, ero solo io che lavoravo all’esterno e in nero!

D: Quali erano le condizioni dell’ambiente di lavoro?

R: A Gris c’era tanta gente e trattavano “un poco per sorta”, cosa vuoi, come adesso. Erano le cape che comandavano, erano donne, ma anche qualche uomo, che era più in alto e dominava tutto. Come adesso nelle fabbriche che sono un po’ buoni e un po’ cattivi.

D: Essere donna ti ha creato problemi?

R: Assolutamente no.

D: Mi puoi descrivere la tua giornata tipo di lavoro?

R: Arrivavo lì, mi cambiavo eravamo in compagnia, mi facevo qualche risata; si andava avanti, a mezzogiorno suonava la sirena e noi si andava fuori dalla fabbrica seduti per terra a mangiare e poi dopo pranzo si continuava il lavoro.

D: Ti ricordi che posizione aveva la donna nel mercato del lavoro?

R: Erano tutte donne come me che lavoravano, c’erano le mie cape che mi comandavano e basta, non saprei cosa dirti.

D: Mi sai dire qualcosa riguardo la legislazione sul lavoro e la condizione femminile durante il fascismo?

R: C’erano le donne fasciste, quelle iscritte al partito, e le donne italiane.

D: C’era allora una differenza?

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R: C’era un grossa differenza, perché se tu eri con il Duce c’era più probabilità di trovare lavoro, se invece eri piccola italiana”, come noi, non trovavi lavoro facilmente, anzi non te lo davano.

D: C’era differenza tra gli stipendi degli uomini e delle donne?

R: Che sappia io no, era tutti uguali, però non sono sicura.

D: Come era la condizione della donna durante la seconda guerra mondiale?

R: Come era vista? Si doveva lavorare con i tedeschi, mi pare, e noi siamo stati anche fino a Gonars a fare i buchi per loro, erano lì con il mitra. Prendevano nel paese con il carro e con il cavallo, si formavano due carri da tante che eravamo, prendevano su quelli che erano rimasti a casa dalla guerra, c’era persino la mia padroncina che mi diceva: “guarda, Albina, che mani che ho!” e io le dicevo che non era abituata a lavorare e a sporcarsi le mani con il badile a scavare buchi per loro.

D: Quindi non era una situazione favorevole per le donne in quel periodo?

R: No che non era favorevole, perché avevi paura, dei bombardamenti delle cose, non era mica facile.

D: Come è avvenuto il matrimonio, quando, dove?

R: Io ho trovato il fidanzato che avevo ventiquattro anni, poi ho fatto la fidanzata per un paio di anni e mi sono sposata a ventotto anni.

D: Era unetà avanzata rispetto a quei tempi?

R: Sì, perché non si poteva sposarsi, prima si era sposata mia sorella, poi mio fratello, non si poteva perché non si aveva i soldi, poi c’era la guerra.

D: In che anno ti sei sposata?

R: Nel 1950.

D: Appena finita la seconda guerra mondiale?

R: Brava, giusto, prima era per via della guerra che non si poteva.

D: Hai continuato il lavoro dopo aver avuto i figli?

R: No, perché mio marito faceva il capo operaio in un’azienda, a Trivignano, poi dopo due anni e mezzo è nata la mia prima figlia, sempre a Trivignano, poi ci siamo trasferiti ad Aquileia dove anche faceva il capo, ma questa volta contadino.

D: Come è stata la gestione dei figli?

R: Non capisco, la prima figlia è arrivata fino in fondo alla gravidanza, poi è morta;  ho avuto più figli: una nata a Trivignano, una a Carlino, poi ci siamo

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trasferiti e ho avuto altri due figli a San Giorgio della Richinvelda

D: Dopo aver avuto i figli eri a casa o hai continuata a lavorare?

R: No, ero a casa ma si lavorava sempre o nei campi o nella terra, perché i padroni avevano un po’ di terra, vigna e frutteti, e si lavorava così.

D: Avevi un ruolo importante nella famiglia?

R: Era il suocero, all’inizio, il capofamiglia e poi mio marito, ma lui lavorava sempre e io dovevo arrangiarmi; allevavo animali, lui aveva il salario e io no. Si mangiava con quello che allevavo, le uova, i maiali, avevo conigli, anatre, avevo tutto, oltre che dar da mangiare ai padroni (quello che allevavo) mangiavamo anche noi.

D: Nella famiglia chi aveva più polso rispetto ai figli?

R: Le decisioni più importanti le prendevamo insieme, mio marito era sempre a lavorare e io cercavo di aiutarlo.

D: Come ti trattava tua madre quando eri ancora  in famiglia?

R: Mi trattavano un po’ così, loro dovevano stare con i suoceri e noi dovevamo avere rispetto verso di loro, non potevi dire niente, i nonni quella volta erano rispettati sia dalle nuore, sia dai loro figli sia dai nipoti e se no era il “tango”, erano botte!

 

 

Alma, nata nel 1925

 

Alma, donna di settantacinque anni, ormai pensionata, ha trascorso praticamente tutta la sua vita lavorativa in una fabbrica in cui venivano effettuati l’assemblaggio e la produzione di scarpe e soprattutto pantofole. Questo settore lavorativo, nell’immediato dopoguerra, aveva un vasto bisogno di personale prevalentemente femminile; ecco perché molte donne friulane, pressoché coetanee di Alma, svolgevano la sua medesima occupazione.

L’abbiamo incontrata nel suo modesto appartamento situato a San Daniele, mentre si accingeva a preparare il pranzo; gentile e cordiale, ci ha calorosamente invitato ad accomodarci e ha successivamente risposto a tutte le nostre domande, forse con un velo di malinconia per i tempi passati e ormai lontani, in cui lei era una ragazza giovane. Fu proprio nel luogo di lavoro che incontrò quello che sarebbe stato il suo futuro consorte, ma di questo vi parleremo più avanti. Dunque la signora Alma, che in quest’intervista rappresenta la lavoratrice media friulana, durante gli anni del dopoguerra è sempre stata impiegata nello stesso settore industriale. Questo dato fa balzare agli occhi la differenza con i nostri giorni, in cui una persona durante la sua vita

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sempre più spesso svolge i lavori più disparati e nei più vari settori. Un altro fatto rilevante è quanto la presenza del marito sia contata nella vita di questa donna e quanto egli l’abbia aiutata sia economicamente sia moralmente; ora invece le donne indipendenti sono in continuo aumento e, a nostro parere, aumenteranno ancora di più. Notiamo dunque quanto il modo di vivere e di porsi sia cambiato in così poco tempo, in solo mezzo secolo.

D: Dove è nata e cresciuta?

R: Sono nata nel 1926 a Meduna di Livenza e ho vissuto lì la mia infanzia. Ero una ragazza quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, e i soldati durante un rastrellamento rapirono me e la mia famiglia, portandoci in Jugoslavia. Riuscimmo a scappare quasi per miracolo e così ci trasferimmo definitivamente qui a San Daniele.

D: Che scuole ha frequentato?

R: Ho frequentato le elementari e la sesta, la settima e l’ottava. A me personalmente piaceva studiare e avrei voluto continuare, ma nella mia famiglia, che in seguito al rastrellamento aveva perso tutti gli averi, non c’era la possibilità per farci continuare gli studi. Solo i figli di famiglie agiate potevano permetterselo.

D: Dato che la scuola le piaceva molto, si ricorda qualche esperienza scolastica significativa?

R: Sono passati molti anni, ma mi ricordo comunque che gli insegnanti erano decisamente severi e più di una volta mi sono presa delle belle strigliate d’orecchie, a volte anche ingiustamente, magari solo per prendere le difese di un compagno.

D: Il tempo libero come lo trascorreva prima e dopo di cominciare a lavorare?

R: Giocavo, badavo ai miei fratelli più piccoli, sbrigavo le faccende di casa. Quando cominciai a lavorare, di tempo libero me ne rimase ben poco e quindi per lo più riuscivo ad aiutare mia madre a pulire la casa o a cucinare per tutta la famiglia.

D: Quanti eravate in famiglia?

R: Eravamo in otto, tre sorelle e tre fratelli più mia madre e mio padre; andavamo tutti molto d’accordo e ci sostenevamo l’uno con l’altro in caso che qualcuno combinasse qualche marachella. I soldi in casa mancavano e fu soprattutto per il benessere della mia famiglia che mi affacciai molto presto al mondo del lavoro. La prima occupazione che mi si presentò fu un posto in uno degli scarpettifici di San Daniele.

D: Per quali vie era venuta a conoscenza di questo posto di lavoro?

R: Ne ero venuta a conoscenza grazie a un’amica di mia madre che lavorava presso il medesimo scarpettificio già da alcuni anni.

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D: Le sarebbe piaciuto svolgere qualche altra attività?

R: Mi sarebbe piaciuto fare la sarta, ma le circostanze esterne, nonché la condizione familiare, mi hanno costretto a cercare un lavoro subito dopo la fine degli studi e il primo che ho trovato è stato nello scarpettificio. Non servì neppure un colloquio, perché cercavano con urgenza personale.

D: Lei non ha svolto nessun altro lavoro nella sua vita?

R: Ho lavorato in tre fabbriche diverse, ma tutte addette alla produzione di scarpe e tutte nei pressi di San Daniele. Per imparare bene questo lavoro ho dovuto però fare due anni di apprendistato presso il piccolo studio di un artigiano qua a San Daniele. Mi ha insegnato come cucire perfettamente le tomaie.

D: Ha riscontrato difficoltà nell’imparare questo lavoro?

R: No, io personalmente non ho trovato grosse difficoltà, a differenza di molti miei colleghi, i quali, scoraggiati dalle difficoltà incontrate, erano sul punto di lasciare il lavoro; ma con la miseria di quel tempo la scelta lavorativa non era ampia. Comunque, come ho detto prima, io avevo già avuto modo di apprendere il lavoro tramite l’apprendistato, e questo successivamente mi ritornò molto utile.

D: Si trovava bene nel suo ambiente di lavoro?

R: Sì, abbastanza. I miei padroni erano più tolleranti rispetto a quelli delle altre fabbriche. Non mi potevo decisamente lamentare. Anche i miei colleghi erano socievoli; se c’era qualche problema, erano pronti ad aiutarmi, e io facevo lo stesso con loro.

D: Ha avvertito alcune discriminazioni all’interno del lavoro?

R: Non più di tanto, ma devo dire che noi donne venivamo molto più rimproverate rispetto agli uomini, e venivamo anche molto più seguite durante il lavoro, ma eravamo addette a svolgere delle mansioni più leggere rispetto a quelle degli uomini.

D: Quindi più di tanto essere donna non le ha creato grossi problemi nell’ambito lavorativo?

R: No, direi proprio di no. I miei padroni trattavano bene noi donne. Ho saputo da alcune mie amiche, che lavoravano in altre fabbriche, che delle volte venivano addirittura maltrattate, se non svolgevano correttamente il loro lavoro.

D: Gli uomini e le donne svolgevano gli stessi tipi di lavori all’interno della fabbrica?

R: Come si sa, in tutte le fabbriche vi è una precisa suddivisione dei compiti. Le donne generalmente cucivano le tomaie delle scarpe, mentre il resto, come ad esempio la montatura, era destinato agli uomini.

D: Ci può dire a quanto ammontava il suo salario?

R: Beh, non posso dire con precisione, perché il salario variava di anno in anno. All’inizio prendevamo 24.000 lire al mese. Per voi potrà sembrare poco,

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poiché al giorno d’oggi un operaio guadagna circa 1.200.000 lire al mese, ma per noi era una grossa retribuzione. Dovevamo inoltre stare attenti a non sperperare il nostro salario per cose inutili, in quanto era devoluto tutto al mantenimento della famiglia.

D: Era soddisfatta, quindi, del suo contratto di lavoro?

R: Sì, era un contratto da operaia fissa, a tempo indeterminato.

D: Come avrebbe potuto migliorare la sua condizione lavorativa?

R: Come ho già detto, non potevo lamentarmi di questo lavoro, ma la mia più grande aspirazione sarebbe stata quella di studiare e diventare una brava sarta e magari aprire un mio piccolo negozietto. Sarebbe stato il mio sogno e allora si avrei potuto dire di essere completamente soddisfatta dal punto di vista lavorativo.

D: Suo marito che professione svolgeva?

R: Anche lui lavorava nel settore delle scarpe e, prima che cambiassi fabbrica, abbiamo lavorato per alcuni anni assieme. È lì che ci siamo conosciuti, frequentati e successivamente sposati.

D: I vostri stipendi erano pressoché uguali?

R: Sì, quasi. Mio marito lavorava da molti più anni nella fabbrica e aveva molta più esperienza di me, quindi, in base a queste motivazioni, era più pagato. Era lui che contribuiva maggiormente al sostegno familiare.

D: Chi amministrava il bilancio familiare?

R: Oh, ha sempre fatto tutto mio marito. È lui che si è sempre interessato al bilancio ed è lui che anche tuttora provvede all’amministrazione del denaro che riceviamo dalla pensione.

D: Ci sono state delle maternità durante il suo periodo lavorativo?

R: Sì, quella del mio unico figlio, Daniele, quando avevo ventidue anni.

D: In quel periodo ha lasciato il lavoro?

R: In quei tempi per la maternità ti davano solo un mese di ferie, quindi ho lavorato fino agli otto mesi di gravidanza. Devo ammettere che fu veramente dura lavorare in quel periodo e, quando nacque il bambino, fu ancora peggio, ma grazie a Dio c’era mio marito che mi aiutava, soprattutto nelle faccende di casa.

D: Quindi i compiti e la mansioni familiari erano destinati a entrambi?

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R: Già, sia io che mio marito ci occupavamo di Daniele, ed entrambi svolgevamo le faccende domestiche.

D: Allora ha smesso di lavorare solamente quando ha deciso di andare in pensione?

R: No, ho lavorato nello scarpettificio per diciannove anni, senza contare i due d’ apprendistato, e poi, per gravi motivi di salute, ho dovuto abbandonare il lavoro. Fu un periodo dolorosissimo, in casa entrava un solo stipendio, io stavo molto male e in più c’era il bambino. Fortunatamente mio marito fu molto forte e prese in mano la situazione, aiutandomi a superare le difficoltà che la malattia ha portato con sé.

D: Dunque suo marito continuò a lavorare nello scarpettificio?

R: Sì, lui ha lavorato in fabbrica fino a sessantacinque anni. Doveva andare in pensione a sessant,a ma l’ultimo periodo lo dedicò interamente all’insegnamento del lavoro ai più giovani. Lui aveva molta esperienza in questo campo e i padroni vollero che la trasmettesse anche a coloro che erano stati assunti da poco tempo.

D: La ringraziamo moltissimo per le informazioni; ha mica una sua fotografia da darci?

R: Aspettate, ho quella scattata con la nostra prima automobile; era una Bianchina e noi ne andavamo molto fieri: potevamo finalmente fare qualche gita, andare a trovare i parenti; ci sembrava insomma di essere dei signori.

 

 

Nives, nata nel 1926

 

D: Mi puoi raccontare il tuo percorso scolastico?

R: Inizio premettendo che l’idea di raccontare a mio nipote in maniera abbastanza dettagliata il mio passato mi fa particolarmente piacere, ritengo che sia importante per i giovani d’oggi sapere che non tutto il benessere in cui vivono è sempre esistito. Un buon futuro si può solo realizzare imparando da ciò che è successo di positivo e negativo nella storia passata. Ma veniamo a noi. Per quanto riguarda il mio percorso scolastico voglio premettere che sono sempre stata un’alunna curiosa, intelligente e vivace, la scuola infatti per me non fu tanto un obbligo quanto un’occasione di crescita che mi divertiva pure. Frequentai le scuole elementari dal 1932 al 1938; in quel periodo la scuola dell’obbligo si fermava alla quarta elementare. Il periodo che ho riportato è di sei anni dato che, finito il ciclo dei quattro obbligatori, feci un anno a casa, ma mi pentii della scelta e decisi di ritornare per finire il ciclo elementare, con ottimi risultati. Proprio nel 1937, l’anno della mia pausa scolastica, la frequentazione del quinto anno divenne obbligatoria.  La mia classe era parecchio numerosa

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(circa venticinque alunni) e mista, ben equilibrata tra maschi e femmine.  Per quanto riguarda la mia esperienza non c’era differenza tra i sessi, entrambi frequentavano la scuola con regolarità, anche se nel caso degli alunni di famiglia particolarmente povera i giorni di scuola si alternavano alle giornate di lavoro nei campi ad aiutare i genitori. Per queste persone ricordo che i testi e i quaderni venivano passati dallo Stato, dittatoriale in quegli anni. Riguardo alla struttura vera e propria dell’istruzione in quegli anni, posso dirti che in classe c’era la figura dell’unica maestra che insegnava tutte le seguenti materie: italiano, storia, geografia, matematica, religione e ginnastica. Di quest’ultima disciplina ho un ricordo particolarmente bello: il saggio. Questa specie di esame veniva effettuato in cortile, a primavera. Le ragazze erano tutte vestite in camicia bianca con la gonna nera, i genitori venivano a vederci, e nell’aria si respirava un clima di particolare gioia. L’istruzione era rigida, l’uso della bacchetta sulle mani era consueto e particolarmente doloroso, oltre che umiliante, ma i risultati a essere sinceri erano positivi, ci si applicava seriamente, nonostante si fosse ancora bambini. La giornata scolastica iniziava alle otto e finiva a mezzogiorno. All’interno della classe non ho mai notato discriminazioni da parte dell’insegnante nei confronti degli alunni, maschi, femmine, benestanti e poveri erano trattati in eguale maniera. Ricordo con chiarezza come il livello di impegno tra ragazzi e ragazze fosse particolarmente differente.  I maschietti venivano spesso bacchettati, erano irrequieti, e certi di loro proprio non avevano alcuna capacità in termini scolastici. Solo pochi svolgevano i compiti per casa e si impegnavano a fondo in quello che facevano.  Le ragazze invece erano assai più disciplinate, e nella maggior parte dei casi erano quelle che conseguivano i risultati più positivi.  La mia famiglia ci teneva particolarmente all’istruzione delle proprie tre figlie e fece finire a tutte il ciclo del quinquennio elementare. Non eravamo ricchi, ma mio papà, che lavorava in ferrovia, garantiva alla famiglia un sicuro sostentamento. La mia mamma, tuttora viva con i suoi novantasette anni, era una persona di una bontà e di un’intelligenza rara (ancora adesso legge e scrive), nella sua giovinezza aveva concluso i tre anni di scuola obbligatori, come del resto suo marito, mio papà. Sapevano quindi quant’era importante lo studio e non ci fecero mai mancare niente in termini di quaderni e materiale essenziale, nonostante i costi che non tutti potevano sostenere. Il mio unico rammarico è quello di non aver potuto continuare gli studi, ma le scuole medie in quegli anni si trovavano solamente a Udine, il che richiedeva un costo che la mia famiglia, nonostante il discreto benessere in cui viveva, non poteva permettersi. Erano anni difficili, la guerra e la dittatura non rendevano più niente sicuro e mandarmi a scuola a Udine era un impegno troppo grande, rischioso sotto certi aspetti. Inoltre mio papà, nel triennio compreso dal 1935 al 1938, si trovava in Abissinia con l’esercito per la conquista e il mantenimento della colonia italiana; in casa servivano quindi aiuti e io, primogenita, ero la più adatta a svolgere le mansioni domestiche. Concludendo il discorso sulla scuola, posso affermare che è stata un’esperienza davvero positiva, con l’unico rammarico di non aver potuto continuare in una cosa in cui ero davvero portata.

D: Come è avvenuto l’ingresso nel mondo del lavoro?

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R: Dopo tre anni passati in casa (ero bambina e a mia mamma serviva aiuto), divenuta quindicenne seppi da una mia amica che a Milano una famiglia di sua conoscenza cercava una commessa per il loro panificio. Non mi feci scappare l’occasione, ero una ragazza curiosa di scoprire, la vita di paese era piatta e un arrotondamento dello stipendio di mio papà avrebbe permesso alla mia famiglia uno stile di vita ancora più sicuro. A Milano passai due anni davvero belli, la famiglia che mi ospitava non poteva avere figli e mi trattò come tale, non facendomi mancare mai nulla e scoppiando in lacrime quando decisi di tornare al mio paese di origine, Flumignano. In questo panificio ero assunta regolarmente, percepivo novanta lire al mese, somma abbastanza buona che mandavo regolarmente quasi per intero alla mia famiglia, fatta eccezione di qualche lira per andare di tanto in tanto al cinema al pomeriggio. Lavoravo dalle sette di mattina fino al primo pomeriggio, il lavoro era piacevole e per niente noioso. Vitto e alloggio mi erano offerti dalla famiglia proprietaria del panificio. Non era quello a cui aspiravo, come suddetto le mie ambizioni erano quelle di continuare gli studi, ma a Milano mi trovavo veramente bene, accolta da una famiglia speciale che mi faceva sentire a casa. Un ricordo stupendo di quel periodo fu la lettura dei “Promessi Sposi”, un racconto talmente bello che tuttora ricordo e che placò per così dire la mia voglia di studiare, data la complessità e l’impegno che richiedeva nella lettura. Dopo due anni milanesi, parlo del 1942 se non sbaglio, ci fu il bombardamento americano in città e io fui costretta a ritornare a casa, lasciando là un ottimo ricordo di me. Altri due anni a casa scandirono il periodo tra il 1942 e il 1944, ricordo i soldati per le strade, che però non infastidivano la gente, anche se il clima era abbastanza teso. La seconda e ultima esperienza lavorativa la ebbi dal 1945 al 1946, come infermiera all’ospedale psichiatrico di Sant’Osvaldo. Era un lavoro duro, ogni giorno da Flumignano partivo in bicicletta percorrendo quindici chilometri, fino all’ospedale, pioggia o sole, caldo o freddo che fosse. La presenza di malati mentali rendeva ancor più dura l’attività, le soddisfazioni non erano molte, ma ero fiera di me stessa. Anche in questa occupazione ero assunta regolarmente, lavoravo dalle otto di mattina fino al tardo pomeriggio, senza un’ora prestabilita per la fine delle mansioni. All’interno dell’ospedale non ho mai riscontrato differenze di trattamento tra maschi e femmine, c’era freddezza, ma non discriminazione. Durante il fascismo la donna era totalmente esclusa dagli incarichi pubblici o da qualunque ruolo di dirigenza. Purtroppo in quegli anni la figura femminile non faceva niente per emergere, forse per l’istruzione rigida e particolarmente all’antica. Eravamo ancora lontane dalle lotte per la parità sui diritti tra i due sessi, ma, nonostante ciò, per quel che riguarda la mia esperienza non ho mai riscontrato evidenti disparità.

D: Com’è avvenuto il matrimonio? Quando? Dove?

R: La gestione della famiglia era quasi completamente affidata a mia madre. Mio padre era spesso via di casa e, quando c’era, non raffigurava di certo l’immagine del classico padre-padrone, tipico in molte famiglie. Mio padre era una persona discretamente colta, aperta al dialogo, con un grande amore per le proprie figlie. Una famiglia abbastanza moderna in quegli anni. Mi sposai nel 1948, tre anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e immediatamente

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io e mio marito emigrammo in Francia, dato che le opportunità di lavoro in questo stato, come d’altronde in Sud America, erano molte. Ero già incinta quando emigrammo dall’Italia, di un figlio che, a causa di un medico incompetente, persi a nove mesi di vita. Dopo questo tragico evento ebbi altri due figli, tua madre e tuo zio, ma anche un doloroso aborto. Tuo nonno, mio marito, era un muratore, amato dalla gente e accettato dai francesi, permise alla mia famiglia di integrarsi perfettamente con quella nuova realtà. Erano anni spensierati; io facevo la casalinga, i miei figli si istruivano nelle scuole francesi e tutto andava bene, finché nel 1967 un altro tragico evento segnò la mia vita: la morte di mio marito. Un incidente stradale, finito l’orario lavorativo, ce lo portò via. Rimasi vedova all’età di quarantadue anni, con due figli a carico, in uno Stato che non era mio. I tre anni successivi mi permisero di far terminare gli studi ai miei due figli e di far costruire una casa nel paese di mia origine. A quarantacinque anni ritornai in Italia e, grazie al sistema assicurativo francese, riuscii a crescere i miei figli senza fargli mancare nulla. Il mio ruolo nella famiglia divenne purtroppo fondamentale, feci da madre e da padre ai miei figli e tuttora posso dire che, nonostante la sorte avversa che mi ha perseguitato, sono riuscita a portare a termine dei progetti per me davvero importanti.

 

 

Nada, nata nel 1934

 

D: Mi puoi parlare del tuo percorso scolastico?

R: Il mio percorso scolastico è caratterizzato solo dalle elementari. Infatti ho frequentato solo gli anni dalla prima alla quinta classe a Tavagnacco. Il primo anno di scuola però l’ ho fatto in Jugoslavia, visto che mio padre lavorava là come operaio. Infatti quei territori facevano ancora parte dell’Italia a quei tempi. Il mio percorso formativo quindi inizia nel 1940 e termina nello stesso momento della liberazione dell’Italia, cioè nel 1945.

D: Com’ era formata la classe?

R: La mia classe era composta sia a Tavagnacco che durante la mia esperienza in Jugoslavia prevalentemente da maschi. In Friuli in particolare i maschi erano dodici mentre le ragazze dieci. Tutti i componenti della mia classe erano miei compaesani e fanciulli che conoscevo sin da quando ero nata, dato che i rapporti con loro erano molto stretti.

D:  Fino a quale classe andavano a scuola le bambine? E i bambini?

R: Nel mio caso e per gran parte delle bambine come me, la scuola terminava con la quinta elementare. Questo comunque era dovuto anche al fatto che la

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scuola dell’obbligo arrivasse appunto fino alle elementari e quindi posso ritenermi soddisfatta del mio percorso scolastico. Solo chi poteva permetterselo economicamente poteva frequentare le medie, che solitamente consistevano nello studio privato delle materie con insegnanti privati.

D: Era ritenuta importante la scuola per una bambina?

R: No, non era ritenuta importante in quanto arrivava solitamente fino alla quinta elementare e quindi questa istruzione non poteva garantire un futuro di grandi aspirazioni lavorative. E quindi ci si accontentava e ci si adattava alle esigenze che la vita difficile di quegli anni portava.

D: Esistevano discriminazioni in famiglia tra figli in ambito scolastico?

R: Sì, solitamente le famiglie preferivano approfondire lo studio dei figli maschi rispetto a quello delle figlie. Anche la mia famiglia è stata caratterizzata da questo particolare. Infatti i miei due fratelli hanno fatto le medie, uno alla Valussi e l’altro, dato che lavorava già a quindici anni in comune, per corrispondenza. Questa era una cosa particolare dei miei anni, che consisteva nel compilare moduli all’interno dei quali c’erano i compiti suddivisi in materie che poi dovevano essere rinviati per essere valutati.

D: Com’ era impartito l’insegnamento? Quali erano le materie?

R: Le materie erano quelle che anche oggi si studiano in tutte le scuole come per esempio matematica, geografia, italiano e storia. Venivano insegnate però in maniera meno approfondita e accurata. Inoltre il nostro insegnamento era quotidianamente contrastato dalla guerra, dato che a ogni allarme bisognava scappare per ripararsi a casa o nei rifugi, e a volte la scuola poteva restare chiusa per giornate  intere.

D: Quali erano i rapporti tra scuola e famiglia?

R: La mia famiglia si interessava in maniera assidua del mio andamento scolastico e di quello dei miei fratelli.

D: A che età hai concluso la scuola e per quali motivi?

R: Ho concluso la scuola all’età di undici anni nel 1945. Ho terminato perché la quinta elementare rappresentava il limite della scuola dell’obbligo e anche per motivi strettamente legati al periodo in cui vivevo. Infatti era appena finita la guerra e mancavano decisamente i mezzi e le possibilità che mi potessero permettere di continuare gli studi.

D: Com’era composto il tuo nucleo familiare e quali erano le vostre condizioni economiche?

R: La mia famiglia era composta dai miei genitori più sette figli. C’erano i due figli maschi maggiori, che poi erano stati seguiti da cinque sorelle, tra cui la sottoscritta. La condizione economica della mia famiglia era abbastanza modesta. Infatti mio padre faceva l’impiegato statale dell’ANAS. Poi, per

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incrementare i guadagni per sostentare una famiglia così numerosa, mio fratello più grande ha iniziato a quindici anni a lavorare nel comune del mio paese.

D: Quali erano le tue ambizioni?

R: Ho sempre amato l’ambito pratico e in particolare il ricamo e il cucito, dei quali facevo alcuni corsi a scuola e dei quali mi ero decisamente appassionata. Inoltre mi piaceva molto l’ambito dell’economia domestica.

D: A quanti anni hai iniziato a lavorare?

R: Subito dopo avere finito la scuola ho iniziato a lavorare a casa. Infatti, per sostentare la nostra condizione economica in un periodo difficile come il dopoguerra, avevamo messo in piedi un lavoro artigianale casalingo, che era costituito dalla fabbricazione e dalla vendita di borse fatte con le foglie di pannocchia. A diciassette anni ho iniziato a fare la cameriera e la babysitter nelle case di famiglie benestanti, spostandomi assiduamente dal mio paese a Trieste. Poi a venti mi sono sposata e questo ha portato un notevole cambiamento nella mia vita lavorativa: infatti dal mio matrimonio in poi ho iniziato a lavorare nella famiglia contadina di mio marito, che possedeva una fattoria. Quindi ho iniziato a occuparmi del lavoro nei campi, della mungitura delle mucche, della produzione del vino. Questo mestiere l’ho  continuato assiduamente anche quando dovevo accudire i miei tre figli.

D: Era quello a cui aspiravi?

R: Nonostante la mia passione per il ricamo e il cucito sono soddisfatta del lavoro che ho svolto per tanti anni e che continuo pure oggi a svolgere. Anche se è stato decisamente faticoso negli anni passati. Infatti mi impegnava dalle dieci alle dodici ore al giorno.

D: Quali erano gli orari lavorativi e il salario?

R: Fino all’età di venti anni ricevevo uno stipendio mensile che raggiungeva le 15.000 lire. Poi naturalmente, lavorando assieme a mio marito, non venivo retribuita. Il risultato del mio lavoro e della mia fatica era di rendere la vita della mia famiglia più agevole possibile anche in quei tempi difficili.

D: Com’era fondata l’economia della famiglia?

R: Mio marito si occupava di tenere la contabilità familiare. A lui si chiedeva il denaro per le eventuali spese che solitamente dovevano essere strettamente necessarie, visti i tempi di miseria che si vivevano. Comunque le spese erano decisamente più basse rispetto a oggi. Per favorire il nostro benestare comunque mio marito faceva un doppio lavoro: oltre a fare il contadino era pure muratore.

D: Com’era il lavoro?

R: Nel primo periodo era decisamente faticoso e stressante, dato che facevo dalle dieci alle dodici ore al giorno. Non ho mai lavorato in nero e il mio

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compenso solitamente ammontava a 15.000 lire mensili.

D: Qual era la condizione della donna durante il fascismo?

R: La caratteristica principale della vita durante il fascismo era quella di tenere sempre l’acqua in bocca e dire sempre di sì in ogni situazione per evitare ogni tipo di persecuzione. E questo era caratteristico per ognuno, uomo o donna.

D: Quando è avvenuto il matrimonio? E dove?

R: Il mio matrimonio l’ho celebrato il 31 luglio del 1954 al santuario della Madonna Missionaria a Tricesimo.

D: Com’è stata la tua vita dopo il matrimonio?

R: Mi sono sposata a vent’anni. Sono andata a vivere assieme a mio marito nella sua casa natale assieme ai suoi fratelli e a suo padre. Poi i suoi due fratelli si sono trasferiti in Svizzera per lavoro e si sono fatti una nuova vita al di fuori della loro famiglia d’origine. La mia vita non è cambiata tanto, dato che ho continuato nel mio lavoro di coltivatrice diretta assieme a mio marito. Il mio ruolo comunque si è mantenuto importante nel corso degli anni, dato che ho dovuto sempre occuparmi dei miei figli, della mia famiglia e del padre di mio marito fino alla sua morte.

 

 

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Interviste alle donne di seconda generazione

 

 

Gianna, nata nel 1949

 

D: Raccontami le tue esperienze lavorative.

R: La mia prima esperienza lavorativa cominciò quando avevo quattordici anni. Finite le scuole commerciali sono andata a lavorare presso un parente che aveva un’impresa edile, però senza paga e senza le assicurazioni. Poi, dopo un anno, sono stata presa sempre da un parente in uno studio di commercialista e anche lì, né assicurazione né soldi. Finalmente, quando avevo diciotto anni, stanca di questa situazione perché la mia famiglia viveva in ristrettezze, sono stata assunta da un sindacato, però anche lì dopo un mese e mezzo di lavoro non mi avevano ancora assicurata né mi avevano chiesto di presentare il libretto di lavoro.

D: Il titolo di studio ti è stato utile, ti ha dato la possibilità di valorizzare la tua esperienza lavorativa?

R: Nel mio caso non molto, perché avevo frequentato solo le tre classi commerciali; io mi ricordo che la cultura l’ho acquisita alle elementari e non alle medie. Anche perché alle medie c’era come materia principale la computisteria, ed era una cosa un po’ complicata, in cui io riuscivo anche bene, però non ne capivo l’utilità e lo scopo.

D: Qual è stata l’esperienza di lavoro più significativa?

R: L’esperienza mia di lavoro più significativa è stata quando, dopo un anno di lavoro al sindacato, sono diventata segretaria del direttore che era prima deputato al Parlamento  italiano e poi segretario di presidenza alla Camera dei Deputati. E quindi il lavoro era un po’ orientato sì, verso la tutela della categoria dei coltivatori, ma ho potuto seguirlo anche a livello nazionalecome segretaria del direttore. Sono andata parecchie volte a Roma, quando c’erano le elezioni nazionali e anche in occasione di nomine di ministri e sottosegretari e devo dire che questa esperienza è stata entusiasmante. In quei tempi i sindacati dovevano essere legati a un partito politico, è stata un’esperienza esaltante e significativa per la mia vita lavorativa.

D: Quale è stata l’esperienza di lavoro meno piacevole?

R: L’esperienza di lavoro meno piacevole è stata quando, dopo quasi trent’anni di lavoro, con l’avvento del computer, ho dovuto adattarmi all’era informatica. Ho dovuto partecipare a due corsi e per me sono stati veramente duri e sofferti; però con la buona volontà e la passione che avevo per il lavoro

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sono riuscita ad adattarmi all’uso del computer e devo dire che dopo ho avuto l’apprezzamento dei superiori per essermi adattata così bene alla nuova era informatica.

D: E perché è stata così dura?

R: Perché ormai, dopo trent’anni, avevo impostato il mio modo di lavoro in una determinata maniera e ho dovuto sconvolgerlo completamente; devo dire però che alla fine ho tratto parecchia utilità dall’uso dell’informatica e tutti si complimentavano con me perché mi ero adattata molto bene.

D: Pensi che per una donna il lavoro oggi sia importante?

R:  Sì, penso che il lavoro per una donna sia importantissimo, soprattutto per la realizzazione personale della donna.

D: Secondo te, la donna è discriminata?

R: Sì, secondo me la donna è discriminata, anche nel mio ambiente di lavoro,  pur essendomi io completamente realizzata. Quando sono entrata al sindacato per la donna ad esempio c’era l’obbligo di portare il grembiule. Addirittura l’organizzazione ci forniva la stoffa, perché tutte le donne dovevano avere lo stesso abbigliamento, avevamo un grembiule per l’inverno e un grembiule per l’estate. Noi avevamo cercato di personalizzare questo grembiule, quindi una volta lo avevamo blu, una volta lo avevamo verde e d’estate lo avevamo a fiorellini. Però questo per l’uomo non avveniva e noi invece eravamo obbligate a portarlo. Poi, penso dopo una ventina d’anni, stufe di questa situazione, ci siamo ribellate e abbiamo cominciato ad arrivare in ufficio tutte elegantone. Questo ha comportato che dopo mesi e mesi di sofferenze “dovete metterlo, non dovete metterlo”, assemblee del personale, siamo riuscite a farci dire dal direttore: ”Sì, potete venire a lavorare senza il grembiule”. Questa è stata per noi una conquista proprio a livello sindacale.

D: Come erano i rapporti con i tuoi colleghi?

R: All’inizio del mio lavoro i rapporti con i miei colleghi erano un po’ tesi perché, essendo subito diventata segretaria del direttore e poi usando, parlo di quarant’anni fa, il rossetto e lo smalto per le unghie, all’inizio i miei colleghi, le mie colleghe soprattutto, mi guardavano con un certo distacco. Poi pian piano le cose sono migliorate e devo dire che per quasi trent’anni i rapporti con i miei colleghi sono stati di vera collaborazione e alle volte anche di vera amicizia. Infatti lì ho conosciuto due, tre ragazze che ancora oggi, pur avendo vite diverse, frequento, ci facciamo gli auguri a Pasqua e a Natale, e fra di noi c’è del vero affetto.

D: Com’era il tuo contratto di lavoro?

R: Il mio contratto di lavoro era a tempo indeterminato, prevedeva all’inizio quaranta ore di lavoro settimanali e  lavoravamo anche il sabato mattina. Poi pian piano le ore di lavoro sono diventate trentotto, però avevamo l’obbligo di rispettare un determinato orario, cioè otto e mezza-una, tre-sei e mezza.

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Poi invece, quando è nata la regione Friuli Venezia Giulia, per adeguarci agli orari dei dipendenti regionali, c’è stata la grande innovazione dell’orario elastico.
D: E le ferie?

R: Le ferie invece si facevano quasi sempre nei mesi estivi a turno, garantendo il servizio presso l’ufficio. Quindi dovevamo metterci d’accordo con i nostri colleghi che dovevano sostituirci nel periodo di ferie. All’inizio i giorni di ferie erano quindici indistintamente; poi pian piano, secondo gli anni di servizio, le ferie sono aumentate fino a ventisei giornate lavorative. Con l’andar del tempo il sabato non si lavorava più e sempre con l’avvento della regione c’è stata la grande rivoluzione del venerdì pomeriggio libero, però all’inizio si facevano dei turni il venerdì pomeriggio.

D: C’era qualche altra discriminazione nell’ambiente di lavoro?

R: Sì, certamente. Le donne, quando venivano assunte per contratto, o era forse un contratto verbale, quando si sposavano dovevano licenziarsi. Quindi succedeva che alle volte rimandavano il matrimonio proprio perché dopo non dovevano lavorare. Poi hanno incominciato invece a dire: “Quando vi sposate, potete rimanere qui, però al primo bambino dovete restare a casa”. Poi invece, a livello nazionale nel ‘72, , è stata fatta la legge sulla maternità e quindi la nostra organizzazione si è immediatamente adeguata alle nuove leggi sulla tutela della maternità, perché  come fine primario aveva la tutela del lavoratore agricolo e quindi anche la tutela della donna agricoltrice. In quelle occasioni il nostro sindacato si è mosso e anche le coltivatrici dirette, quando avevano un bambino, avevano un assegno di natalità di mezzo milione che per quei tempi era davvero una cifra enorme.

D: Qualche altra esperienza di lavoro significativa?

R: Sì, un’altra esperienza di lavoro significativa era quando avevamo dei lavori particolari,  delle informazioni particolari da inviare ai soci, tipo quando c’è stata la siccità e quindi i coltivatori dovevano chiedere i contributi per le colture disperse;  ci si radunava in un grande salone e lì si preparavano le circolari, si piegavano, si imbustavano si attaccavano i bolli tutti insieme. Era obbligo che anche il direttore, alle volte i capi servizio e tutto il personale si trovassero in questo salone per spedire ai soci tutte le informazioni. Alle volte si stava a lavorare fino alle undici o mezzanotte,  tutti lì insieme e quindi c’erano anche dei momenti in cui ognuno raccontava i fatti della propria vita o della propria famiglia e lì si rideva, si scherzava e alla fine della giornata di lavoro non si aveva proprio  voglia di niente e si diceva: “Siamo stati spremuti come limoni e felici di essere spremuti” e con quella, si andava a casa.

D: Raccontami un po’ delle tue sorelle e dei tuoi fratelli.

R: La mia famiglia era composta da mio padre, mia madre, da tre sorelle femmine e da un fratello, però handicappato. Io e mia sorella Laura, che siamo gemelle, abbiamo incominciato a quattordici anni a lavorare perché c’erano delle difficoltà economiche, in quanto mia mamma non poteva lavorare,

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perché aveva mio fratello da accudire, e mio papà era dipendente statale; oltre a l’orario normale di lavoro ha sempre tenuto la contabilità anche di altre ditte per arrotondare lo stipendio, però i soldi non bastavano mai. Invece mia sorella più giovane, Sandra, visto che noi eravamo a lavorare e lei  è più giovane  di quasi sei anni, ha potuto prendere un diploma di insegnante per le scuole materne. Quindi a lei è stata data la possibilità di avere un diploma e di inserirsi nel mondo della scuola.

D: Famiglia e lavoro possono coincidere? In base alla tua esperienza cosa ne pensi?

R: Senz’altro famiglia e lavoro possono coincidere  però è molto difficile e in base alla mia esperienza posso dire che sono riuscita a conciliare famiglia e lavoro, però con notevoli sacrifici soprattutto da parte mia, perché quando ero a casa pensavo sempre al lavoro, e quando ero al lavoro pensavo alle mie figlie. Non vedevo l’ora di tornare a casa, contavo le ore che mi mancavano per poterle vedere. Soprattutto è difficile conciliare famiglia e lavoro quando i bambini sono piccoli e in particolare quando sono malati. Infatti io posso ritenermi fortunata perché, quando le mie figlie erano malate, potevo avere l’aiuto di mia mamma o di mia sorella. Però io passavo le notti in bianco, perché dovevo condizionare la mia andata al lavoro con l’impegno da parte dei miei familiari per tenermi le bambine. E credo che la parte più difficile sia stata quella, anche perché i datori di lavoro, pur essendo comprensivi, non sempre riescono a capire  il ruolo che ha la donna sia nell’ambiente di lavoro sia nell’ambiente della famiglia.

D: Pensi che i figli possano essere un ostacolo alla carriera lavorativa?

R: Sì, ritengo senz’altro che possano essere un ostacolo alla carriera lavorativa. Prima di tutto perché la donna che lavora non ha la disponibilità di tempo che ha un uomo per poter seguire il lavoro; ad esempio è difficile per una donna protrarre il lavoro di sera, cosa che invece un lavoratore maschio può tranquillamente fare per la carriera, mentre una donna ha il tempo molto limitato quindi ci sono senz’altro degli ostacoli.

D: E pensi che anche i datori di lavoro ostacolino la carriera delle donne che hanno dei figli?

R: Sì, perché anche i datori di lavoro, pur sapendo che una legge ben precisa tutela le lavoratrici madri, diciamo mettono i bastoni tra le ruote sui permessi, perché magari il figlio ha bisogno di una visita medica; io so che anche nel nostro ambiente, pur essendo i capi disponibili ad assecondare fin quanto possibile il lavoro della donna madre, basta niente per dire: “ Queste donne, con i figli stanno più a casa che sul lavoro”.

D: Cosa mi puoi dire della tua partecipazione alla vita pubblica come a sindacati, partiti, organi collegiali, volontariato?

R: Io ero alle dipendenze di un sindacato, però non ho mai fatto parte attiva di un sindacato, né ho fatto volontariato, né altre cose nell’ambito civile perché spendevo tutte le mie energie sul lavoro o in famiglia. Però, da quando le mie figlie sono alle medie, sono stata sempre rappresentante di classe, prima perché non c’erano altri genitori che volevano, poi anche per mia scelta personale, perché speravo con questo di essere più vicina alle mie figlie.

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Quando lavoravo e c’erano le riunioni, ho sempre chiesto il permesso di partecipare alle assemblee di classe, sapendo bene che dopo dovevo recuperare le ore che perdevo.

 

 

Adriana, nata nel 1950

 

D: Fino a che età hai frequentato la scuola?

R: Io ho frequentato la scuola fino a diciotto anni e mezzo; dopo aver concluso le scuole superiori all’istituto “C. Percoto” di Udine avevo iniziato l’università scegliendo la Facoltà di Lettere, ma dopo due anni mi sono arresa, perché avevo ricevuto una buona offerta di lavoro dalla banca e mi ero “stufata” di studiare, quindi ho deciso di andare a lavorare.

D: A quale età hai iniziato a lavorare?

R: Ho iniziato a lavorare subito dopo aver finito scuola, quindi circa a ventuno anni.

D: Quanto tempo ti è servito per trovare un lavoro? Era difficile trovare un impiego?

R: Non ho dovuto nemmeno cercarlo, perché mi è arrivata una proposta di lavoro da una banca, così ho lasciato gli studi e nel giro di una settimana già lavoravo. No, una volta, negli anni Settanta, era sicuramente più facile trovare lavoro di oggi, soprattutto per chi aveva un titolo di studio non c’era nessun problema, visto che in quegli anni poca gente proseguiva gli studi oltre le medie, e soprattutto le famiglie di allora avevano meno denaro di quelle di oggi per permettersi di far studiare i propri figli. Oltre ai problemi economici, cè da dire che allora le scuole superiori del medio Friuli si trovavano solamente a Udine.

D: Com’è stato l’ingresso nel mondo del lavoro?

R: Ho dovuto adattarmi, visto che avevo conseguito un diploma magistrale e, avendo studiato Lettere per due anni all’università, mi ero prefissata di diventare un’insegnante; ma ho sempre lavorato in banca  e agli inizi è stato difficile, perché non avevo le basi per svolgere quel tipo di lavoro.

D: In che settori operavi?

R: Ho sempre lavorato in banca e quindi sempre nel settore terziario che negli anni Settanta - Ottanta non era certo sviluppato come oggi; infatti in quegli anni alla banca abbiamo adottato i primi terminali che facilitavano il lavoro, ma non erano certo sviluppati come quelli di oggi.

D: Un uomo era più facilitato di una donna nelle assunzioni?

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R: Dipende dal lavoro che svolgeva; se era un’occupazione in cui contava molto la forza fisica, l’uomo era sicuramente agevolato, mentre se l’occupazione riguardava un lavoro sedentario, l’uomo e la donna erano sullo stesso piano; ad esempio, nell’ufficio dove lavoravo io c’erano solamente donne e quindi possiamo capire che le donne erano adatte a svolgere le mansioni d’ufficio.

D: Le donne erano discriminate all’interno dell’azienda?

R: Assolutamente no, nella mia esperienza lavorativa le donne non sono mai state discriminate, perché avevano le stesse capacità degli uomini nello svolgere le mansioni assegnate e aggiungo che noi donne forse siamo più precise degli uomini e ci mettiamo più impegno.

D: C’erano più uomini o donne nella tua azienda?

R: Nell’ufficio dove lavoravo io, c’erano solamente donne, ma complessivamente gli uomini erano in numero maggiore perché in quegli anni devo dire che le ragazze che studiavano erano meno rispetto ai maschi e soprattutto c’erano meno donne che frequentavano istituti tecnici commerciali come quello che frequenti tu oggi.

D: Nell’azienda a livello dirigenziale operavano anche donne?

R: No, in quegli anni nessuna donna lavorava in banca a livelli dirigenziali, infatti c’erano pochissime donne che lavoravano nelle filiali della banca; tutte lavoravamo in sede centrale e svolgevamo mansioni che riguardavano l’archiviazione di dati, o lavoravamo per smistare le pratiche per tutte le filiali dell’istituto finanziario.

D: L’azienda in cui lavoravi quanti dipendenti aveva?

R: Nel mio ufficio lavoravano circa trentacinque signore, comunque in tutti gli uffici e in tutte le filiali della banca in cui lavoravo c’erano circa milletrecento persone, l’ottanta per cento delle quali erano uomini.

D:Quale era l’orario di lavoro?

R: L’orario di lavoro era dalle 8.30 alle 12.30 la mattina, poi andavo a casa a mangiare, visto che avevo la fortuna di lavorare vicino a casa, mentre il pomeriggio iniziavo alle 13.30 fino alle 17.30.

D: Com’era organizzato il lavoro nell’azienda?

R: Io svolgevo le mie mansioni all’ufficio perforazione della Banca del Friuli e ognuno svolgeva il proprio lavoro autonomamente. Ovviamente c’era un capo ufficio che impostava il lavoro da fare, ma comunque ognuno sapeva  svolgere il proprio compito.

D: C’è stata una crisi occupazionale negli anni Ottanta?

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R: No, almeno per quanto ne so io; noi in famiglia abbiamo sempre lavorato e quindi questo era un problema che non mi toccava più di tanto, visto che dovevo far fronte al mio lavoro e avevo due figli piccoli da crescere.

D: Il posto di lavoro era fisso ?

R: Sì, il mio posto di lavoro era fisso e lo svolgo tuttora senza aver mai avuto un problema.

D: Esisteva il lavoro part-time?

R: Sì, io ho anche lavorato part-time. La banca è stata una delle prime aziende a istituire questo tipo di lavoro di mezza giornata ed è nato proprio negli anni Settanta - Ottanta. Io ho usufruito di questa possibilità quando avevo i figli piccoli e lavoro part-time tuttora. Le madri che avevano avuto da poco un figlio, quando dovevano tornare a lavorare, avevano per legge la possibilità di lavorare mezza giornata.

D: Era frequente il ricorso alla cassa integrazione?

R: Nel mio caso no, ma conosco gente che in altri settori lavorativi ha dovuto ricorrere alla cassa integrazione molte volte, soprattutto chi lavorava nelle imprese che fallivano. Questo accadeva negli anni Ottanta

D: Era presente il lavoro nero?

R: Sì, il lavoro in nero era presente, ma non nel mio ramo.

D: Le casalinghe si possono considerare o no delle lavoratrici?

R: Sì, le casalinghe sono delle lavoratrici, perché la famiglia è una vera e propria occupazione; ci sono sempre mille lavori da fare, i figli vanno seguiti ed educati  e questo è uno dei lavori più difficili per una madre. Un’altra cosa importante è la cura della casa che, almeno per me, è sempre stata fondamentale.

D: Fare la casalinga o lavorare è stata una tua idea o un’imposizione? Perché?

R: Lavorare è stata una mia scelta, infatti a me piace il mestiere che faccio e soprattutto io non riuscirei a fare il lavoro della casalinga. Io non dico che il lavoro della casalinga non sia impegnativo, anzi. Comunque io ho sempre lavorato anche perché, quando avevo ancora i figli piccoli, avevo sempre la sicurezza che stavano con le nonne che mi aiutavano anche nelle mansioni domestiche; però, se mi fosse mancato l’aiuto dei familiari, avrei sicuramente smesso. Infatti sia i nonni materni che quelli paterni mi hanno aiutato badando ai loro nipoti, ma mi hanno anche aiutato nei lavori domestici come stirare, lavare i panni, oppure cucinare, senza di loro non sarei mai riuscita a conciliare famiglia e lavoro.

D: Il lavoro domestico è considerato un lavoro da te?

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R: Sì, secondo me il lavoro domestico è una vera e propria occupazione, perché per una persona che lavora fino alle 5.30 di sera è molto difficile dover badare alla casa quindi fare i letti, cucinare e pulire. Se poi  bisogna anche badare a marito e figli, ti assicuro che certe volte le giornate dovrebbero essere di quarantotto ore.

D: Cosa ne pensava tuo marito del lavoro fuori casa?

R: Mio marito non si è mai opposto, visto che lavorare era stata una mia scelta. Io penso che si sarebbe opposto solamente se non avessi più avuto l’aiuto fondamentale dei familiari nell’accudire i figli  e nella cura della casa, ma penso che me ne sarei accorta anche io.

D: Quali erano i pregi e i difetti del tuo lavoro?

R: I pregi erano che mi sono sempre trovata bene con i colleghi e anche sul posto di lavoro, ogni tanto, faceva piacere scambiare qualche parola, quindi mi sono fatta degli amici e devo dire che grazie a una mia collega ho conosciuto mio marito;  devo ammettere che il lavoro è stata un’esperienza fondamentale della mia vita. I difetti erano che le mansioni che svolgevamo erano purtroppo spesso ripetitive.

D: Che ruolo hanno i figli nell’organizzazione familiare?

R: I figli hanno un ruolo determinante nell’organizzazione familiare, visto che quasi la maggior parte del tempo lo devi dedicare alla loro educazione; in una famiglia sono sicuramente la cosa più importante e crescerli bene è il lavoro più difficile.

 

 

Elide, nata nel 1950

 

D: Dove è nata e cresciuta?

R: Sono nata a Castel di Casio in provincia di Bologna, e cresciuta a San Daniele.

D: Che scuola ha frequentato?

R: Ho frequentato fino alla quinta elementare.

D: Se non ha continuato gli studi, quali sono stati i motivi?

R: Il motivo più rilevante è stata, senza ombra di dubbio, la mancanza di denaro.

D: In quanti siete in famiglia?

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R: In famiglia siamo solamente in tre: io, mio marito e mia figlia.

D: Chi contribuisce maggiormente al sostegno economico?

R: Chiaramente mio marito. Avendo una pensione più alta, contribuisce di più all’interno della famiglia.

D: Chi amministra il bilancio?

R: Io e, di rado, anche mio marito.

D: Quali incombenze quotidiane svolge in famiglia?

R: Di solito svolgo quotidianamente compiti che impegnano la maggior parte delle casalinghe, ad esempio  lavare la biancheria, stirare, pulire la casa, fare la spesa.

D: Chi si prende cura dei figli o dei parenti bisognosi di assistenza?

R: Io e mio marito ci prendiamo cura di mia figlia e di mia mamma.

D: Ha del tempo libero? Come lo trascorre?

R: A volte mi capita di avere molto tempo libero a mia completa disposizione e lo trascorro guardando la televisione, leggendo qualche rivista, oppure vado in giro con mia figlia a fare shopping.

D: Mi può raccontare qualche esperienza scolastica significativa?

R: A dire la verità non ho un’esperienza che mi sia rimasta impressa di quando andavo a scuola.

D: Pensa di avere delle competenze al di là del fatto che ha fatto solo la quinta elementare, che potrebbero essere valorizzate in modo diverso?

R: Se avessi continuato la scuola, sarei stata sicuramente valorizzata in modo diverso, ma il problema fondamentale a quei tempi era la mancanza di denaro per continuare gli studi. Io avrei potuto scegliere tra l’avviamento professionale e le medie; l’avviamento professionale mi attirava molto, non solo perché era vicino a casa, ma anche perché mi avrebbe potuto portare a uno sbocco migliore, ma sfortunatamente la mia famiglia non aveva soldi per mandarmi a scuola.

D: Quali lavori, anche irregolari, ha svolto fino a oggi?

R: Io ho lavorato sempre nelle calzature.

D: Mi può raccontare il momento in cui ha cominciato a lavorare? Quali vie ha seguito per trovare il primo lavoro? Quali le difficoltà incontrate? Come si è svolto il colloquio di selezione? Ha avvertito qualche forma di discriminazione?

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R: Ho lavorato nelle calzature, perché era l’unica possibilità per lavorare e perché era molto vicino a casa mia, perciò ne traevo molto vantaggio. Ho iniziato, appena ho finito le scuole elementari, a dare una mano in casa, a tener bambini, perché ero troppo piccola per lavorare; ma appena ho compiuto quattordici anni, ho iniziato col lavoro in fabbrica. Non ho dovuto affrontare nessun colloquio di assunzione, perché lavoro ce n’era in abbondanza; una mia parente mi ha segnalata al padrone e sono stata assunta sulla sua parola. Inizialmente è stata dura, perché mi pareva faticoso e non conoscevo il mestiere; in questo caso è sempre consigliabile stare vicino a chi è esperto, per imparare i trucchi e non sbagliare. Devo dire la verità che essere donna non ha influito sul mio lavoro, perché nel settore in cui lavoravo vi erano quasi ed esclusivamente donne. Gli uomini avevano un ruolo molto diverso dal nostro: le donne cucivano e gli uomini montavano le scarpe.

D: Sul lavoro veniva trattata bene, con rispetto?

R: Sì, le persone all’interno dell’azienda e i datori di lavoro erano persone oneste e molto rispettose.

D: Quante persone lavoravano con lei in fabbrica?

R: All’inizio eravamo in circa trenta persone, ma pian piano il numero di lavoratori è sempre calato, adesso sono rimasti in circa diciotto.

D: Ha avuto difficoltà nel lavoro?

R: Sì, agli inizi ho fatto un po’ di difficoltà, ma poi mi sono ambientata e il datore di lavoro è rimasto contento di come lavoravo.

D: Attualmente qual è la sua condizione lavorativa?

R: Ormai sono in pensione.

D: Era soddisfatta del suo contratto di lavoro?

R: Sì, ero molto soddisfatta del mio ex lavoro, e soprattutto sono sempre stata bene anche nell’ambiente dell’azienda.

D: Ha avuto problemi di salute all’interno dell’azienda?

R: Ho avuto dei problemi alla vista, ma non so se è stato determinato dal lavoro, anche se all’epoca veniva usato il benzolo che era un collante molto tossico. Comunque, è già diverso tempo che è stato tolto.

D: Le sembra che il fatto di essere donna o un certo tipo di donna le abbia creato dei problemi?

R: No, nel mio caso non vi è stato nessuna forma di discriminazione, non ho avuto molestie di nessun genere; insomma, mi sono trovata veramente come a casa mia.

D: Come vede adesso le donne nell’ambito del lavoro?

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R: Penso che la donna oggi sia più rivalutata.

D: Qual è il lavoro del marito?

R: È in pensione anche lui.

D: Il marito l’ha condizionata nelle scelte professionali?

R: No, per niente.

D: Se ci sono state maternità, hanno suscitato problemi con il datore di lavoro?

R: È andato tutto bene, ho fatto a casa due mesi prima e tre mesi dopo il parto, poi sono tornata a lavorare benissimo, non ho avuto problemi di nessun genere.

D: Chi teneva la bambina quando andava a lavorare?

R: Mia suocera, perché a quell’epoca non c’erano asili nido.

D: Per quanto riguarda i figli, quanti ne ha?

R: Ho solo una figlia, di nome Emanuela

D: Che età ha?

R: Adesso ha ventitre anni.

D: Cosa fa attualmente la figlia?

R: Studia Lettere all’Università.

D: Quali impegni comporta?

R: Non comporta molti impegni, perché a causa degli studi, non è mai a casa, e perciò rimango sempre da sola.

 

 

Marisa, nata nel 1953

 

D: Fino a quanti anni sei andata a scuola e quale titolo di studio hai conseguito?

R: Sono andata a scuola fino a venticinque anni; ho conseguito il diploma in Perito aziendale e corrispondente in lingue estere e la laurea in Scienze

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biologiche.

D: Perché hai scelto Scienze biologiche?

R: Tutti mi consigliavano di iscrivermi ad Architettura, io invece ho scelto Biologia; volevo frequentare Medicina, ma il corso di studi era troppo lungo; allora ho deciso di conseguire la laurea in Scienze biologiche, seguendo il piano di studi bio-medico per poi eventualmente continuare con lo studio della medicina. Infatti dopo la laurea in Biologia mi sono iscritta alla Facoltà di Medicina, ma poiché c’era l’obbligo di frequenza di alcune cliniche ho poi abbandonato.

D: Hai avuto dei modelli nella scelta della scuola? Che ruolo ha avuto la famiglia nell’ indirizzarti?

R: No, non ho avuto alcun modello nella scelta della scuola. La mia famiglia mi ha lasciato libera di scegliere la facoltà, purché la sede della stessa non fosse molto lontana da casa; questo non per un fatto economico, bensì affettivo. Fu così che andai a Padova.

D: Come mai poi sei diventata insegnante?

R: Per il desiderio di indipendenza economica immediata e la possibilità di avere ore libere da impegni lavorativi durante la settimana da dedicare a una futura famiglia.

D: Il titolo di studio è stato utile per il tuo lavoro?

R: Il titolo di studio è stato solo in parte utile per il lavoro che esercito per l’acquisizione di alcune competenze.

D: Completati gli studi hai trovato subito lavoro?

R: Già prima di laurearmi mi ero creata un posto, lavorando gratuitamente presso un laboratorio di analisi a Padova; quindi dopo laureata ho continuato a lavorare nello stesso laboratorio.

D: Quali problemi di inserimento nel mondo lavorativo riservavano gli anni Ottanta?

R: Nessun problema, perché ho avuto più proposte lavorative contemporaneamente e ho dovuto solo scegliere quella che ritenevo più idonea, quindi ho deciso di dedicarmi all’insegnamento.

D: Nel tuo ambiente di lavoro c’erano più donne o più uomini?

R: Durante i primi anni di insegnamento mi sono ritrovata in scuole dove stranamente la prevalenza del personale docente era maschile, ma io non ho mai avuto alcun problema, anzi ho avuto la fortuna di incontrare molti colleghi gentili e disponibili ad aiutarmi.

D: Il fatto di essere donna ha causato discriminazioni?

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R: Il fatto di essere donna non ha assolutamente causato discriminazioni. La donna era limitata a determinate professioni, ma nel  mio campo non c’erano e non ci sono tutt’ora differenze tra il ruolo della donna e dell’uomo. La donna che si sa imporre non ha problemi.

D: Com’era l’ambiente di lavoro?

R: Rispetto a oggi era un ambiente più tranquillo e meno denso d’impegni e di burocrazia.

D: Com’era il contratto di lavoro?

R: Il contratto di lavoro prevedeva l’assunzione a tempo determinato.

D: Che considerazione hai del tuo lavoro?

R: Ho sempre considerato il mio lavoro poco riconosciuto, ma è un’attività che dà molte soddisfazioni; mi sono sempre divertita molto a insegnare, anche se gli allievi sono sempre più indisciplinati e meno rispettosi.

D: La scelta del lavoro e il lavoro stesso hanno subito condizionamenti?

R: No, nonostante il matrimonio e la nascita dei figli.

D: Il matrimonio ha comportato rinunce in campo lavorativo?

R: Non le definirei rinunce, comunque, se non mi fossi sposata, non avrei insegnato, ma avrei seguito la strada della ricerca presso la Facoltà di Chimica dell’Università di Monaco di Baviera, dove avevo già il posto di lavoro.

D: Quando sapevi di diventare mamma, hai usufruito delle leggi a tutela della maternità?

R: Sì, durante la seconda gravidanza ho avuto problemi di salute e ho usufruito della legge di tutela della maternità, quindi sono rimasta a casa fin dal secondo mese di gravidanza.

D: Come si gestiscono i rapporti familiari con il lavoro?

R: La presenza di figli non mi ha mai causato problemi e la gestione lavoro - figli era organizzata bene, è stato semplice perché  ho avuto l’appoggio di mio marito e dei miei genitori.

D: E con l’attività domestica?

R: Ogni momento libero lo dedico a riassettare la casa, fare la spesa e tutti i servizi per far sì che la mia famiglia stia al meglio. Non voglio la collaborazione di persone estranee perché ho avuto esperienze negative e voglio educare i miei figli all’autonomia.

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Silvia, nata nel 1958

 

D: Tu hai fatto un determinato percorso scolastico; il titolo di studio che hai ottenuto, alla fine, ti è stato utile per il lavoro?

R: Era il minimo che potevo avere per andare a lavorare.

D: Pensi che avendo avuto un titolo di studio superiore alla scuola media, avresti potuto avere più possibilità nel mondo del lavoro?

R: Senz’altro, questo vale anche ai giorni nostri.

D: Come mai hai deciso di non continuare la scuola?

R: Perché quando andavo a scuola io, c’era proprio quasi la regola: scuola - licenza media - lavoro. Era di norma così e si andava a lavorare, a parte che il mio desiderio non era quello di studiare, non mi piaceva, quindi nella mia mente neanche passava l’idea di continuare gli studi. Se uno era proprio portato per la scuola, era la famiglia stessa magari che lo spronava a continuare gli studi, ma nella mia famiglia era quasi normale che io, finita la scuola, dovessi andare a lavorare; primo perché non mi piaceva la scuola e poi nella mia famiglia mancava mio padre e quindi era normale che io cominciassi a portare a casa uno stipendio.

D: Parliamo di accesso al lavoro: quand’è avvenuta la tua prima esperienza lavorativa?

R: È stata nell’anno 1970 quando ho finito un corso di dattilografia nel quale praticamente si imparava a scrivere a macchina, a scrivere le lettere, ad avere un senso di logica di commercio. Ottenuto il diploma, sono andata a lavorare in una piccola azienda privata di autotrasporti. Era un lavoro proprio di base, cioè fatturazione, pagamenti, rispondevo alle telefonate; lì proprio si imparava la base del lavoro.

D: Poi quali sono state le altre tue esperienze di lavoro?

R: In quella ditta ho lavorato un anno; poi, soprattutto mia mamma mi ha fatto capire che lì mi usavano più che farmi lavorare, mi mandavano anche a fare servizi personali, ad esempio andare nei negozi a fare compere. Un anno ho lavorato lì, dal 1970 al 1971. Poi sugli annunci economici avevo letto che a Feletto cercavano una ragazza, un’impiegata e sono andata al colloquio di lavoro. Me l’ha fatto proprio il titolare e sono stata assunta. Lì ho lavorato dal 1971 al 1988 e quindi quasi tutta la mia esperienza lavorativa si è svolta in questa azienda.

D: Quali problemi hai dovuto affrontare per cercare lavoro?

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R: Per cercare lavoro nessuno, perché quando ho deciso di smettere la prima esperienza, saranno passati quindici giorni di pausa da un lavoro all’altro, quindi non ho avuto nessun problema, in pratica ho finito un lavoro e ne ho iniziato un altro.

D: Quindi in quegli anni c’erano molte possibilità di lavoro?

R: Sì, è vero, non si sentiva in quegli anni il disagio che c’è oggi per trovare un lavoro, però chiaramente ci si adattava, forse più facilmente, ai lavori che si presentavano; in pratica ogni lavoro era buono. Però io, sapendo fare quel lavoro lì, ho cercato di continuare a fare l’impiegata: cioè io nella mia esperienza non ho trovato nessuna difficoltà, anzi sono stata talmente fortunata da trovare anche un lavoro che fosse vicino a casa.

D: L’essere donna ha causato discriminazioni nel campo lavorativo oppure no?

R: Nel mio caso no, perché io non ho avuto un percorso per voler sorpassare qualcun altro, per fare carriera, per diventare qualcuno, per me era sufficiente fare il lavoro semplice di impiegata, quindi io non ho dovuto rincorrere qualcosa o qualcuno, fare un confronto con un mio collega maschio che magari aspirava a migliorare la sua posizione. La mia difficoltà è stata solo nell’iniziare come apprendista e quindi potermi trasformare in impiegata, perché, essendo giovane, avevo un periodo di preparazione, di apprendistato che poi doveva trasformarsi in qualifica di impiegato. Però, se tu non andavi quasi a chiederlo dopo un po’ di tempo, loro ti lasciavano lì come apprendista, quasi non si ricordavano neanche di te.
           
D: Com’era l’ambiente di lavoro?

R: L’ambiente era formato da parecchie persone, sia maschi che femmine; io, diciamo, non ho avuto rapporti proprio diretti con i titolari, che in ogni caso erano presenti; eravamo in parecchie ragazze. In quel periodo, proprio quando sono stata assunta io, sono state assunte anche altre ragazze e abbiamo percorso questo viaggio quasi tutte assieme. Mi è rimasto impresso che negli anni, noi abbiamo quasi fatto il callo a certe osservazioni, a certi modi di fare dei capi, che forse a volte erano peggio del titolare; a volte era meglio avere il rapporto diretto con il padrone perché il capo a volte, proprio per la sua qualità e per quello che vuol far vedere, è anche più cattivo. Cioè il fatto di sentirsi capo forse porta magari a offendere, magari viene accettata più un’ osservazione fatta dal titolare che una fatta da un capo.

D: Offese di che tipo?

R: Quando sbagliavamo qualche cosa. Io, devo dire la verità, non ho avuto questo rapporto, però negli anni successivi vedevo che i nuovi assunti avevano quasi meno resistenza di noi, che eravamo già vecchietti; se ci facevano un osservazione, cercavamo di migliorarci, invece ci sono stati degli anni successivi in cui i ragazzi, i giovani, quando venivano assunti, sembrava che non riuscissero a sopportare i rimproveri e c’era un ricambio di ragazzi anche tra gli operai, continuo. Invece con gli assunti della mia età abbiamo percorso tanti anni insieme. Notavo questa cosa: negli anni il ragazzo giovane che entrava

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nell’ambiente di lavoro non accettava ad esempio di essere spostato da un settore all’altro, oppure proprio non sopportava il rapporto con questi capi e c’era un ricambio continuo di assunzioni.

D: Il contratto di lavoro com’era?

R: Era a tempo indeterminato. C’era un periodo di apprendistato nel quale potevano anche licenziarti, però, superato il periodo, il contratto era definitivo.

D: Nella gestione della famiglia, come facevi a conciliare famiglia e lavoro nel periodo in cui lavoravi avendo dei figli?

R: Questo poteva avvenire esclusivamente con la presenza di mia mamma, che si prendeva l’impegno di preparare da mangiare, almeno nel pasto di mezzogiorno. Quindi io partivo la mattina e non avevo pensiero, arrivavo a casa, trovavo già pronto da mangiare. Poi la nonna portava anche a scuola, all’asilo le bambine, quindi non ho avuto problemi per quello, perché c’era la presenza della nonna.

D: Però a un certo punto non era più possibile continuare, quindi …

R: Sì, perché gli spostamenti aumentavano, anche le distanze, e quindi era proprio necessaria una presenza più continua.

D: La presenza dei figli che ruolo ha avuto nell’organizzazione familiare?

R: La mia famiglia è stata creata proprio perché ci fosse la presenza dei figli, non ho mai pensato a una famiglia senza figli e quindi loro non mi hanno portato disagi o preoccupazioni, anzi è stato un arricchimento personale, che mi ha portato a vivere e a fare le cose non solo per me stessa, ma anche per gli altri, per i figli, e mi ha dato molte soddisfazioni. Sì, perché vedi, fai proprio un percorso che non conosci, ma che senti come una cosa normale. Pur essendo all’inizio all’oscuro di questo, nel farlo ti arricchisci e ti porta esperienza, ti fa percorrere una strada dove i figli devono imparare qualcosa dal genitore e il genitore impara dai figli.

D: Qual è stata l’esperienza che ti ricordi maggiormente, la più bella o la più spiacevole, nel campo lavorativo?

R: Cose proprio particolari non ci sono, però a distanza di tanti anni e avendo vissuto per quasi diciotto, diciannove anni con altre persone, tutt’oggi le ricordi perché, passando insieme otto ore di lavoro al giorno, diventa quasi una seconda famiglia. Lì in un ambiente con tante persone cominci a riconoscere le persone stesse, cominci a capire chi ti frega, chi ha voglia di lavorare, chi non ha voglia di lavorare e ricordi per esempio il periodo degli scioperi, dove magari gli operai erano tutti fuori, invece gli impiegati erano tutti dentro. Poi ricordo volentieri anche i titolari, perché li vedevo presenti e capaci del loro lavoro e ricordo il piacere di stare con tante persone e anche di poterle, saperle riconoscere dai loro modi di fare. Poi una cosa che mi è rimasta impressa è che quando il titolare mi ha fatto il colloquio di lavoro, invece di chiedermi cosa sapevo fare, se sapevo scrivere a macchina, mi ha detto di spiegare qualcosa

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che sapevo fare e io ho parlato di come si lavora nell’orto: dalla vangatura, alla semina, alla nascita, al raccolto. Lui, era quello che voleva capire, cioè partire da un niente per arrivare a un qualcosa. A me è venuto spontaneo di parlare di questa cosa e ogni tanto, quando ci penso, mi viene da ridere che per un colloquio di lavoro io abbia descritto una cosa così e che poi sia stata anche costruttiva, nel senso che sono stata chiamata a lavorare tre giorni dopo questo fatto.
            D: Posso chiederti, perché non ho capito: lui ti ha chiesto di raccontargli che cosa?

R: Un’azione che spieghi un inizio e una fine, e io, lì per lì, ci ho pensato e ho parlato di una cosa che facevo a casa.

D: Quindi tu, prima che nascessero i figli, lavoravi sia come impiegata sia anche a casa?

R: Sì, lavoravo anche a casa, perché aiutavo mia mamma nell’orto; perché lei andava al mercato a vendere la verdura, cosa che ho sempre fatto anche negli anni successivi.

D: Non ti ha pesato il fatto di dover fare sia le otto ore di lavoro e poi arrivare a casa e comunque dover fare altri lavori?

R: Sì, pesava, ma era una cosa che, quando la fai volentieri, non ti pesa, non senti che ti pesa.

D: Nascono i figli, hai smesso di lavorare, ma quando i figli erano abbastanza cresciuti e non serviva una costante presenza materna, avresti voluto tornare a lavorare?

R: Devo dire che non sento la mancanza del lavoro, perché volendo so anche stare a casa. Conosco invece molte persone per le quali il lavoro non è una necessità, ma è solo un modo per mostrarsi, per spendere, forse per sprecare anche soldi nelle spese e quindi io non ho sentito la mancanza del lavoro e non la sento tuttora, perché volendo puoi fare tantissime cose.
            D: Nel periodo della maternità hai avuto molti problemi, ci sono stati dei disagi?

R: I disagi forse si verificano solo al rientro e comunque è una notizia che quando la dai nell’ambiente di lavoro, non è tra le più favorevoli, non è che la prendono tanto volentieri, anche perché, se ti servono ore o giornate per problemi di salute o per andare dal medico, oppure un giorno non stai bene e non vieni a lavorare, è una cosa che non viene accettata tanto bene. Io, in effetti, ho sempre cercato di fare meno assenze possibili, perché creavano un po’ di disagio, di attrito e ho cercato di fare sempre pochissime assenze, solo proprio in casi veramente necessari. So di essere andata tante volte al lavoro con la febbre, oppure con malesseri, oppure cercavo di conciliare gli orari. Per esempio hai un figlio ammalato e tu devi rinunciare al lavoro per curarlo e questo per la donna crea più fastidi. Volevo aggiungere che il lavoro è comunque una cosa giusta per la donna, che la porta a essere indipendente, cosa appunto che per il fatto di essere donna non avveniva in tempi passati, perché dovevi dipendere esclusivamente dal marito anche nelle tue piccole spese personali.

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Comunque, se è una conquista, bisogna anche saperla mantenere. Il lavoro è la conquista di uno stipendio, ma comunque non vuol dire uno spreco di spesa,  è una cosa che devi saperti gestire.

 

 

Catherine, nata nel 1959

 

D: Ha conseguito un titolo di studio?

R: Sì. Ho frequentato una scuola per diventare segretaria. Ho avuto il diploma di stenodattilografa.

D: È stato utile per il suo lavoro?

R: In Francia ho trovato lavoro subito. Durante le vacanze estive, quando ero ancora a scuola, ho lavorato in  ufficio. Una volta ho lavorato in una banca e in un supermercato. Poi, quando ho terminato la scuola, ho trovato un lavoro fisso come impiegata. Dopo un po’ di anni mi sono trasferita in Italia. Mi sono dovuta adeguare e cercare di imparare la lingua. Dopo che mi sono sposata, ho dovuto cercare un lavoro e alla fine ho trovato quello che ho trovato.

D: Come è avvenuto l’accesso al lavoro?

R: In Francia sono riuscita quasi subito a trovare un lavoro, in Italia ho dovuto cercare per un bel po’ di tempo. Dopo aver fatto tante domande mi hanno preso in una fabbrica. Trovare lavoro come segretaria era difficile perché ero straniera.

D: Quali problemi ha dovuto affrontare nel cercare lavoro?

R: All’inizio ho avuto vari problemi a trovare un lavoro qua in Italia, appunto perché non conoscevo la lingua e in certi posti richiedevano requisiti che io non avevo. In alcune fabbriche ho avuto dei problemi con i superiori. In una fabbrica mi sono licenziata perché non volevano spostarmi di reparto per non essere a contatto con la gomma, dato che sono allergica. A causa di ciò avevo tutte le mani rovinate, facevo fatica a muoverle.

D: Quali sono le caratteristiche del lavoro, dell’ambiente di lavoro e del contratto di lavoro?

R: Tutti i lavori che ho fatto erano pesanti, per niente facili, non sempre erano lavori da donna. In tutte le fabbriche dove ho lavorato mi sono comunque sempre trovata bene con tutti i colleghi e anche con alcuni superiori. Per quanto riguarda il contratto di lavoro, una volta sono stata assunta a tempo indeterminato, grazie ad amici. In altre fabbriche venivo invece assunta a tempo determinato.

D: L’essere donna ha causato discriminazioni?

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R: Con i colleghi no, ma con i superiori ho avuto dei piccoli contrasti, perché loro non sempre ti considerano come gli uomini, ti sottovalutano. Ad esempio nel mio primo lavoro ho avuto delle divergenze con un mio superiore per avere un livello superiore di qualifica come il mio collega maschio.

D: Lo stipendio che ricevi è sufficiente?

R: Secondo me dovrebbero darmi di più, ma non mi posso lamentare.

D: Ci sono stati dei problemi nel gestire la famiglia?

R: Quando ero più giovane e mia figlia era più piccola, facevo fatica a occuparmi della famiglia, ma adesso va molto meglio perché mia figlia è cresciuta.

D: La figlia ha creato problemi nell’organizzazione familiare?

R: I figli non creano problemi, ma sono un peso in più. Quando mia figlia era piccola tutto era più difficile, perché io stavo fuori casa tutto il giorno e quindi dovevo lasciarla a qualcuno.

D: Ha fatto parte di sindacati, partiti, organi collegiali?

R: Sì, ho fatto la delegata sindacale, ma è un’esperienza che non rifarò più.

 

 

Roberta, nata nel 1959

 

D: Fino a che età hai frequentato la scuola?

R: Ho frequentato la scuola fino a quattordici anni, conseguendo il diploma di terza media.

D: Perché non hai continuato gli studi?

R: Perché in quel periodo, avendo problemi di carattere economico, ho dovuto incominciare a lavorare in famiglia nel negozio dei miei genitori. Era stata mandata a scuola una mia sorella maggiore che aveva problemi di salute, le superiori erano a Udine ed era una spesa venire a scuola da Resia.

D: Ti sarebbe piaciuto continuare la scuola?

R: All’epoca non mi rendevo conto dell’importanza della scuola e mi era indifferente,  ho accettato la decisione dei miei genitori e ora me ne pento,

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perché forse avrei avuto qualcosa di più dalla vita.

D: Il terremoto ha in qualche modo influenzato la tua vita?

R: Innanzitutto ho perso il lavoro e la casa e una parte della mia vita; ho dovuto adattarmi al lavoro manuale in fabbrica dove non era richieesto nessun titolo di studio. Ho dovuto farmi nuovi amici in un paese diverso come mentalità e posizione geografica. Tutta la famiglia si era trasferita da Resia a Percoto.

D: Era difficile trovare un impiego?

R: Io non mi sono posta mai il problema, avendo inizialmente il lavoro in casa; comunque vedendo le mie coetanee posso dire che non era difficile trovare un impiego in quel periodo, perché i lavori richiedevano meno preparazione di adesso (come le lingue e luso del computer che non esisteva ancora). Anche a Percoto ho trovato subito lavoro.

D: In che settori operavi?

R: All’inizio operavo nel settore del commercio, poi all’età di diciassette anni, dopo il terremoto, ho trovato impiego in un’azienda dove lavoravo come magazziniera.

D: Quanto tempo ti è servito per trovare un impiego?

R: Il lavoro in azienda ho avuto la fortuna di trovarlo in un giorno.

D: Hai migliorato la tua carriera lavorativa?

R: In quindici anni che ho operato in quell’azienda non ho migliorato la mia posizione lavorativa.

D: Quale era lo stipendio che percepivi?

R: Era uno stipendio sindacale.

D: A parità di lavoro gli stipendi erano uguali tra lavoratori e lavoratrici?

R: Gli stipendi erano uguali, non c’erano differenze tra uomini e donne.

D: Un uomo era più facilitato di una donna nelle assunzioni?

R: Nel periodo in cui ho lavorato non ho notato differenze nel modo di assunzione tra donne e uomini; in quel periodo l’azienda appena avviata cercava dipendenti e non contava il fatto di essere donna o uomo.

D: Le donne erano discriminate all’interno dell’azienda?

R: Non ci sono mai state discriminazioni all’interno dell’azienda, le donne erano trattate come gli uomini; noi eravamo trattate con occhi di riguardo

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solo per il semplice fatto di essere donne! Nell’azienda si era instaurato un rapporto di rispetto riguardo al nostro lavoro, che era praticato solo da noi donne (all’epoca si era cinque magazziniere donne su cento uomini). Anche se eravamo nettamente in minoranza,  non c’è mai stato in dodici anni di lavoro qualche problema con i colleghi, anzi collaborazione, rispetto e alle volte anche amicizia.

D: Com’era suddiviso il lavoro tra uomini e donne nella tua azienda?

R: Nell’azienda ci sono sempre stati più lavoratori uomini nei reparti di produzione, invece negli uffici operavano esclusivamente donne. Ancora la minoranza femminile persiste, anche perché nei vari uffici sono subentrati  parecchi uomini a volte in sostituzione di donne.

D: Nell’azienda a livello dirigenziale operavano anche donne? A quale livello precisamente?

R: A livello dirigenziale era presente una sola donna, che era una socia.

D: L’azienda in cui lavoravi quanti dipendenti aveva? Quanti dipendenti conta adesso?

R: Quando ho iniziato contava circa centosettanta dipendenti che poi sono aumentati nel corso degli anni. Adesso non so quanti ne conta, perché non lavoro più e non ho notizie sul numero dei dipendenti.

D: Com’era organizzato il lavoro nell’azienda?

R: Il lavoro nel magazzino era organizzato in maniera autonoma, non esistevano capi reparto nel nostro settore, mentre negli altri reparti c’erano. Ognuna di noi aveva un preciso compito e lo portava a termine nel tempo prefissato. C’era collaborazione, ci si aiutava a vicenda sia tra noi donne che con l’intervento maschile.

D: C’è stata negli anni Ottanta una crisi occupazionale? Tu hai avuto conseguenze?

R: Non c’è stata nessuna crisi occupazionale e di conseguenza non sono stata colpita da questo fenomeno. C’è stato solo un piccolo caso di cassa integrazione della durata di qualche settimana.

D: Il posto di lavoro era fisso?

R: Il posto che avevo era fisso, perché mi era stato assicurato sin dal momento della firma del contratto.

D: Esisteva il lavoro part-time?

R: Non esisteva il lavoro part-time all’interno della mia azienda e io di conseguenza non ero a conoscenza di questo tipo di lavoro.

D: Qual era il tuo orario di lavoro?

R: Lavoravo otto ore al giorno, dalle otto del mattino fino alle cinque di sera, senza contare gli straordinari che erano quasi quotidiani.

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D: Gli scioperi erano frequenti? Da quali avvenimenti erano motivati?

R: Gli scioperi erano frequenti soprattutto intorno al biennio 1982-1983 e gli avvenimenti che motivavano tali scioperi erano di carattere interno: riguardavano la mensa, gli aumenti di categoria che non erano concessi, la scadenza dei contratti. Oltre a questi erano presenti scioperi di carattere sindacale.

D: Era diffuso il lavoro nero?

R: Non conoscevo questo fenomeno negli anni in cui ho lavorato.

D: Come hai conciliato il lavoro domestico con il lavoro fuori casa?

R: Con fatica perché mio marito lavorava a turni, poi non avevo nessun aiuto in casa. Gran parte dei lavori domestici li svolgevo la sera tardi, quando mia figlia dormiva, oppure nei week-end.

D: Il lavoro domestico è da te considerato un lavoro?

R: Io lo considero un lavoro, anche se non ha una vera e propria remunerazione, a volte può essere molto più stressante e impegnativo di un lavoro stipendiato, credo poi che dia molte più soddisfazioni nel campo degli affetti.

D: Che cosa pensavano il marito e gli altri familiari del fatto che tu lavoravi fuori casa?

R: Mio marito era d’accordo con la mia scelta, anche perché c’era un supporto economico superiore nei primi anni di matrimonio; mia figlia non era d’accordo e risentiva della mia scelta; ecco perché con il secondo figlio ho deciso di dedicarmi completamente alla famiglia senza alcun rimpianto, perché sapevo che avrei procurato delle sofferenze ai figli.

D: Fare la casalinga o lavorare fuori casa è stata una libera scelta?

R: È stata una libera scelta in entrambi i casi; ho deciso io personalmente prima di lavorare e poi dedicarmi alla famiglia; ho deciso di dedicarmi alla famiglia quando è nato il mio secondo figlio, non potevo usufruire di appoggi familiari e nel mio comune di residenza non erano stati attivati servizi sociali che potessero aiutarmi, ho deciso così di dedicarmi ai figli.

D: Che importanza hanno avuto i figli nella tua vita?

R: Credo che abbiano assunto un ruolo importante all’interno della famiglia, di completamento.

 

 

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Lorella, nata nel 1960

 

D: Fino a quanti anni sei andata a scuola e quale titolo di studio hai conseguito?

R: Sono andata a scuola fino a diciotto anni e ho conseguito una qualifica di segretaria d’azienda in un istituto professionale.

D: Il titolo di studio che hai conseguito è stato utile per il tuo lavoro?

R: Il titolo di studio da me conseguito mi è stato utile solo a metà, perché i primi lavori da me svolti non richiedevano quel tipo di titolo di studio.

D: È stato difficile scegliere una scuola superiore? Qualcuno ti ha influenzato, consigliato o è stata una scelta autonoma? Che ruolo ha avuto la famiglia nell’ indirizzarti?

R: Per me la scelta di una scuola superiore non è stata difficile, poiché la scelta si è basata sulla mia decisione di trovare una scuola a breve durata, ma che allo stesso tempo potesse darmi un titolo di studio utilizzabile nel mondo del lavoro; inoltre la mia scelta scolastica è stata autonoma, ma si è basata anche sulla disponibilità economica dei miei genitori, che non era molto elevata. La famiglia non ha cercato di influenzarmi, ma ha rispettato le mie scelte.

D: Completati gli studi, hai trovato subito lavoro?

R: Non ho avuto problemi a trovare lavoro, infatti, nello stesso anno in cui ho finito la scuola e dopo aver lavorato per tre mesi in un ristorante a Jesolo, ho cominciato a lavorare in una conceria. L’azienda era una delle più importanti del Friuli e a quell’epoca contava circa cinquecentosessanta dipendenti.

D: Quali problemi hanno causato gli anni Ottanta?

R: All’inizio della mia carriera lavorativa ero assunta regolarmente. Per il primo anno lavoravo nel reparto “Rifinizione” dove la condizione non era delle più piacevoli. A un certo punto, decidono che il reparto deve adottare un’altra strategia di lavoro e, poiché avevo un diploma professionale, mi viene chiesto di lavorare su questo progetto. Mi avevano promesso di farmi impiegata dopo tre mesi di impegno nel nuovo lavoro, ma dopo sei mesi,  siccome avevo protestato, volevano rimandarmi in reparto “Rifinizione”; così ho fatto causa sindacale all’azienda. Il proprietario in seguito mi convoca nel suo ufficio e,  esponendo le mie ragioni,  la spunto. Molti anni dopo vivo in prima persona la vicenda sull’acquisizione di due stabilimenti a Torino e a Pescara, e cioè l’epoca della maggior espansione del gruppo. Ma un anno dopo comincia il calvario della lunga crisi, nella quale come tanti altri lavoratori mi trovo coinvolta. Ma, nonostante avessi una famiglia e una figlia piccola, non mi sono mai tirata indietro, naturalmente senza mai trascurare la mia famiglia. Infatti per mesi operai e impiegati, tra i quali anche io, abbiamo organizzato dei presidi a turno davanti al portone della fabbrica, ventiquattro ore su ventiquattro. In seguito ci fu la cassa integrazione speciale e la mobilità dopo le quali, come tanti, anche io mi ritrovai senza lavoro.

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D: Nel tuo ambiente di lavoro c’erano più uomini o c’erano più donne? Hai trovato delle discriminazioni?

R: Nel mio ambiente di lavoro c’erano più uomini, poiché determinate tipologie di lavoro erano considerate troppo pesanti per le donne, in quanto bisognava sollevare intere pelli bagnate e quindi gli sforzi erano notevoli. No, personalmente non ho riscontrato problemi di questo tipo anzi, all’inizio ho avuto sia dai compagni di lavoro maschi che femmine molti consigli utili. Inoltre mi sono sempre battuta per le pari opportunità non solo sul lavoro, ma per la dimensione complessiva e continuerò a farlo.

D: Qual era il ruolo della donna e quale quello dell’uomo?

R: Solitamente l’uomo aveva posizioni di maggior prestigio, a meno che, come succedeva nella mia azienda, ma anche in altre, alcune donne in quanto parenti ricoprivano posti di dirigenza e non sempre per meriti acquisiti.

D: Qual è la posizione della donna nel mercato del lavoro?

R: Anche se ci sono leggi che concedono più opportunità, non sempre è facile per una donna raggiungere ruoli di responsabilità, in parte perché, nonostante tutto, ci sono ancora molti pregiudizi sul fatto che una donna dopo il matrimonio e dopo la maternità “rende meno” e quindi non dà affidamento in quanto non è disponibile a fare orari anche molto prolungati, come un uomo.

D: Com’era il contratto di lavoro? Lavoravi regolarmente o in nero? Il tuo posto di lavoro era fisso?

R: Per mia fortuna sono stata subito assunta con contratto fisso e regolare dopo il normale periodo di prova; lavoravo quaranta ore settimanali, poiché difficilmente veniva concesso il part-time. All’inizio lavoravo nel reparto “Rifinizione”, dove si stava a stretto contatto con gli spruzzi per la colorazione delle pelli, in seguito sono stata promossa impiegata.

D: E ora qual è il tuo lavoro? È un posto di lavoro fisso o part-time?

R: Dopo la disoccupazione ai tempi della fabbrica, arrivò il tempo del sindacato. Mentre lavoravo alla conceria, oltre all’incarico di delegata, avevo assunto anche quello di componente del direttivo provinciale della categoria dei chimici e fu per questo mio impegno che mi chiesero di entrare a lavorare nel sindacato, dove ancora adesso svolgo la professione di impiegata. Oggi mi occupo di cinque categorie, conosco i vari contratti di lavoro in tutte le varianti, controllo le buste paga e le liquidazioni, seguo le vertenze individuali e tutti gli altri aspetti collegati al rispetto dei diritti dei lavoratori. Inoltre questo lavoro mi piace e il rapporto con le persone è la parte più gratificante, quella che mi consente di migliorare sia sul piano umano che su quello professionale.

D: Quando hai saputo di diventare mamma, hai usufruito delle nuove leggi a tutela della maternità?

R: Sì, ho usufruito di tutti i mezzi e le opportunità che la legge all’epoca mi permetteva mantenendo il mio posto di lavoro e nello stesso tempo mi ha

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permesso di rimanere in maternità per quasi un anno dopo la nascita di mia figlia.

D: Come si gestiscono i rapporti familiari con il lavoro?

R: È una fatica, perché comunque sei impegnata fuori casa nove, dieci ore al giorno; devi riuscire a conciliare le due cose e a lungo andare diventa pesante, comunque nel mio caso l’aiuto dei suoceri o dei miei genitori è stato importantissimo, poiché loro mi hanno aiutato a occuparmi di mia figlia nelle ore in cui io ero impegnata con il lavoro.

D: Che ruolo ha avuto la presenza dei figli in ambito familiare?

R: Naturalmente il ruolo di mia figlia nella mia vita è stato fondamentale e importante per il completamento della famiglia, anche se questo ha comportato ulteriori responsabilità per me e mio marito e un aggravio delle problematiche di gestione familiare.

D: La presenza dei figli ha condizionato la vita nell’ambiente di lavoro?

R: Assolutamente no, ho sempre cercato di fare conciliare il lavoro e la famiglia, anche se con molte rinunce, non tutte le donne possono avere le mie stesse fortune, visto che ancora oggi questo è un motivo di discriminazione.

D: Quanto tempo impieghi per gestire la casa?

R: La cura, la pulizia della casa e fare la spesa richiedono tempo e fatica. Tenendo conto del fatto che lavoro tutto il giorno e rientro dal lavoro verso le sette, durante la settimana impiego due ore e mezza circa ogni sera per preparare la cena, stirare, lavare e fare qualche piccola pulizia. Generalmente le grosse pulizie le faccio nel week-end e per le pulizie particolari utilizzo o alcuni giorni di ferie o alcuni ponti. Per quanto riguarda le provviste, abitualmente faccio la spesa una volta alla settimana, comperando alimenti che si conservano più a lungo come ad esempio pasta, riso, yogurt, formaggi, pane. Acquisto all’occorrenza nell’arco della settimana gli alimenti facilmente deperibili come ad esempio verdura, frutta, latte, affettati.

 

 

Graziella, nata nel 1962

 

D: Raccontami la tua prima esperienza lavorativa.

R: Ho iniziato a quindici anni in un bar gelateria a Lignano Pineta da mia zia. Lavoravo al banco dei gelati, mi alzavo presto, alle sei e mezza, perché io aprivo il bar e dopo di me si alzava chi andava a dormire tardi. C’erano poche ore di riposo. A Lignano ho fatto una stagione di tre mesi. Ero lì a dar fuori

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gelati. Lavoravo fino alle novr, mangiavo e andavo a dormire, stanchissima. In quel periodo non mi era permesso neppure di andare al mare, lavoravo tutto il giorno. I soldi per il lavoro nella gelateria furono pochi e mia zia li diede a mio padre. Poi ho finito quella stagione e ho iniziato in tipografia a Udine. Ho lavorato in tipografia per dieci anni, fino a quando mi sono sposata.  Avevo il compito di impaginare i libri, quindi dovevo piegarli e poi ricucirli. Facevamo blocchi di fatture, fascicoli, e si lavorava per diverse ditte. Il lavoro variava perché a volte lavoravo anche con le macchine e avevamo la capo reparto che decideva e assegnava i lavori, ma la maggior parte delle volte vedevamo da sole quali fossero i lavori da svolgere, giorno per giorno, oppure quello che lasciavi la sera, lo riprendevi la mattina seguente. Con i colleghi ho avuto un bel rapporto: eravamo una decina di ragazze, si andava parecchio d’accordo.

D: Il tuo titolo di studio è stato utile per il lavoro?

R: Più che utile per il lavoro, è stato utile per cultura personale.

D: Che titolo di studio hai?

R: Diploma di terza media. Quella volta era obbligatorio studiare fino alla terza media.

D: Tu avresti voluto continuare?

R: Con la testa di adesso sì, ma quella volta no. Non mi piaceva andare a scuola, preferivo lavorare, però, pensandoci adesso, mi pento moltissimo.

D: Come ti sei trovata negli ambienti di lavoro?

R: In tipografia mi sono trovata subito bene, era un bell’ambiente. Ho fatto subito amicizia con tutti e mi sono trovata d’accordo con le colleghe. Invece la gelateria non era un vero e proprio lavoro, l’ho fatto solamente per tre mesi ed ero ragazzina.

D: Quali problemi hai dovuto affrontare cercando il lavoro?

R: In quegli anni era facile trovare lavoro, trovavi facilmente occupazione anche negli ospedali, conoscevo tante ragazze che lavoravano come infermiere, anche ragazze del mio paese. In fabbrica poi c’era sempre posto, in qualsiasi fabbrica.

D: Mi racconti un’esperienza lavorativa significativa, negativa o positiva?

R: Un’esperienza negativa sicuramente l’ho avuta quando sono stata a Lignano: sono stati quei tre mesi là, forse perché ero ragazzina, e non ero mai stata fuori di casa. Quella invece della tipografia è positiva, perché andavo in città, ho fatto esperienze belle, positive. Era un bel lavoro, pulito, mi piaceva farlo. Per cui mi alzavo anche volentieri alle sei e mezza. Andavo in corriera e stavo via tutto il giorno. Prendevo la corriera alle sette e venti e a pranzo si mangiava un panino nell’ora di pausa. Si iniziava alle otto, si timbrava il cartellino fino a mezzogiorno, poi, se c’erano straordinari da fare, si faceva fino

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all’una e poi dalle due alle sei. Poi prendevo la corriera e tornavo a casa.

D: Secondo te, per una donna è difficile lavorare?

R: Adesso sì, adesso ci vuole un bel titolo di studio sennò ti devi adattare alle pulizie, ai lavori di casa.

D: Come era il tuo contratto di lavoro?

R: Il contratto era di tre mesi di prova, poi venivi assunta, non mi ricordo un mese, tre mesi e poi venivi assunta.

D: Il contratto cosa stabiliva?

R: Non mi ricordo, erano venti anni fa. Veniva trascritto un contratto, la paga mensile, poi c’era l’aumento perché all’inizio sei apprendista, poi passi operaia. Non mi ricordo quanto prendevo allora. Quando ho finito nell’ Ottanta avrò avuto uno stipendio di 1.800.000 - 1.700.000 lire.

D: E in che anno hai cominciato?

R: Nel 1971 e ho finito nel 1980.

D: E l’ambiente di lavoro com’era?

R: Piacevole perché si era parecchie donne, ragazze, poi si era “libere”, nel senso che non eravamo sempre controllate dal padrone, per cui si era abbastanza libere anche nel parlare. Dopo qualche anno, qualche ragazza si è sposata e ha lasciato il lavoro, si diminuiva sempre più e poi, quando ho finito io, hanno finito parecchie di loro. E poi la fabbrica è stata chiusa, si sono messi in società alcuni operai e dopo è stata prelevata da un altro proprietario.

D: L’essere donna ha causato discriminazioni?

R: No, a me no, mai. Chiaro che era sempre favorito il maschio in rapporto alle donne. Comunque io non ho mai subito discriminazioni per il fatto di essere donna.

D: Sulla base della tua esperienza, pensi che per una donna il lavoro sia importante?

R: Il lavoro per una donna è importantissimo, sicuramente per essere indipendente e per non essere sottomessa all’uomo. E importante sarebbe scegliere il lavoro che  piace, perché stare tante ore  occupata in un lavoro che proprio non va, è spiacevole.

D: Ti sei accorta se qualcuno ha cambiato o persoil  posto di lavoro dopo il 1976, anno del terremoto?

R: No, avevo ventitré anni e dalle mie parti non sono crollate fabbriche. I disastri erano più  a nord e io, gente della Carnia, di Gemona e di Maiano, non ne conosco.

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D: Che ruolo hanno i figli nell’organizzazione familiare?

R: Un grande ruolo. Io ho smesso di lavorare appena rimasta incinta. Mi piacevano i bambini e preferivo crescere i miei figli piuttosto che trascurarli per il lavoro. Io avevo paura di essere impreparata a fare la madre, non potevo pensare di lasciare a casa i bambini ad altri e io essere al lavoro.

D: Famiglia e lavoro possono coincidere?

R: È un problema. Se una persona lavora fuori casa, è un sacrificio che qualcuno deve fare. Certamente un aiuto lo devi avere, perché qualcosa dopo il lavoro in famiglia manca, perché arrivi stanca e stressata per problemi di lavoro e non riesci mai a fare bene nessuno dei due lavori.

D: Pensi che i figli possano essere un ostacolo per il lavoro?

R: Per una persona che vuole fare carriera, sì. Per me non sono stati un ostacolo.

D: Hai mai partecipato alla vita pubblica?

R: Non ho mai partecipato alla vita pubblica, perché non mi è mai interessato aderire a qualsiasi forma di impegno pubblico.

 

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Interviste alle donne di terza generazione

 

 

Ilenia, nata nel 1970

 

D: Qual è stato il tuo percorso scolastico?

R: Il percorso scolastico da me intrapreso si è articolato come segue: dopo aver concluso i cicli di elementari e medie, ho conseguito il diploma di ragioniere-programmatore in un istituto tecnico commerciale. Al termine di questi cinque anni ho frequentato tre corsi di specializzazione della durata di circa sei mesi l’uno. Questi corsi riguardavano rispettivamente edilizia, impiantistica e segreteria notarile.

D: La scelta della scuola è stata facile o difficile?

R: La scelta della scuola è stata dettata dall’età. A quattordici anni è difficile avere ben chiaro cosa si vuole dal proprio futuro e quindi genitori e professori delle medie hanno un grosso peso sulla scelta delle superiori. Per quanto riguarda una possibile frequentazione dell’università, le opportunità c’erano tutte, ma siccome ero già a vivere da sola e necessitavo di un lavoro, mancavano sia le possibilità economiche che quelle di tempo da dedicare allo studio.

D: Quando sei entrata nel mondo del lavoro?

R: L’accesso nel mondo del lavoro è arrivato nel 1991, puntuale, appena terminati gli studi superiori, in concomitanza con lo svolgimento dei corsi di specializzazione. All’inizio univo la frequentazione dei corsi di specializzazione ad attività lavorative part-time, dopodiché ho iniziato a lavorare a tempo pieno.

D: Il titolo di studio è stato utile o no?

R: Il titolo di studio da me conseguito mi è stato utile solo da quando svolgo il lavoro di insegnante, più precisamente assistente di laboratorio. In precedenza le mansioni da me svolte non richiedevano assolutamente le conoscenze che mi aveva fornito la scuola da me frequentata.

D: Quale professione hai fatto?

R: Nella carriera lavorativa fin qui intrapresa, ho svolto molteplici professioni. All’inizio, il desiderio di indipendenza dalla mia famiglia mi aveva spinto a svolgere diverse attività: due anni in fabbrica, come allevatrice di cavie da laboratorio, progettista d’impianti, banconiera, fiorista e segretaria. Più avanti decisi di costituire un’azienda di cui ero amministratrice e che mi portava via gran parte della giornata: lavoravo infatti dalle quattordici alle diciotto ore circa.

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Per il peso di quest’attività decisi di abbandonare e di entrare nell’ambiente scolastico che inizialmente mi deluse. Avevo già fatto domanda nel 1992 per ottenere incarichi di insegnamento. La delusione derivò dall’errato rapporto tra la mia generazione e quell’attuale, che trovo molto diversa dalla mia, poco impegnata e volitiva, poco interessata a imparare. Concilio attualmente il mestiere d’insegnante con l’attività di animatrice e di progettista d’impianti,  inoltre svolgo  attività di volontariato e pratico l’atletica.

D: Qual è stato il tuo percorso formativo?

R: Il mio percorso formativo si è diviso in due grandi filoni: quello scolastico, comprendente il diploma di ragioniere-programmatore e i corsi svolti, e quello lavorativo con le molteplici mansioni svolte.

D: Quali sono le caratteristiche degli ambienti di lavoro?

R: Le caratteristiche degli ambienti lavorativi a mio giudizio sono positive nel loro complesso. Nella mia carriera e in tutte le attività che ho svolto ho sempre cercato di fare esperienza e di trasformare anche gli aspetti negativi in fattori di crescita. Il lavoro per me non è mai stato considerato esclusivamente fonte per vivere, ma lavoro per vivere meglio.

D: Come sono stati i contratti di lavoro?

R: In passato ho lavorato molto in nero, questa tipologia di lavoro era molto diffusa e io ho dovuto accettare anche queste  occasioni che mi si sono presentate. Attualmente sono assunta regolarmente, dato che lavoro in una scuola statale come assistente di laboratorio e questo tipo di contratto è molto più soddisfacente a livello personale.

D: Qual è la posizione della donna nel lavoro?

R: Agli inizi della mia carriera lavorativa, ho spesso riscontrato discriminazioni nell’atteggiamento degli uomini nei confronti delle colleghe donne. Questo succedeva quando lavoravo in ambienti prettamente maschili. Ma anche a scuola fu la differenza tra i sessi che mi fece optare per un istituto tecnico commerciale piuttosto che per un tecnico industriale, una scuola strettamente maschile. L’atteggiamento discriminatorio fa sì che la donna debba lavorare molto di più per raggiungere livelli più alti dell’uomo per quanto riguarda la carriera. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, sono uscita dalle discriminazioni dimostrando le mie capacità e lavorando sodo.

D: Come hai gestito i rapporti familiari con il lavoro?

R: È il lavoro che mi ha permesso di raggiungere l’indipendenza economica e lasciare la casa paterna. Non volevo più gravare sui miei genitori e, grazie a un loro aiuto iniziale e ai miei sacrifici, sono riuscita a prendere casa.

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D: Com’ è composta la tua famiglia?

R: Non ho figli, ma un mio gran desiderio è quello di mettere su famiglia. È per questo che faccio progetti solamente a medio termine, in modo da potermi svincolare dall’attività lavorativa senza problemi quando sarà necessario.

D: Quante donne sono presenti nel tuo ambito lavorativo?

R: I primi lavori da me svolti erano prettamente maschili, la presenza di donne era quindi esigua. Ora che lavoro in una scuola le donne sono particolarmente presenti, in questo settore certamente in maggior numero rispetto agli uomini.

D: Il tuo lavoro è fisso o part-time?

R: Il mio lavoro è fisso, ma dato che dura solamente mezza giornata mi consente di dedicarmi all’ attività che più mi appassiona, come l’atletica, e di prestare la mia opera in attività di volontariato, cioè l’assistenza alle persone anziane.

D: Qualcuno ti ha dato una mano?

R: Fino adesso gli unici ad aiutarmi sono stati i miei genitori. In ambito lavorativo non ho mai ricevuto aiuti, né tanto meno raccomandazioni.

 

 

Alessandra, nata nel 1973

 

D: Qual è stato il tuo percorso scolastico?

R: Ho frequentato l’Istituto Professionale “G. Mattei” di Palmanova per cinque anni, seguendo l’indirizzo di gestione aziendale.
            D: In base a quali criteri hai scelto la scuola? Che ruolo e importanza ha avuto la famiglia nell
’indirizzo agli studi?

R:  Nella scelta della scuola mi sono fatta aiutare dai miei genitori e in più a scuola con i professori facevamo degli esercizi di autoanalisi per orientarci a una scuola superiore adatta alle nostre capacità; da questo lavoro era poi emerso che per me era più adatto un corso di studi a medio-lungo termine e infatti nella scuola che poi ho frequentato c’era la possibilità di finire dopo tre anni o proseguire fino ai cinque anni con una specializzazione, e io ho optato per quest’ultima scelta.

D: Il titolo di studio è stato utile o no?

R: Il mio titolo di studio mi è stato molto utile perché mi ha offerto una possibilità in più, facilitandomi l’entrata nel mondo del lavoro nello stesso settore

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nel quale mi sono specializzata.

D: Quando è avvenuto l’accesso al mondo del lavoro?

R: Sono entrata nel mondo del lavoro nel 1994. Appena finita scuola, ho lavorato per tre anni come cassiera presso un supermercato di Bagnaria Arsa; in seguito, dopo ripetute domande di lavoro, sono stata contattata da una ditta che si occupa della manutenzione e dell’affitto di piccole imbarcazioni e yacht dove, dopo un lungo colloquio di lavoro, sono stata assunta come segretaria, lavoro che tuttora svolgo con passione.

D: Come giudichi la tua professione?

R: Mi piace molto il mio lavoro, infatti faccio ciò per cui ho studiato. Sono soddisfatta ed è proprio quello a cui ambivo.

D: Quali sono le caratteristiche nell’ambiente di lavoro?

R: Ho l’ufficio in comune con il datore di lavoro e con il perito che si occupa della gestione interna dell’azienda; gli altri dipendenti, i meccanici, si occupano della manutenzione e riparazione delle imbarcazioni.

D: Com’è il tuo contratto di lavoro?

R: Il mio contratto di lavoro è a tempo indeterminato: lavoro dal lunedì al venerdì dalle nove alle tredici e dalle quindici alle diciannove, per un totale di quaranta ore settimanali.

D: Qual è, a tuo avviso, la posizione della donna nel lavoro?

R: La donna è ancora molto svantaggiata: il più delle volte viene posta in secondo grado rispetto all’uomo e in molti ambienti di lavoro si pensa ancora alla donna come casalinga con il grembiule che lava, pulisce, cresce i figli e prepara il pranzo per il marito. Personalmente nel mio ambiente di lavoro mi sento accettata e a mio agio, soprattutto il mio capo (che adesso è diventato un amico) è stato molto comprensivo e disponibile quando ero incinta; successivamente, quando è nato Thomas mi ha ridotto l’orario di lavoro concedendomi di lavorare qualche ora in meno per dedicarmi al mio bambino.
           
D: Quante donne sono presenti nel tuo ambito lavorativo?

R: Nel mio ambito lavorativo sono l’unica donna tra tanti uomini, che fortuna eh?

D: Cosa hai avuto dal lavoro?

R: Dal lavoro ho avuto molto, soprattutto ho avuto la possibilità di realizzarmi in campo professionale e di raggiungere l’autonomia economica.

D: Come hai gestito i rapporti familiari con il lavoro? Qualcuno ti ha dato una mano?

R: Nel 1998 quando aspettavo il bambino, ho lavorato fino al settimo mese di gravidanza e poi sono stata a casa in maternità dedicando a mio figlio

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tutto il mio tempo e godendomi ogni istante dei suoi primi dieci mesi di vita. Quando ho dovuto rientrare al lavoro, distaccarmi da lui è stato davvero difficilissimo. Da quando ho ricominciato a lavorare io e mio marito abbiamo avuto un aiuto costante dai miei genitori e dai miei suoceri, che badano al piccolo nelle ore in cui noi lavoriamo. Quest’anno Thomas ha iniziato l’asilo, ma, dato che è ancora piccolo, lo accompagno io al mattino prima di andare al lavoro, perché ho l’orario flessibile e a mezzogiorno, dopo il pranzo, va mio marito a prenderlo e lo porta a casa, dove passa il pomeriggio con una babysitter. Devo ringraziare il mio capo se ho avuto la possibilità di gestire la mia vita familiare in questo modo e conciliarla con il lavoro, perché, se non avessi potuto stare accanto a mio figlio almeno nei primi dieci mesi, avrei dovuto licenziarmi, come invece ha fatto una mia amica che si è trovata costretta a scegliere tra la famiglia e la carriera.

D: Tuo figlio ti ha condizionato in ambito lavorativo?

R: Mio figlio mi ha condizionato mentalmente in quanto sono sempre in apprensione per lui, essendo la più grande gioia della mia vita.

 

 

Eleonora, nata nel 1975

 

D: Fino a quanti anni sei andata a scuola e quale titolo di studio hai conseguito?

R: Ho studiato fino a diciotto anni, ho frequentato regolarmente tutti i cinque anni di scuola superiore e ho conseguito il diploma di perito contabile.

D: Il titolo di studio che hai è importante per il tuo lavoro?

R: Assolutamente no, ora faccio tutt’altro lavoro, almeno per ora. In futuro spero però di fare il mestiere per il quale ho studiato; non perché non mi piace la mia occupazione attuale, ma perché adesso ho l’impressione di aver buttato via cinque anni di scuola.

D: È stato difficile scegliere una scuola superiore? Qualcuno ti ha influenzato, consigliato o è stata una scelta autonoma? Che ruolo ha avuto la famiglia nell’indirizzarti?

R: No, non è stata una scelta difficile; ho pensato di iscrivermi all’istituto tecnico commerciale perché mi piaceva il lavoro che questi studi potevano offrirmi. Al momento dell’iscrizione, in terza media, avevo già  in mente che cosa fare.  No, nessuno mi ha influenzato, né imposto quella scuola; sono stata consigliata dai professori delle scuole medie, dagli amici più grandi e dai miei genitori. Secondo me, i  miei genitori mi hanno dato la possibilità di scegliere autonomamente, perché non volevano farmi frequentare una scuola contro la mia volontà e poi avevano confermato la mia scelta, perché pensavano che

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un istituto tecnico fosse la scuola giusta per me, a differenza di un liceo, molto più impegnativo. Ci tengo a sottolineare che i miei genitori non mi hanno imposto niente, perché in altri casi ho visto che spesso sono proprio loro quelli che obbligano i figli a iniziare un determinato percorso scolastico contro la loro volontà, come è successo ad alcune persone che conosco.

D: Completati gli studi, hai trovato subito lavoro?

R: Sì, ho trovato subito una occupazione. Ho svolto due lavori: prima come cameriera in un ristorante, nel quale ho lavorato pochi mesi, poi me ne sono andata perché ho trovato un impiego più comodo, come saldatrice, in una piccola fabbrica qui in zona.

D: Nel tuo ambiente di lavoro c’erano più donne o più uomini? Hai trovato delle discriminazioni?

R: Ci sono più uomini. Non ho trovato alcun tipo di discriminazione, uomini e donne hanno più o meno gli stessi compiti.

D: Com’è il contratto di lavoro? Lavori regolarmente o in nero? Il tuo posto di lavoro è fisso?

R: Sono soddisfatta del mio contratto di lavoro, il lavoro è fisso e il mio datore di lavoro è una persona seria, di cui ci si può fidare,;non ho mai lavorato in nero e non so neanche se lo farò. Riguardo all’orario di lavoro, attualmente faccio turni di sette, otto ore: dalle quattordici alle ventidue oppure dalle sei alle dieci. Il mio stipendio è buono, per adesso mi basta perché non ho una forte necessità di denaro, vivo ancora con i miei genitori; lo stipendio lo risparmio quasi tutto. Infine, riguardo ai licenziamenti, posso dire che sono rari anzi rarissimi; comunque questo è un aspetto soggettivo, dipende dalla serietà di un lavoratore.

D: Quali sono i pregi e i difetti del tuo lavoro?

R: Il mio lavoro ha un solo difetto: la routine, ogni giorno faccio sempre la stessa cosa, c’è mancanza di stimoli. Ogni giorno, quando mi alzo la mattina, so cosa mi capiterà nella mia giornata lavorativa; neanche la scuola mi dava questa impressione! Il lavoro, a differenza della scuola, mi dà l’autonomia economica e l’indipendenza dalla famiglia, tante volte con il mio lavoro posso anche dare una mano ai miei genitori.

D: La scelta del lavoro, e il lavoro stesso hanno subito condizionamenti?

R: No, il lavoro non è stato particolarmente condizionato, anche se fossi sposata; secondo me, i veri condizionamenti ci sono se si hanno dei figli.

 

 

Lorenza, nata nel 1977

 

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D: Come è avvenuta la tua formazione scolastica?

R: Ho frequentato per cinque anni il liceo pedagogico che sostituisce le magistrali di una volta. Ho compiuto questa scelta da sola, senza essere influenzata e tenendo in considerazione le materie che più mi interessavano. Non essendo sicura di quello che avrei fatto da grande, ho optato per un tipo di scuola che mi desse un diploma senza poi essere obbligata a frequentare l’università. Non mi sono pentita della scuola che ho fatto, anche se speravo in una preparazione migliore per accedere al mondo del lavoro. In seguito ho frequentato un corso post diploma finanziato dal fondo europeo, scelto in base agli interessi maturati col tempo. È stato molto interessante e importante, perché mi ha dato conoscenze più specifiche e lo stage che ho compiuto mi ha dato la possibilità di metterle in pratica. Ritengo di avere delle qualità, legate al mio carattere, che mi danno la possibilità di svolgere al meglio possibile il mio lavoro. Ad esempio sono testarda e ciò mi porta a lottare fino in fondo in ciò che credo, chiaramente mi fermo prima,se sto sbagliando.

D: Come è avvenuto l’accesso al lavoro?

R: Mi sarebbe piaciuto svolgere un’attività in campo medico o fisioterapico. Ma per accedere a questi corsi di laurea bisogna passare delle selezioni che io non sono riuscita a superare. Successivamente ho sviluppato altri interessi. Il fatto d’essere donna non ha mai influito sulle mie scelte o sulle mie opportunità. Per la ricerca del lavoro, ho risposto ad annunci, inviato il mio curriculum e mi sono rivolta anche alle agenzie di lavoro, che però non mi hanno aiutato. Non ho incontrato grandi difficoltà durante i colloqui, anche perché a scuola avevo studiato psicologia e comunicazione, che mi sono state utili per superare la tensione. Il fatto di essere donna non mi ha creato problemi; gli unici ostacoli, all’inizio, sono stati il fatto di non possedere la patente e la macchina (necessarie, se il posto di lavoro è lontano da casa e se si fanno turni). Anche il fatto di non avere esperienze  lavorative per qualcuno era un problema, ma ciò era causato anche dal fatto che avevo appena finito scuola.

D: Quali sono stati i percorsi lavorativi?

R: Quando andavo a scuola, durante l’estate, ho lavorato come commessa in un negozio d’abbigliamento e come magazziniera in un supermercato. In entrambi i casi sono stati i padroni dei negozi a contattarmi, perché mi conoscevano e infatti venivo pagata in nero. Sono state esperienze positive, perché mi hanno permesso di guadagnare un po’ di soldi e di rendermi conto di cosa significa lavorare. In seguito sono  stata assunta regolarmente come apprendista presso il supermercato dove avevo lavorato precedentemente. Attualmente lavoro sempre presso il supermercato, ma sono alla ricerca di un’altra occupazione, che mi dia la possibilità di mettere in pratica le conoscenze possedute, che mi dia maggiori soddisfazioni (anche dal punto di vista economico) e mi permetta di crescere e di imparare ulteriori cose, visto che il mio attuale impiego non offre possibilità di crescita professionale.

D: Insomma, non sei  soddisfatta del tuo lavoro.

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R: Non sono molto soddisfatta del mio lavoro, anche perché svolgo anche altre mansioni al di fuori del contratto, ad esempio lavoro anche come cassiera. Inoltre, non ho molta libertà nella gestione delle mie ferie, decise dal datore di lavoro, e le ore di permesso mi vengono concesse con difficoltà. Il mio è un lavoro a tempo pieno, ma vorrei un lavoro part-time per riuscire a gestire meglio impegni personali e familiari.

D: Come sono i rapporti interpersonali sul luogo di lavoro?

R: Il rapporto instaurato con i colleghi è ottimo, in quanto c’è molta collaborazione; i superiori, invece, sono poco aperti al dialogo e poco disponibili verso le mie necessità.

D: L’essere donna ti ha causato problemi?

R: Il fatto di essere donna, come già detto, non mi ha creato problemi (forse perché sia colleghi che superiori sono in prevalenza donne). La mia condizione lavorativa sarebbe migliore, se trovassi un altro lavoro che mi piaccia di più, o se potessi passare a un livello superiore, ad esempio quale responsabile di reparto.

D: Come ritieni sia la condizione della donna nel mercato del lavoro?

R: La donna al lavoro? Anche se riescono ormai a inserirsi in quasi tutti i campi lavorativi, le donne godono ancora di poca stima o fiducia. Spesso sono anche obbligate a mettere in secondo piano aspetti importanti come i figli e la famiglia che causano impedimenti nella realizzazione professionale.

D: Come concili il lavoro con la gestione della famiglia?

R: Sono sposata da due anni e, lavorando otto ore al giorno, non è facile gestire la casa; comunque cerco di sfruttare il tempo libero e di organizzarmi al meglio. Per fortuna mio marito e io ci dividiamo i compiti sia per quanto riguarda la casa sia nell’educazione di nostro figlio di un anno. Ci riusciamo perché abbiamo orari diversi. Mio marito lavora come impiegato presso un’azienda. Non mi ha mai influenzato o condizionato nelle mie scelte di lavoro, si è solo limitato a consigliarmi.

D: È cambiato qualcosa con la nascita del figlio?

R: Ho lavorato fino al settimo mese di gravidanza e poi sono rimasta a casa fino al compimento del decimo mese di mio figlio. Quindi sono rimasta a casa circa un anno, che mi è stato concesso dal datore di lavoro dopo molte insistenze (voleva tornassi un paio di mesi dopo il parto). Durante la mia assenza sono stata sostituita da un’altra persona ciò ha comportato al capo l’esborso di un doppio stipendio. Finora non mi sono mai assentata dal lavoro per motivi di salute di mio figlio. Cerco di tenere separato il lavoro dalla gestione familiare, ma non sempre, a esser sincera, sono tranquilla al lavoro, sapendo che mio

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figlio non è con me. Comunque la maternità è un diritto delle donne, che dovrebbero essere libere di scegliere quando avere un figlio, anche se purtroppo spesso non è così. D’altra parte oggi è importante anche lavorare per affrontare il mondo e tutte le sue difficoltà. Per fortuna io e mio marito riusciamo entrambi ad essere molto presenti nella vita di nostro figlio, nonostante gli impegni di lavoro. Inoltre siamo aiutati dai nonni.  Per mia libera scelta ora sto cercando un lavoro part-time per poter seguire e  crescere mio figlio nel migliore dei modi.

D: Hai ricordi del terremoto del 1976?

R: In quell’anno non ero ancora nata, quindi non ho dei ricordi personali. I miei genitori mi hanno raccontato dei disagi legati al fatto di non avere più una casa e della paura rimasta nel periodo successivo. Ciò nonostante mi hanno spiegato anche la forza di ricominciare: le aziende, le scuole, la gente stessa. Rinacque pian piano l’economia, dando da lavorare a tanti che, stipendiati, riuscivano a comprare beni di consumo, riattivando a catena i commerci.

 

 

Sara, nata nel 1979

 

D: Che lavoro svolgi?

R: sono impiegata presso un ufficio vendite, un lavoro nel quale si è sempre a contatto con i clienti.

D: Che tipo di contratto lavorativo è il tuo e quando hai iniziato a lavorare?

R: Il mio è un contratto di apprendistato che dura più o meno due anni. Ho iniziato a lavorare nel giugno 2000, prima di allora svolgevo dei lavori part-time come baby-sitter.

D: Quale scuola e quali corsi hai frequentato?

R: Ho frequentato per cinque anni l’Istituto Tecnico Commerciale “L. Einaudi” di Palmanova, optando per il progetto Erica, con specializzazione linguistica; dopodiché ho seguito un corso di  lingue della durata di sei mesi, nei quali ho avuto l’opportunità di recarmi per quindici giorni in Germania per perfezionare il mio tedesco.

D:  In che cosa consiste il tuo lavoro, si deve essere specializzati in qualcosa per praticarlo?

R: Essenzialmente il mio lavoro si basa sul contatto diretto con i clienti, rispondere al telefono, prendere le varie ordinazioni. E logico che nel lavoro che faccio una buona conoscenza delle lingue, quando si tratta di clienti stranieri, è indispensabile; inoltre bisogna sicuramente saper usare il computer per poter

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inserire i vari ordini nel sistema e avere una base del commercio.

D:  Che grado di autonomia possiedi all’interno dell’azienda?

R: Avendo iniziato da poco, il mio grado di autonomia è assai scarso, ma sicuramente è aumentato rispetto ai primi mesi. Quando ad esempio manca il direttore, non ho nessuno che mi dice cosa devo o non devo fare e quindi devo arrangiarmi, dando il meglio di me stessa; naturalmente alla fine della giornata c’è più soddisfazione sia da parte tua che da parte dei superiori e ciò mi spinge a fare sempre meglio. All’inizio poi avevo da svolgere mansioni più generiche, ora invece sono sempre più specifiche.

D: Oltre alle conoscenze apprese a scuola e nei corsi, che altre caratteristiche bisogna avere per svolgere il tuo lavoro?

R: Ci vuole molta determinazione e soprattutto si deve essere soddisfatti del lavoro che si fa, perché, come ti dicevo prima, ciò dà la carica per non arrendersi mai e per continuare a migliorare; è questa secondo me la chiave del successo.

D: C’è molta rigidità nel lavoro che fai?

R: La rigidità di un lavoro dipende soprattutto dai responsabili, ma in caso di necessità si cerca sempre di agevolare qualcuno. Quando una ditta è piccola,  è di conseguenza anche flessibile; man mano che si amplia, è necessario avere delle regole fisse e ben precise. La ditta in cui lavoro è in un periodo di piena espansione, le vendite non si limitano solo al mercato nazionale, ma si espandono anche sui mercati internazionali; ad esempio abbiamo contatti anche con il Brasile e Hong Kong.

D: Per ottenere il lavoro che svolgi attualmente, hai dovuto sostenere un colloquio?

R: No, non ho dovuto sostenere nessun colloquio, avevo già lavorato in questa azienda tramite gli stage che organizza la mia scuola. I responsabili sono stati soddisfatti del lavoro che avevo svolto e così, appena terminati gli studi, mi hanno assunto.

D: Hai qualche consiglio da dare per chi vuole intraprendere la tua stessa strada?

R: Innanzitutto posso consigliare di seguire dei corsi specializzanti, perché in fondo in fondo sono quelli che ti preparano meglio ad affrontare il duro mondo del lavoro; e poi bisogna avere tanta voglia di fare e di lavorare per cercare di farsi una posizione.

 

 

Elisa, nata nel 1980

 

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D: Che titolo di studio hai conseguito?

R: Perito agrario specializzato in viticoltura ed enologia. Ho scelto questo ramo perché ero affascinata dal settore del vino e mi dava la possibilità di un futuro lavoro molto dinamico, che non mi tenesse tutto il giorno seduta davanti a una scrivania. Questo titolo di studio apre le porte solitamente a un pubblico strettamente maschile, ma io ci ho voluto provare ugualmente e ce l’ho fatta. Mi sono diplomata quest’anno, dopo sei lunghi anni, con ottimi voti, infatti ho raggiunto un punteggio di novantacinque centesimi. Sono molto orgogliosa di me stessa, ho superato anche molti uomini e ho dimostrato di essere migliore di loro.

D: Fino a che età hai frequentato la scuola?

R: La frequento tuttora, anche dopo aver terminato le superiori; mi sono iscritta all’Università di Udine dove studio Scienze e tecnologie alimentari. Avrei preferito rimanere nel settore del vino, ma il corso di laurea di viticoltura ed enologia è situato a Cormons e non ho i mezzi per raggiungerlo. Così per comodità, ma anche per una maggiore possibilità di lavoro, ho scelto di andare a Udine. Ho iniziato da poco, una settimana, ma mi trovo bene. È molto interessante pensare che al massimo fra quattro anni potrò essere laureata.

D: Hai mai avuto qualche esperienza di lavoro?

R: Sì, a parte qualche piccolo lavoretto come la raccolta dell’uva, due anni fa ho lavorato per circa due mesi in una cantina vinicola. E anche quest’anno ci sono tornata. È un lavoro molto duro, senza orari fissi,  ma è la mia passione e non mi pesa faticare.

D: Era inerente a quello che hai studiato?

R: Certamente, praticamente tutto quello che avevo imparato a scuola l’ho applicato nell’attività.

D: È stato difficile trovare lavoro?

R: Per me no, perché un mio amico lavorava già lì e quindi mi ha presentata al padrone dell’azienda; comunque, anche se ero raccomandata, ho svolto al meglio le mie mansioni e nessuno si è mai lamentato con me.

D: Qual era lo stipendio che percepivi ?

R: Il primo anno, dato che ero una sottospecie di aiutante, ho percepito uno stipendio minore rispetto al ragazzo assunto regolarmente per tutto l’anno; e poi io non ero ancora diplomata, quindi non avevo un titolo di studio. Comunque per circa due mesi di lavoro ho guadagnato circa 1.600.000 lire. Quest’anno invece, avendo terminato le superiori ed essendo stata assunta non più come aiutante ma come unica lavoratrice in mancanza deltitolare, per due mesi di lavoro ho guadagnato circa 3.100.000 lire.

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D: Un uomo è più facilitato nelle assunzioni nel tuo settore?

R: Indubbiamente sì, perché la forza fisica è molto gradita ed è indispensabile per questa attività. Io sono stata fortunata perché non sono proprio molto esile e quindi, anche se con difficoltà, sono riuscita a farcela.

D: Quanti dipendenti ha l’azienda in cui hai lavorato?

R: Non molti, perché è a conduzione familiare: il padrone, che aiuta come può oltre che  comandare, un contabile che svolge il lavoro d’ufficio, e un enotecnico che controlla la produzione del vino.

D: Secondo te, le casalinghe si possono considerare lavoratrici?

R: Adesso come adesso no. Sì, è un lavoro pesante e stressante accudire la casa, ma per essere considerato un lavoro vero e proprio dovrebbe essere retribuito e assicurato. Tutto questo per concedere alle casalinghe un’indipendenza economica e, oltre a seguire casa e famiglia, per avere una certa libertà.

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Note

 

Per esigenze di riservatezza non sono stati riportati i cognomi delle donne intervistate che costituiscono il campione della ricerca e talvolta i nomi sono di fantasia; non così le date di nascita o i riferimenti a luoghi o situazioni scolastiche e di lavoro, poiché questi particolari aiutano a inquadrare più efficacemente le loro testimonianze nel contesto spaziale e temporale. Fanno eccezione i riferimenti istituzionali, i nominativi degli insegnanti, dei relatori e dei collaboratori coinvolti nel progetto, delle personalità pubbliche a vario titolo intervenute, che invece sono riportati con esattezza.

Le età delle testimoni, espresse in anni, sono riferite all’anno 2000, alla data di registrazione delle interviste. Dove è stato possibile, si è mantenuta la forma di oralità linguistica originale, con una trascrizione fedele delle interviste. 

Le foto pubblicate sono inedite e provengono da collezioni familiari degli insegnanti e degli allievi.

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Bibliografia – Sitografia

 

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Bibliografia relativa al Friuli

 

Benvenuti, Gianantonio, Lavoratrici del settore tessili di Gorizia (1926-50).

Camarano B., Le donne nel mondo, Presidenza Consiglio Ministri – Comm. Naz. Pari Opportunità – Numeri e idee, 1995 (Inv. 389152 Misc. 28.20.16).

CISL Udine, Coordinamento donne territoriale - Le donne, la parità, il lavoro e le pari opportunità  (8.3.1989).

CRES Udine, Mercato del lavoro e movimenti migratori in Friuli: indagine sul reinserimento professionale, sociale e abitativo dei lavoratori rimpatriati negli ultimi dieci anni (1981-82) CRES 7 vol. (N. inv. 343739 Coll.: 6  X.E.17).

Del Duca G., Viaggi, esperienze, amori di donne friulane del sec. XX - Immagini e Memoria - ed. Bibl. Imm. PN (2PP8.45).

Grandinetti R., Artigianato e politiche regionali in FVG, 1989, Confederazione regionale dell’artigianato.

Il caso Friuli,  Il campo, 1979.

Il Friuli Venezia Giulia nell’economia e società italiana, Il Campo,  1986.

229

James P. D., Il lavoro inadatto a una donna, Milano, Club Editori, 1989.

L’audacia insolente, Marsilio.

Manfredi, Tomat, Il cotonificio udinese (Inv. 366967 Coll. 2.LL.1058).

Marpillero, Storie di donne friulane, Bibl. Imm. (coll. 2.00.18.42).

Mauri, Billari, Generazioni di donne a confronto, Regione FVG , Franco Angeli, 1998.

Pessina, G. ed E., Evoluzione della personalità (ricerca condotta su donne) friulana in Udine nell’ultimo quarantennio (60°Congresso SFF 1943-60).

Piccola e media industria e politiche regionali, Il Campo, 1984.

Politiche regionali e realtà della cooperazione: una ricerca sull’esperienza del FVG, Il Campo, 1990.

 

 

Quotidiani friulani

 

Il Friuli - 1848-1923 (microfilm)

Il Gazzettino - 1920 circa  (solo cartaceo)

Il Giornale del Friuli - 1926-31 (microfilm)

Il Giornale di Udine - 1896-1925 (idem)

Il Lavoratore friulano - 1904-20; 1921-25; 1945-46-47-49 (idem)

Il Messaggero Veneto - dal 1946

Il Popolo del Friuli - 1932-43 (CD)

La libertà - 1945-47 (microfilm)

La Patria del Friuli - 1877-1931 (idem)

 

 

Riviste femminili

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Bernardis - L’attività editoriale in Friuli dal 1945 al 1984 - Contributo ad una bibliografia sistematica: aggiornamento 1985-86

Rinaldi - Il giornalismo politico friulano dall’Unità alla Resistenza

Zaccuri - Il Friuli fra cronaca e storia: periodici in Friuli

 

Fotografie

 

Archivio Fotografico Pignat - Castello

Associazione Fotografica Friulana - Spilimbergo

Domenicali, I. - Oscura parlò, convinse, lottò: Virginia Tonelli, medaglia d’oro della Resistenza friulana, Il Poligrafo, 2000

Fondo Marini - Gruppi di difesa delle donne (volantini 1944 - 1945)

IFSML - Teresina Degan - Industria tessile e lotte operaie a Pordenone 1840-1954 , Del Bianco ed.

IFSML (Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione)

Renzulli G., Economia e società in Carnia fra ‘800 e ‘900. Dibattito politico e origini del socialismo

 

 

Testi e pubblicazioni reperiti attraverso i contatti e consultabili presso la biblioteca dello Zanon

 

Agenzia Regionale Impiego,  Lavoratori avviati al lavoro e cessati nell’anno 1999.

ALEF, Nuova Emigrazione (Rivista) Speciale suppl. n.3, ott. 1991.

Bof F., La Cooperazione in FVG dalle origini alla II guerra mondiale, Unione Reg. Coop. FVG, Udine, 1995.

Commissione Pari Opportunità, Risorsa Donna: quale progettualità per gli anni 2000, 1994.

Comune di Martignacco, Atti del I Convegno “La donna nella cultura e nella realtà friulana dal 1945 ad oggi”.

Donna e società (Rivista) - n. 33 e 39, 1975, 1976.

231

ECAP-CGL, Formazione e qualifica: la donna nel mondo del lavoro, 1977.

ENAIP, Sex Worker: reti sociali, progetti e servizi per uscire dalla prostituzione, AESSE, 2000.

ERMI, Annuario dell’immigrazione nel FVG, 1999.

Feminis pal mont: storie di donne emigrate.

Immigrazione: solidarietà e integrazione, sfida necessaria, 1991.

Mattioni F., - Che Coop sei: alla scoperta della cooperazione del FVG., 1999.

Presidenza del Consiglio dei Ministri, La donna italiana dalla resistenza ad oggi, 1975.

Provincia di Udine, Annuario Statistico dell’Immigrazione in Friuli Venezia Giulia.

 

 

Istituzioni

 

Comune di Udine - https://www.comune.udine.it/

Archivio di Stato Udine - http://archivi.beniculturali.it/ASUD/

Associazione degli industriali della Provincia di Udine - https://www.confindustria.ud.it/

Camera di Commercio di Udine - https://www.pnud.camcom.it/

Università degli Studi di Udine - Fondazione Centro Ricerche Economiche e Formazione - https://www.uniud.it/it/ateneo-uniud/ateneo-uniud-organizzazione/altre-strutture

Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia - https://www.irsml.eu - Il sito si propone di assicurare la più completa e ordinata documentazione del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia Giulia;

Associazione Imprenditrici e Donne dirigenti - www.aidda.org/

Lega Cooperative Udine - http://www.legacoopfvg.it

ANOLF – Associazione nazionale oltre le frontiere - http://www.anolf.it/

CARITAS - http://www.caritas.it

Commissione Regionale per le pari opportunità

232

https://www.consiglio.regione.fvg.it/cms/pagine/commissione-pari-opportunita/

 

Associazioni e studi

 

Società Italiana delle Storiche - http://www.societadellestoriche.it- L’Associazione si propone come struttura di aggregazione che consenta di valorizzare l’esperienza e la soggettività femminile e di rinnovare ricerca e insegnamento sulla base di specifici e adeguati criteri di rilevanza e di priorità.

Unione Femminile Nazionale - http://www.unionefemminile.it/ - L’Unione Femminile Nazionale è stata fondata nel 1899 a Milano da un gruppo di donne (tra le quali Ersilia Majno, Ada Negri, Jole Bersellini Bellini) come un’associazione-ombrello in cui si raccogliessero le diverse società femminili, specie operaie.

Banca dati femminili Lilith - http://www.retelilith.it/ - La Rete di centri di documentazione, archivi e biblioteche delle donne raccoglie e diffonde documentazione e informazione sulla memoria, la politica e la ricerca delle donne.

Server donna - http://www.women.it/ - il progetto ha le finalità generali di introdurre i saperi delle donne non solo nell’ insieme delle informazioni e dei servizi web di Internet che si intende offrire, ma al più ambizioso livello del software e dell’ hardware.

Storia delle donne - http://www.fordham.edu/halsall/women/womensbook.html - In inglese, raccoglie i più importanti riferimenti nel web sulla storia di genere in tutto il mondo e per tutte le epoche.

 

 

   

 

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Inserto fotografico

 

 


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Matrimonio, 1939


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Banchetto di nozze, 1950


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Matrimonio, 1960

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Matrimonio, 1985


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Banchetto di nozze 1993

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Un padre, 1985


241

 

 

 

 

 

Gruppo di famiglia patriarcale, 1928


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Un padre, 2000


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Amiche, 1950

244

Amiche 1950


245

 

 

 

 

 

Classe femminile di scuola elementare, 1921


246

 

 

 

 

 

Classe mista di scuola elementare, 2000


247

 

Scolare, 1925

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Esame di terza media 1948


249

  

 

 

 

 

Esame di terza media, 2000


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Classe di scuola elementare, 1960


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Gruppo di sartine ricamatrici, 1922


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Operaie in sciopero, 1977


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Lavoratrice CoCoCo, 2000


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Manifestazione, 1980

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